Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  luglio 05 Domenica calendario

L’INVENZIONE DELLE PON PON

NEW YORK Spegnete la musica, oscurate le paillette e ammainate i pom pom: il re del cheerleder Lawrence “Herkie” Herkimer è morto. Se ne è andato mercoledì nella sua casa di Dallas, con un attacco di cuore all’età di 89 anni, l’uomo che ha trasformato il tifo disordinato degli sportivi americani in una delle immagini più potenti, e più ricche, dell’identità nazionale. “Cheerleaders” si traduce male con i vari: “simpatizzanti”, “ragazze pon pon”, “sostenitori”, e tantomeno con la deriva di “ultras” che il tifo ha preso nel vecchio mondo. Chi ha visto all’opera un corpo di cheer leaders professionale sa che racchiude l’essenza dell’esuberanza spettacolare e un po’ naiive che è il cuore pulsante dell’America: in bilico tra la capriola acrobatica e i larghi affacci su cosce e seni delle ballerine; tra la marching band e la pole dance. Abbraccia campi vasti e disparati, dalla politica al business, passando per lo sport.
È stato Herkie a creare dal nulla questo brand che negli ultimi anni portava nelle sue sole tasche un fatturato annuale di 50 milioni di dollari, e che oggi conta un milione e mezzo di praticanti nel paese. Quando Larry aveva cominciato ad interessarsi del ramo, subito dopo la laurea nel ’48 con 600 dollari presi in prestito da un amico del padre, il cheerleading era un fenomeno da caserma, per lo più relegato ai tifosi maschi, che nelle università avevano iniziato a consorziarsi per far casino durante la gare sportive intercollegiali, unica licenza ammessa da un sistema educativo ancora molto rigido e puritano. Un oscuro e insospettabile cheerleader di quel tempo era stato Dwight Eisenhowwer, che finì poi per dirigere l’intero esercito americano e più tardi il paese.
IL SALTO
Herkimer intravide la potenzialità spettacolare del tifo organizzato, e iniziò ad addestrare in palestra gli uomini e le donne che intendevano praticarlo in modo più serio. Nel primo anno il numero degli iscritti passò da 52 a 350, e insieme alla popolarità arrivò quasi subito il merchandise: maglioni, gonnellini, stendardi. Fu Herkie a trasformare la rigida bacchetta da marciatore bandistico nel pom pom colorato che conosciamo oggi. E fu lui a inventare il salto che porta il suo nome: una spaccata aerea a braccia aperte che è una pura esplosione di energia, e che è diventato un classico per i moderni praticanti.
I pon pon, che Herkimer aveva importato dopo averli visti nella Macy’s Parade di New York, erano stati adottati in previsione dell’arrivo del colore in televisione, e questo passaggio fece decollare il cheerleading da fenomeno di festa paesana a entertainement su scala nazionale. Divenne sempre più un fenomeno femminile, e gli abiti si fecero sempre più succinti: il corpo di atlete-supporters dei Dallas Cowboys, capellone i testa e minigonna a ventaglio, divenne la punta di diamante di un business miliardario. A forza di scoprire centimetri di pelle, le ragazze entrarono nell’obiettivo di Playboy e di Penthouse, e l’immagine delle atlete-fan scivolò pericolosamente nella direzione di quella di una scuderia di partner sessuali compiacenti, a uso degli stalloni delle squadre sportive che le portavano a letto dopo le partite, nei college come nelle arene nazionali.
IL RISCATTO
A riscattare la categoria arrivò la disco music, e tra le fila delle cheerleader della squadra di basket dei Los Angeles Lakers, arrivò Paula Abdul. In pochi anni dal debutto da diciottenne, la giovane trasformò di nuovo il tifo acrobatico in gonnella in uno spettacolo all’interno dello spettacolo, con coreografie, luci e costumi che cambiavano di stagione in stagione. Il pubblico che andava a vedere le partite della Nba negli anni’80 a New York o a Chicago, accorreva a vedere i Lakers per Magic Johnson e Abdul Jabbar, ma segretamente aspettava l’intervallo di metà gara per vedere esibirsi Paula e le sue ragazze per appena dieci minuti. Le cheers divennero un corpo di ballo in sedicesimo, capace di esibirsi non solo sul parquet ma anche nei teatri di Vegas. Paula stessa uscì dall’anonimato per lanciarsi nello spettacolo come ballerina, cantante, attrice. Dal suo arrivo sulla scena il ruolo ha subito un’ultima, decisiva svolta verso la legittimazione professionale: quello che nonno Herkimer aveva concepito come una celebrazione di contorno dell’atleticismo in campo, è oggi una piattaforma di lancio per giovani donne di talento in cerca di successo personale fuori dall’arena sportiva.