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 2015  luglio 05 Domenica calendario

CITTÀ CHE VAI, «ROSICONE» CHE TROVI ROMA VINCE LA SFIDA DELL’ITALIANO GLOCALE

Città che vai, italiano che trovi. Qualcuno forse ricorderà Massimo Boldi che, nei panni di un buffo cuoco toscano, domandava: «Come si dice da voi a Milano?». Era più di trent’anni fa: gli chef non erano ancora master e il cibo non era ancora slow. Eppure anche oggi, se additando un pesce o una verdura o un frutto, chiedessimo «come si dice da voi?», potremmo sentirci rispondere in tanti modi diversi a seconda della città di provenienza. Spigola o branzino? Fagiolini o cornetti? Anguria o cocomero? Melone o popone? Sempre in tema di gusto e sapori (scarsi, in questo caso), quello che a Milano è insipido, a Roma è sciapo, a Napoli sciapito e a Firenze sciocco. Il titolo dell’ultimo romanzo di Domenico Starnone è Lacci, in copertina due scarpe legate tra loro. Ma in molte zone dell’Italia settentrionale e della Toscana quelli si chiamano stringhe, tra Venezia e Trieste c’è chi usa aghetti, tra Verona e Modena cordoni, a Firenze qualcuno li chiama spighette.
Non sono propriamente parole dialettali: sono parole o espressioni italiane, ma di uso locale. Retaggio di una secolare tradizione di divisioni e municipalismi, queste espressioni sono ben vive in vari ambiti della vita quotidiana. E spesso portano con sé un valore espressivo, giocoso, affettivo: basta pensare ai tantissimi modi usati in tutta Italia per esprimere il concetto di «marinare la scuola». Un riflesso della differenziazione geografica tipica dei linguaggi giovanili, che pure — nella loro base comune — devono molto a un primitivo nucleo milanese. È dal gergo snob dei giovani «montenapi», infatti, che dopo la metà del secolo scorso si diffondono i vari di brutto (tantissimo), non esiste (non va considerato), mai visto (eccezionale), montato (pieno di sé).
I saggi raccolti in un volume uscito da poco a cura di Pietro Trifone (Città italiane, storie di lingue e di culture) consentono di leggere in chiave storica queste differenziazioni geografiche. E di ricostruire il processo che, specie a partire dall’Unità d’Italia, ha portato verso una diffusione nazionale di voci originariamente locali. Manzoni, per dire, considerava tipiche dell’uso milanese espressioni come un uomo navigato o — per rimanere in tema alimentare, visto che siamo in tempo di Expo — un cibo pesante. All’inizio del Novecento, De Amicis censurava come «idiotismi» (cioè come voci regionali) il mugugnare del «bel garzonetto genovese», il fanatico per «vanesio» (attribuito al giovane abruzzese), il che bello e che caro considerati come usi veneziani. Da Venezia, tra l’altro, era partito il saluto ciao (in origine sciao «schiavo»). «Saluto un tantino sguaiato, che, per essere pronunziato a dovere, impone uno sgangheramento di labbra», come si legge in un libro di viaggio del 1871. E nel 1959, anche se a Sanremo Modugno trionfava cantando «ciao ciao bambina», lo Zingarelli definiva ancora ciao «espressione di saluto diffusa specialmente nell’Italia settentrionale».
Oggi il nostro italiano è sempre più glocal: una lingua che si arricchisce soprattutto grazie alle parole inglesi e a quelle di provenienza locale. E viene in mente la lingua inventata da Andrea Camilleri, che ha reso familiari in tutta Italia tante parole siciliane. O, prima ancora, il cosmopolitismo metropolitano di Pino Daniele: «I say i’ sto ccà/ me ’mbriaco e c’aggia fà/ me gira ’a capa ma voglio parlà». «Come si dice cocktail da voi a Milano?
Noi a Firenze si dice cocktail». Anche se l’italiano che oggi parliamo e scriviamo è nato sul modello dei grandi scrittori del Trecento fiorentino (Dante, Petrarca e Boccaccio); anche se il modello dell’italiano scolastico deriva da quello che Manzoni aveva risciacquato in Arno, oggi sono moltissime le parole in uso a Firenze che nel resto d’Italia suonano strane o oscure. Nel film di Pieraccioni Io e Marilyn, il protagonista a un certo punto viene preso di petto: «Il rubinetto lo chiamate la cannella, il tubo per innaffiare la sistola, e la tuta per la ginnastica a Firenze voi la chiamate il tony». (In una pagina del suo sito, l’Accademia della Crusca ci spiega che questo falso anglicismo viene da Toni, diminutivo di Antonio che ha preso nel tempo il senso di «pagliaccio» e, da lì, di «tuta da pagliaccio», poi «da lavoro» e infine — solo a Firenze — «da ginnastica»).
Ma, come nota Pietro Trifone, i municipalismi più citati nei giornali sono quelli considerati tipici della capitale. Negli ultimi dieci anni, la frase «come si dice a Roma» risulta tre volte più frequente di «come si dice a Milano» o «come si dice a Napoli». Accompagna parole del tipo di fregnaccia (stupidaggine), caciara (chiasso), sòla (imbroglio, raggiro), rosicone (invidioso). Voci che rimandano non tanto a un luogo geografico, quanto «a un luogo simbolico dell’immaginario nazionale». Tanto nazionale che molte di queste voci sono state accolte nel frattempo dai dizionari italiani. Tanto simbolico che un sindaco di Firenze sceso a Roma come presidente del Consiglio ha pensato di sceglierne una come parola bandiera. «C’è un esercito di gufi e rosiconi che spera che l’Italia vada male». E il risiko della politica italiana rischia di ridursi a un rosico.