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 2015  luglio 05 Domenica calendario

«IO CAGLIOSTRO, MAGO D’AMORE E D’INGANNI»

Viaggio nella rocambolesca esistenza del ciarlatano, nato povero a Palermo nel 1743
Gli espedienti di un uomo che sapeva di alchimia e fu il massone più celebre d’Europa Signor Giuseppe Balsamo…
«Prego: Alessandro, conte di Cagliostro».
Lei sa benissimo di chiamarsi Giuseppe Balsamo. Il titolo di conte di Cagliostro è una sua tardiva invenzione.
«Cosa vuole da me?».
Fare due chiacchiere sulla sua rocambolesca vita.
«La vita di un martire del libero pensiero, del guaritore, dell’iniziato».
Ma anche dell’imbroglione e del lenone.
«Come si permette?».
Dove, e quando, nacque?
«Nel quartiere più squallido e diseredato di Palermo, l’Albergaria, l’8 giugno del 1743».
Figlio di chi?
«Di Pietro, piccolo mercante, e di Felicita, donna di casa e di chiesa, rimasta prematuramente vedova».
Dove studiò?
«Nel convento dei Fatebenefratelli, a Caltagirone, dove appresi i rudimenti dell’alchimia, come allora si chiamava la chimica».
E poi?
«Tornai in città e feci tesoro di quello che avevo imparato.
Come?
«Confezionando e vendendo filtri d’amore, elisir di lunga vita, creme di bellezza, pillole contro le carenze sessuali.
Una specie di Viagra.
«Ma molto più efficace».
Guadagnava abbastanza per sbarcare il lunario?
«No. Arrotondavo con piccole truffe: falsificavo cedole, gabbavo i gonzi, davo i numeri al lotto».
Non incappò mai nelle maglie della polizia?
«Più di una volta. Finché non decisi, ormai libero, di riparare a Messina».
E qui, cosa fece?
«Un incontro straordinario, decisivo per la mia vita e la mia carriera. Conobbi un certo Altotas che aveva, o così diceva, il segreto della pietra filosofale. Che, come lei sa, o dovrebbe sapere, trasforma la canapa in seta, il piombo in argento, l’argento in oro».
Faceste comunella?
«Sì. E ci recammo a Malta, quartier generale dell’Ordine che porta il suo nome. Mi fu messo a disposizione un laboratorio alchimistico ma, purtroppo, un esperimento fallì, Altotas perse la vita e io, fra il lusco e il brusco, lasciai l’isola e mi trasferii a Roma».
Quanti anni aveva?
«Venticinque. Uno dei miei tanti biografi, Maruzzi, così mi descriveva: “Non troppo alto, spalle quadrate, petto largo, testa forte coperta di capelli neri ondulati, collo rotondo e muscoloso, mani e piedi piccoli”. Ciò che in me più colpiva erano gli occhi, neri come il carbone, profondi come un abisso, scrutatori, imperscrutabili, magnetici».
Chissà quante donne!
«Ne ebbi a iosa finché conobbi Lorenza Serafina Feliciani. Un colpo di fulmine per entrambi».
Dove la incontrò?
«Casualmente a Trinità dè Pellegrini, dove il padre aveva una piccola bottega di artigiano, fonditore di latta».
Bella, Lorenza?
«Bellissima. Aveva quattordici anni, ma ne dimostrava molti di più. In lei tutto era perfetto. A cominciare dal seno, che sembrava uscito dallo scalpello di Fidia o di Prassitele».
La sposò?
«L’avrebbe impalmata anche lei. Era impossibile resisterle».
E dove andaste a vivere?
«In un modesto alloggio a Trinità dei Monti».
Come sbarcavate il lunario?
«Con espedienti non sempre leciti. Io vendevo le mie pomate e le mie pillole e anche mia moglie non stava con le mani in mano».
È vero che lei, per arrotondare, la prostituiva?
«L’hanno detto e scritto. Qualche volta l’avrò fatto, ma solo per denaro. Lei non amava che me».
Lasciata Roma, dove traslocaste?
«A Londra, dove approdammo nel 1776. Qui affinai le mie virtù di taumaturgo e d’indovino. Guarii malati che la scienza ufficiale aveva dichiarato incurabili e diedi a molte persone i numeri vincenti alla lotteria. I giornali cominciarono a parlare di me come di un veggente e operatore di miracoli. Divenni popolarissimo. Al punto che fui accolto nella massoneria. Fu in quell’occasione che mi ribattezzai Alessandro Cagliostro».
E il titolo comitale?
«Lo aggiunsi più tardi».
Un modo molto ingegnoso di far dimenticare la sua vecchia identità e le sue gherminelle.
