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 2015  agosto 01 Sabato calendario

RIVOLUZIONE CON IL 4-2-4

Quando i carrarmati sovietici entrarono a Budapest nell’autunno del 1956 per schiacciare la rivolta, la Grande Honved di Puksas era in trasferta. La notizia dell’invasione sorprese la comitiva in Belgio: tutti decisero di non rientrare in patria, troppo pericoloso. Soltanto qualcuno tornò a Budapest, Boszik fu tra questi; gli altri iniziarono una tournée che li portò in ogni parte del mondo. Era un circo di fenomeni in perenne movimento: saltavano da un paese all’altro a caccia di quattrini. Si fermarono solo quando sbarcarono in Brasile, al porto di Santos, probabilmente incantati più dalle bellezze locali che dal clima. Giocarono un paio di partite, fecero vedere al pubblico brasileiro che cosa fosse il calcio europeo e, infine, si sciolsero. Ci fu chi volò in Spagna, chi in Portogallo, chi in Inghilterra. Solo uno di loro rimase laggiù, nella terra del samba: l’allenatore Bela Guttmann. E in poco tempo scrisse una pagina rivoluzionaria nella storia del pallone.
SENZA LOGICA Viene da chiedersi che cosa sarebbe successo se la Grande Honved non fosse stata in trasferta quando i carrarmati sovietici entrarono a Budapest. La risposta resterà un mistero, di certo però il mondo non avrebbe conosciuto la bellezza del 4-2-4, o forse l’avrebbe conosciuta con anni di ritardo. Già, perché la rivoluzione di Guttmann fu proprio questa: disegnò, prima sulla lavagna e poi sul campo, una squadra che pareva impossibile, una specie di sogno, quattro difensori, due soli centrocampisti e addirittura quattro attaccanti. Con quel modulo, che gli esperti giudicavano «senza logica», vinse e influenzò intere generazioni di allenatori, a cominciare dal ct brasiliano che al Mondiale 1958 impostò la sua Seleçao secondo il 4-2-4, fece meraviglie e portò a casa il primo trofeo.
DAL DANUBIO A SAN PAOLO Guttmann era un ebreo ungherese che aveva ottenuto, a metà degli anni Venti, la cittadinanza austriaca. Centrocampista di talento, era stato uno dei campioni che avevano fatto le fortune dell’Hakoah Vienna, la squadra ebraica della capitale. Quando cominciò ad allenare non fece altro che trasmettere ai suoi allievi quella sublime lezione di tecnica: la partita, per lui, era musica. In Brasile, dopo le partite con la Honved, venne ingaggiato dal San Paolo: i dirigenti gli chiesero di vincere il titolo, che mancava tra troppo tempo, e gli diedero carta bianca. Lui, maniaco del lavoro, costruì qualcosa che si avvicinava moltissimo alla perfezione. In quel periodo anche in Brasile si giocava secondo il sistema, persino la Seleçao, e a lui toccò dimostrare che quel modulo non aveva futuro. Disse, molto semplicemente: «Il sistema è uno schema che non funziona perché sono i giocatori a doversi adattare a esso. Io voglio creare qualcosa che si adatti ai giocatori, sono loro i veri interpreti». Si trattava di una rivoluzione copernicana.
REGOLE SEMPLICI La prima cosa che Guttmann fece fu strana: appese alla porta degli pneumatici, alcuni ai pali e altri alla traversa, e obbligò i calciatori a indirizzare il pallone nel buco. Era un modo per migliorare la tecnica e la capacità di tiro. Guttmann voleva che le qualità individuali dei suoi ragazzi fossero elevatissime. Una delle sue vittime preferite era l’ala sinistra Canhoteiro: bravissimo nel dribbling, arrivato davanti alla porta avversaria aveva scarse capacità di tiro. Guttmann gli fece sostenere estenuanti sedute supplementari di allenamento, e il risultato fu che Canhoteiro diventò uno dei migliori giocatori brasiliani, un idolo del San Paolo. Al suo fianco si muovevano Zizinho, che nonostante l’età non più verdissima (37 anni), dispensava saggezza; De Sordi, terzino che sapeva attaccare e difendere; Dino Sani, re del centrocampo e motore della squadra. Il modulo era semplice: si doveva attaccare in sei e difendere in sei. I due centrocampisti erano sottoposti a un lavoro logorante, ma con l’aiuto dei compagni nulla era impossibile. Il calcio predicato da Guttmann prevedeva lanci lunghi quando l’azione era nella propria metà campo, e passaggi brevi e rapidi quando il pallone stazionava vicino all’area avversaria. E poi una regola, tanto elementare quanto spesso disattesa anche nei tempi moderni: quando sei in possesso della sfera, smarcati; quando invece il pallone ce l’hanno i nemici, marca. «Il calcio è tutto qui», ripeteva.
IL SIGILLO La sera del 29 dicembre 1957 il San Paolo vinse il campionato battendo il Corinthians (3-1) e fu allora che tutti si resero conto della genialità dell’idea di Guttmann, perché alla fine sono sempre i successi a decretare la bontà di una «trovata». Il 4-2-4 paulista prevedeva che le due ali, Amaury e Canhoteiro, dessero una mano in fase di copertura e rimpattando in questo modo tutta la squadra. Il principio-base era quello di accorciare le distanze tra i reparti, più o meno la stessa cosa che ripetono gli allenatori di oggi: ma Guttmann predicava questi concetti sessant’anni fa... E continuò a predicarli anche dopo aver lasciato il Brasile: giramondo per indole, incapace di stabilirsi in un posto e costruirsi una vita tranquilla, insegnò calcio ovunque e scoprì talenti a ogni latitudine. Eusebio fu uno di questi. Sotto la guida di Guttmann il Benfica riuscì a interrompere l’egemonia del Real Madrid in Coppa dei Campioni. Poi se ne andò anche da Lisbona, lanciando il famoso anatema («Senza di me il Benfica non vincerà mai più una coppa europea») che dura ancora oggi. Era un tipo strano, Guttmann, un solitario che aveva bisogno di amici, un perfezionista che amava la fantasia e l’imprevedibilità, uno che sapeva osservare e capire anche ciò che stava sotto la superficie delle cose. Il resto, come diceva lui, sono chiacchiere.