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 2014  ottobre 12 Domenica calendario

QUANDO COME E PERCHÈ UNO DEI PIU’ GRANDI SCRITTORI DEL ’900 MI MANDO’ UNA MAIL – 

Uuna volta nella vita mi sono sentito membro di una comunità virtuale, e membro orgoglioso benché si trattasse di una comunità che evidentemente accetta gente come me. È stato quando ho ricevuto una e-mail da Kurt Vonnegut.
Com’era possibile che uno dei più grandi scrittori del Novecento, l’autore di quel Mattatoio n. 5 che al momento buono mi porterò nella decina di libri da tenere sull’isola deserta, l’uomo che pur di raccontare l’orrore dei bombardamenti su Dresda si fece rapire dagli alieni del pianeta Tralfamador, addirittura ex pompiere volontario e presidente della Società degli Umanisti Americani, rispondesse al messaggio di uno sconosciuto che pone una domanda banale?
Ovviamente non credevo ai miei occhi e ho anche pensato a uno scherzo tralfamadoriano, ma l’evidenza era contro di me: a scrivere era proprio lui. Una quindicina d’anni fa stavo lavorando a un romanzo in cui il protagonista per rievocare il passato e orientarsi nel caos della memoria usa come traccia (come le briciole di Pollicino nel bosco) certe storie di fantascienza psichedelica pubblicate negli anni ‘70 nella collana Urania. Fra queste la più folle, intitolata Venere sulla conchiglia, che raccontava l’odissea di un hippy alla guida di un’astronave fallomorfa dopo il nuovo diluvio universale, era firmata Kilgore Trout. Da adolescente non lo sapevo, ma Kilgore Trout è uno dei personaggi-chiave ricorrenti proprio nei romanzi di Vonnegut, a partire da La colazione dei campioni. Ora ero diventato un fan dello scrittore americano e per non scrivere spropositi provai a mandare la mia domanda all’indirizzo riportato sul suo sito: era davvero lui l’autore sotto pseudonimo di Venere? Rispose con grande cortesia ed estrema semplicità: il libro non era opera sua ma del suo amico Philip J. Farmer che con il nome di fantasia aveva voluto omaggiarlo, e Vonnegut mi ringraziava per il tempo «perso» a leggere le sue opere.
Non gli scrissi più, se non per ringraziarlo a mia volta, e per fortuna non gli dissi nulla di quel mio orgoglio da membro di comunità virtuale (da qualche parte, in qualche server, browser o comediavolo, c’erano ormai entrambi i nostri indirizzi), perché sarei rimasto gelato da uno dei suoi aforismi, che scoprii solo dopo la sua morte: «Le comunità virtuali non costruiscono nulla. Non ti resta niente in mano. Gli uomini sono animali fatti per danzare. Quant’è bello alzarsi, uscire di casa e fare qualcosa. Siamo qui sulla Terra per andare in giro a cazzeggiare. Non date retta a chi dice altrimenti».
Anche l’aforisma fu una scoperta fulminante, purtroppo postuma e voglio comportarmi proprio come probabilmente avrebbe fatto lui, sempre generoso con i suoi lettori, accumulandone qui di seguito un paio di altri, formidabili: «Per favore, un po’ meno di amore e un po’ più di dignità», «Consiglio all’aspirante scrittore: abbi pietà del tuo lettore», «Non preoccupatevi del futuro. Oppure, preoccupatevene, ma sapendo che tanto è un gesto inutile. Non vi aiuterà più di quanto masticare un chewing gum vi possa aiutare a risolvere un problema di algebra», «Fate ogni giorno qualcosa che vi spaventi». E poi quello che trovai inciso sopra il disegno di una lapide tombale, l’ultima volta che mi collegai al suo sito che stava per essere tolto dalla Rete: «La vita non è la maniera di trattare un animale». Così è la vita. Così (anche) era Vonnegut.