«Dettagli. Sta di fatto che diventai il “muratore” più famoso d’Europa. Quando mi resi conto che i tempi erano maturi, fondai un mio rito, il rito egiziano, che, fra i suoi proseliti, annoverò personaggi illustri: re, principi, imperatori, prelati, banchieri, artisti. Assunsi il titolo di “Gran Cofto” e mia moglie, Serafina, quello di Regina di Saba».
Il suo nome era sulla bocca di tutti.
«Si parlava di me nelle corti europee e nei salotti. Le gazzette esaltavano le mie mirabolanti imprese. Tutti facevano a gara per conquistare la mia amicizia e avermi loro ospite. Anche il principe di Rohan, appartenente a una delle famiglie più altolocate e autorevoli della Francia, volle conoscermi».
E lei?
«Mi feci un po’ pregare (ma era solo una tattica) e mi trasferii nel suo magnifico palazzo a Strasburgo, dove mi venne allestito, come a Malta, un laboratorio alchimistico».
Come ricambiò?
«E me lo domanda? Con i frutti delle mie arti. Gli donai un brillante del valore di venticinque milioni, ricavato dal nulla. Purtroppo…».
Purtroppo?
«Il principe fu la causa involontaria della mia, e della sua, rovina».
Come andò?
«In totale, e ingenua, buonafede, il mio anfitrione mi coinvolse in quello che passerà alla Storia come “l’affare della collana”. Uno scandalo di proporzioni inaudite, che fece tremare la corte e nocque immensamente al buon nome della regina Maria Antonietta».
E lei?
«Fui arrestato e rinchiuso nella Bastiglia, che aveva ospitato per ben due volte il suo grande amico Voltaire, simbolo di quella Francia illuminista, contraltare alla mia visionaria e occultistica».
Fu processato?
«Sì. Ed espulso da quello che era diventato il mio Paese d’elezione. Riparai in Inghilterra».
Un brutto infortunio.
«L’inizio della fine».
Perché?
«Nella Perfida Albione l’affaire du collier aveva avuto un’eco enorme. Come se non bastasse, un volgare gazzettiere denunciò la mia vera identità. Ero ormai un uomo distrutto, brutalmente smascherato, indebitato fino al collo, roso dalla sifilide, forse grazioso dono di mia moglie. Non potevo più restare in Inghilterra e con Serafina-Lorenza partimmo per la Svizzera. Quindi, dopo una breve permanenza a Trento, ci mettemmo in viaggio per Roma».
Perché proprio Roma, dove c’era la Chiesa, c’era il Papa, che odiava la massoneria, almeno quanto i massoni odiavano lui? Le logge erano rigorosamente bandite e i suoi adepti passibili di arresto e condanne esemplari.
«Un errore fatale».
Può ben dirlo. Fu vittima di qualche delazione?
«Sì. E indovini di chi?».
Di qualche suo seguace infido?
«No: di mia moglie che, per paura, mi denunciò all’Inquisizione. Il 27 dicembre 1789, pochi mesi dopo la presa parigina della Bastiglia, gli sbirri pontifici arrestarono me e Serafina-Lorenza, che venne rinchiusa in un monastero».
E lei?
«Fui introdotto in una fetida cella del carcere pontificio di Castel Sant’Angelo».
Ci restò a lungo?
«Diciotto mesi. Fino alla condanna a morte, convertita (la misericordia della Chiesa è infinita) in ergastolo».
Che reati il tribunale le contestò?
«Avere negato “la maestria e la perfezione di Dio, la divinità di Gesù Cristo, la sua morte, la grande opera di redenzione, la verginità di Maria…”».
Non è poco.
«C’è dell’altro».
Che altro?
«Avere negato l’efficacia dei sacramenti, l’adorazione dei santi, l’esistenza del purgatorio, la dignità della gerarchia ecclesiastica».
Dopo la spietata condanna restò a Castel Sant’Angelo?
«No. Fui trasferito nella fortezza marchigiana di San Leo, in uno stambugio di pochi metri quadrati, infestato da topi, vermi, scarafaggi, cimici».
Quanto durò questo calvario?.
«Quattro anni e mezzo quando, finalmente, le cesoie di Atropo recisero il filo della mia tumultuosa esistenza. Il 26 agosto 1795, un colpo apoplettico mi liberò da quell’inferno».
E Serafina-Lorenza?
«Non ebbi più sue notizie. Forse, dimenticata da tutti, si spense in qualche convento. Come capitava spesso alle “peccatrici”, non escludo che sia stata murata viva.
La Chiesa, allora, era capace di questo e di altro».
«E non solo allora».