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 2015  luglio 31 Venerdì calendario

ORO SPORCO

Uno squarcio nel grande mare verde dell’Amazzonia. Niente alberi, qui. Solo fango e acqua. Le riprese aeree della regione di Madre de Dios svelano un paesaggio desolato. La natura però non c’entra. A devastare la foresta è stato un esercito di disperati, avventurieri, banditi. Tutti cercano l’oro. Una febbre che dura da anni e ha fatto di quest’angolo remoto del Perù, al confine con Bolivia e Brasile, una sorta di terra promessa. Migliaia di aziende piccole e piccolissime, spesso composte da un solo nucleo familiare, si sono buttate sul business delle pepite.
“Oro sucio”, lo chiamano in Sudamerica. “Sucio”, cioè sporco, perché le miniere aggirano le leggi, quando ci sono, e distruggono la natura. Lavoro minorile e disboscamenti selvaggi sono la regola da quelle parti. Mentre i fiumi, e quindi i pesci, vengono avvelenati dal mercurio, che serve a segnalare la presenza di tracce aurifere nel terreno.
Un muro di corruzione e omertà protegge affari colossali. Le miniere di Madre de Dios sono al servizio delle multinazionali del trading. Sono questi i padroni del business mondiale dell’oro, i burattinai del commercio globale. Aziende svizzere, statunitensi, degli Emirati Arabi. I loro clienti sono le grandi marche internazionali della gioielleria oppure banche e investitori privati che acquistano lingotti. Ed ecco, allora, che i frutti della devastazione e del saccheggio dell’Amazzonia finiscono in vetrina nelle vie dello shopping oppure in cassaforte, come da tempo denunciano le organizzazioni non governative impegnate sul campo in Amazzonia.
Il Perù, con oltre 160 tonnellate annue, è il quinto produttore mondiale di oro. E le miniere illegali valgono almeno un quinto del totale. Significa che, a partire dal 2010, da Lima hanno preso il volo verso gli Stati Uniti, l’Europa e i Paesi arabi quasi 150 tonnellate di metallo fuorilegge, circa 30 tonnellate ogni dodici mesi. Un tesoro immenso: ai prezzi di questi giorni il valore di mercato di quelle 30 tonnellate sfiora il miliardo di euro. L’export aumenta di anno in anno, segnalano gli analisti, così come lo sfruttamento intensivo e selvaggio delle terre di Madre de Dios. L’oro sporco parte anche dal vicino Ecuador, dalla Colombia e dalla Bolivia, ma è in Perù che questi traffici criminali appaiono di gran lunga più ricchi e consolidati.
La caccia alle pepite coinvolge intere comunità, come racconta anche il video-reportage diffuso pochi giorni fa sul Web dalla rivista peruviana “Ojo Publico”. Una massa di contadini diseredati fornisce forza lavoro a costi irrisori per gli imprenditori. Poche aziende locali tengono in pugno il mercato peruviano. Si riforniscono dalle miniere illegali e poi rivendono la materia prima all’estero, ai grandi intermediari internazionali.
Cocaina e riciclaggio
I due prodotti, l’oro e la coca, sono diventati in qualche modo complementari. Il primo serve da paravento per la seconda e insieme garantiscono profitti miliardari. Il giornale “el comercio” di Lima ha calcolato, sulla base di documenti ufficiali, che la metà delle 120 aziende peruviane che esportano oro sono coinvolte in indagini che riguardano lo sfruttamento di miniere illegali, l’evasione fiscale e il riciclaggio di denaro. Negli ultimi anni, le pressioni internazionali hanno costretto le multinazionali del trading a darsi nuove regole. È vietato l’acquisto di materia prima che proviene da paesi in guerra oppure da regioni del mondo a rischio ambientale o dove viene sfruttato il lavoro minorile.
La London Bullion Market Association (Lbma), l’ente con base a londra che rappresenta produttori, commercianti e grandi compratori d’oro, si è dato un codice etico per combattere riciclaggio e violazioni dei diritti umani. l’iniziativa porta il marchio “responsible gold e dovrebbe servire a spazzar via dubbi e sospetti sulla provenienza del metallo prezioso che alimenta i grandi traffici internazionali.
Le vie del commercio illegale, però, sono infinite. Senza contare che le norme, infarcite di belle parole e grandi principi, si rivelano molto difficili da tradurre in atti concreti. Lo dimostra il caso del Perù, dove i governi locali, nonostante le buone intenzioni sbandierate in ogni occasione, per anni si sono limitati all’ordinaria amministrazione, evitando con cura di tagliare la strada ai boss dell’oro sporco.
È vero, nella regione di Madre de Dios di recente non sono mancati i blitz di esercito e polizia, ma si sono accaniti solo sulle piccole imprese. Un paio di anni fa le autorità hanno giocato anche la carta dell’ultimatum: i minatori fuori legge avevano 18 mesi di tempo per mettersi in regola. Trascorso questo termine, le sanzioni per i trasgressori sarebbero diventate molto più pesanti.
Niente da fare. Il governo ha mostrato i muscoli. Sono arrivati i militari. Alcune miniere sono state chiuse con la forza, ma il fiume dell’oro illegale continua a scorrere.
I BURATTINAI DEL MERCATO
Capita di rado, invece, che i grandi trafficanti inciampino nei controlli delle forze dell’ordine. Per questo in Perù ha fatto scalpore l’indagine che nel dicembre del 2013 ha portato al sequestro di un enorme quantitativo d’oro. Oltre mezza tonnellata, per l’esattezza 508 chili, già imballati e pronti per essere spediti.
