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 2015  agosto 02 Domenica calendario

LA MORTE DAL CIELO MALEDIZIONE DEL CLAN BIN LADEN

WASHINGTON.
Nella colonna di fumo nero e grasso sprigionata da un aereo privato trasformato in pira funebre si consuma, in un piccolo aeroporto a ovest di Londra, l’ultima tragedia di una famiglia benedetta da un’enorme ricchezza e oppressa dal macigno di un nome: i Bin Laden. Non ci sono — non sembra che ci siano — misteri, dubbi, “gialli”, sullo schianto del piccolo jet privato Phenom 300 di fabbricazione brasiliana partito da Milano che ha ucciso una delle molte matrigne di Osama bin Laden, una sorellastra, il marito e il pilota giordano, soltanto un atterraggio lungo e sbagliato. Ma anche un incidente riaccende, come le fiamme che si sono alzate dai resti del Phenom, le luci del mondo sopra un tentacolare clan saudita che ama vivere e prosperare nella penombra.
C’è sempre un aereo, c’è sempre una morte che viene dal cielo nei momenti che segnano la storia di una famiglia di musulmani yemeniti trapiantati in Arabia Saudita. Da lì sospinti dalla marea del petrolio e dai favori della famiglia regnante Saud, dilagarono in tutto il mondo, da Riyad alla sede centrale a Ginevra della Sico, la Saudi Investment Company, a Londra, Dubai, Curacao, Boston, Houston, Rio de Janeiro, Parigi fino alle grotte di Tora Bora nei monti afgani e poi a quel fortino di Abbottabad in Pakistan dove Osama, la pecora nera, fu abbattuto dai Navy Seals. Piovuti naturalmente dal cielo, con gli elicotteri.
Sempre il cielo. Il patriarca fondatore della dinastia Bin Laden con battaglioni di mogli (almeno 54) e di figli e nipoti, l’uomo che sedusse Re Fahd e da lui ottenne il faraonico contratto esclusivo per la ristrutturazione e la manutenzione della Mecca, morì nello schianto del suo aereo privato sui monti dell’Asir, in Arabia Saudita, mentre volava verso il suo 23esimo matrimonio nel 1967. Il figlio Salem, erede principale di un portafoglio ormai immenso di commesse, aggiunto ai 500 milioni — miliardi di oggi — in liquido lasciati a ogni erede maschio, si sarebbe disintegrato nel 1988 contro i tralicci dell’alta tensione a San Antonio, in Texas. La società di aerei privati creata dai Bin Laden portava il suo nome, Salem Air, e, in un ultimo tocco casuale quanto fatale, il Phenom caduto a Blackbushe portava sull’impennaggio di coda la stessa sigla di identificazione dell’areo che aveva ucciso Salem: Hz-Ibn. Di nuovo, puntuale, la morte dal cielo, come la vendetta del karma. Dal cielo erano piombati i jumbo jet civili dirottati per ordine di Osama che avrebbero sbriciolato le vite di 3mila innocenti l’11 settembre del 2001, come dall’alto sarebbero arrivati 10 anni dopo, nel maggio 2011, i giustizieri della notte per la strage di Abbottabad. Osama non fu sepolto, o cremato, o fatto scivolare dalla coperta di una qualsiasi nave militare ma, naturalmente, da una portaerei. Tra gli aerei.
Ma se le tragedie, subite o causate, della più potente famiglia saudita dopo quella regnante hanno sempre avuto una componente aerea, la loro potenza discretissima ha radici ben affondate nella terra, nella ragnatela sotterranea di relazioni con i potenti del mondo. Chi ha cercato di ricostruire la rete di interessi e rapporti incrociati dei Bin Laden, come il Pulitzer Steve Coll, si è perduto in un labirinto stordente di 700 pagine. C’è tutto nella loro storia, che, attraverso la forza dei petrodollari sgorgati dall’oceano nero che sciaborda sotto i deserti della Penisola Arabica, raggiunge ogni continente.
Salem, il fratello maggiore di Osama fulminato in Texas, era il socio della prima, disastrosa iniziativa imprenditoriale di un giovane Bush, George W., figlio del già potente George H., entrambi futuri Presidenti degli Usa. Furono i Bin Laden a rilevare dalle mani dell’inetto George W. la società Arbusto, arguta trovata dello stesso baby George perché traduzione in spagnolo di “bush”, facendolo guadagnare, nonostante la società fosse fallita. Un’opera di bene, a futura memoria.
Nelle filiali svizzere, altri Bin Laden lavorarono segretamente con personaggi vicini alla Cia, collaborazione che sarebbe culminata nel 1988 con la promessa del re di finanziare la guerra dei mujaheddin contro “gli infedeli” invasori sovietici, insieme con Reagan. I Bin Laden, con Osama l’ingegnere non ancora ripudiato dopo il 9/11, fornirono l’infrastruttura per sostenere la resistenza afgana dal Pakistan.
È un viluppo impossibile da dipanare o generalizzare. C’erano donne di nobili sentimenti, come Sana bin Laden, la sorella di Osama morta nello schianto, che in patria dedicava il proprio tempo e le proprie fortune al lavoro con gli orfani ed era conosciuta dai bambini come “Mama Sasa”. Ma altri che sollevavano dubbi, molto prima dell’ascesa di Osama alla guida di Al Qaeda. Quando un assalto sanguinoso di fondamentalisti alla Mecca nel 1979 fu reso possibile dai mezzi del responsabile dell’impresa, Masur bin Laden, la corona saudita lo sospettò di complicità. Masur riuscì a evitare il carcere, sostenendo di essere stato all’oscuro di tutto e affidandosi alla clemenza dell’amico sovrano. I 63 assalitori, arresi, furono decapitati sulla pubblica piazza.
Anche sul taglio secco dei rapporti con il fondatore di Al Qaeda, condannato ufficialmente e inequivocabile dal capoclan del momento, Bakr, e dai 13 fratelli che compongono il cda senza alcun estraneo, è stato messo in dubbio, quando una fonte sussurrò a Le Monde che qualche robusta iniezione di fondi familiari riusciva a raggiungere il Pakistan e da lì filtrare fino al fratello reprobo e latitante. Era un padre non esemplare, che comunque provvedeva a una ventina di figli sparsi in tutto il mondo e la famiglia, per i Bin Laden, è la famiglia.
Si prese cura di loro anche il governo americano, nei giorni del grande panico dopo la strage del settembre atroce. Molti Bin Laden vivevano sparsi per gli States, bloccati dalla chiusura totale dei cieli. Dovettero aspettare, nascondendosi e nascondendo quel cognome che, senza alcuna colpa né complicità, li avrebbe esposti al linciaggio di un popolino furioso, che già si era scatenato contro innocenti colpevoli soltanto di “sembrare arabi”. Intervenne Richard Clarke, allora boss dell’antiterrorismo a Washington per permettere a donne, uomini e bambini marchiati con quel cognome di noleggiare un Boeing 727 privato, volare nel Tennessee e da lì, con un Gulfstream di proprietà dei Bin Laden, essere portati sani e salvi in Arabia Saudita. Quella volta il cielo gli aveva sorriso.
Vittorio Zucconi, la Repubblica 2/8/2015