Tra i destinatari di una parte di quel carico fermato in dogana c’era anche un’importante azienda italiana, la Italpreziosi di Arezzo. Che cosa è successo di preciso? Le cronache dei giornali peruviani raccontano che gli esportatori (sei aziende in tutto) non sono state in grado di dimostrare la provenienza della merce. Il sospetto era che il metallo giallo arrivasse dalle miniere illegali di Madre de Dios ed è stato sequestrato dalla polizia fiscale.
Dall’esame delle carte sono quindi emersi i nomi dei compratori. La lista comprende multinazionali del trading come le americane Northern Texas Refinery (NTR Metals) e Republic Metals Corp. (RMC), la Kaloti group di Dubai e anche Italpreziosi. «Il problema riguardava un nostro fornitore, con cui abbiamo subito interrotto i rapporti», spiega un portavoce della società.
In sostanza, le autorità peruviane avrebbero preso di mira solo l’esportatore, la società Giovanni Gold, senza chiamare in causa anche Italpreziosi. Il carico destinato all’Italia, peraltro, non superava i 18 chili, poca cosa rispetto alla mezza tonnellata bloccata prima che prendesse il volo. Capitolo chiuso senza danni, quindi, per un’azienda molto conosciuta nel mondo del commercio di preziosi. Ivana Ciabatti, amministratore e principale azionista di Italpreziosi, da gennaio scorso è presidente di Federorafi, l’associazione degli imprenditori del settore che fa capo a Confindustria. I bilanci raccontano di una crescita con il turbo. Solo otto anni fa, nel 2007, il giro d’affari viaggiava intorno ai 300 milioni, mentre i conti del 2014 si sono chiusi con ricavi per 1,7 miliardi.
Rotta su Arezzo
A differenza di altri grandi trader che si riforniscono da decenni in Perù, lo sbarco nel Paese andino dell’azienda toscana risale al 2008 e coincide, almeno dal punto di vista temporale, con la svolta strategica decisa da Ivana Ciabatti. «È stata mia l’idea di acquistare la materia prima alla fonte», ha dichiarato in una recente intervista la manager aretina. «Prima», ha spiegato, «l’oro da lavorare veniva acquistato in Svizzera». Da qualche anno invece Italpreziosi compra il metallo prezioso direttamente nelle zone di estrazione.
A Lima, però, l’azienda italiana non ha avuto vita facile. Oltre al fornitore finito nella rete della polizia fiscale, strada facendo Italpreziosi è inciampata in un altro problema. Un problema che porta il nome dei Sanchez-Paredes, potente famiglia peruviana da tempo nel mirino della Dea, l’antidroga statunitense, e della polizia peruviana che li accusano di traffico di cocaina.
I Sanchez-Paredes tirano le fila di un impero economico con decine di aziende, comprese due grandi miniere, la Santa Rosa e la San Simon, che per anni hanno venduto oro a molti clienti stranieri, tra cui anche Italpreziosi. Nell’ottobre 2012, un’inchiesta giudiziaria americana ha portato al blocco di alcuni conti bancari a NewYork. Alcuni erano intestati alle società minerarie dei Sanchez-Paredes, altri due invece facevano riferimento all’azienda di Arezzo. La vicenda si è chiusa nella primavera successiva con un’archiviazione. Il tribunale americano ha infine riconosciuto che Italpreziosi aveva avuto rapporti «in buona fede» con la sua controparte peruviana. Dopo questa sentenza l’azienda toscana ha quindi ripreso gli acquisti dalla miniera San Simon, mentre ha invece interrotto i rapporti con la Santa Rosa, meglio conosciuta sul mercato come Comarsa.
Raffinerie svizzere
Dati alla mano, le importazioni dal Perù dell’azienda guidata da Ivana Ciabatti si sono ridotte, almeno a partire dal 2014. Nel 2013 erano state acquistate oltre 14 tonnellate d’oro. Solo 400 chili nei primi cinque mesi del 2015. Altrove, invece, gli affari vanno avanti come sempre. Il principale mercato per gli esportatori peruviani resta la Svizzera. Ogni anno da Lima prendono il volo verso la Confederazione circa 130 tonnellate di oro per un valore che ai prezzi di mercato correnti sfiora i 4 miliardi di euro. Statistiche alla mano si scopre che l’80 per cento della produzione aurifera del Perù approda nelle raffinerie elvetiche, che sono di gran lunga le più importanti del mondo. Alcune di queste, come la Valcambi (appena acquistata dal gruppo indiano Rajesh) e la Pamp, si trovano a pochi chilometri da confine con l’Italia, nella zona di Chiasso.
In questo fiume di affari navigano anche dubbi e sospetti. Un colosso come la Metalor di Neuchatel, fondata nel lontano 1852, già una decina di anni fa era stata accusata dall’organizzazione umanitaria Human Rights Watch di comprare l’oro del Congo devastato dalla guerra civile. Più di recente, invece, è emerso che l’azienda svizzera era un grande cliente della peruviana Minerales del Sur, da più parti indicata come una delle più attive nella regione di Madre de Dios.
Anche la ginevrina MKS, un altro colosso mondiale nel trading di metalli preziosi, si è a lungo rifornita in Perù (circa 19 tonnellate solo nel 2011) presso le miniere della Universal Metal Trading. Fino a quando, nel 2012, la società mineraria con base a Lima non è stato travolta da un’inchiesta giudiziaria che la associava al riciclaggio di denaro. Quando la notizia è stata ripresa dai giornali svizzeri, la Mks ha immediatamente tagliato i ponti con il fornitore sotto accusa.
Troppo rumore per continuare come se nulla fosse. Sono passati tre anni da quello scandalo e le miniere di Madre de Dios non hanno mai smesso di lavorare. Segno che qualcuno, in Europa, guadagna ancora milioni con l’oro sporco del Perù.