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 2015  luglio 05 Domenica calendario

ADRIANA ASTI: SONO SUL PALCO DA 60 ANNI MA NON MI SENTO UN’ATTRICE

[Intervista] –
Oggi, alle quattro di pomeriggio di una domenica di inizio luglio, a 82 anni, Adriana Asti sarà in scena a Spoleto. Le poesie di Brecht: “Anche quelle americane”, le musiche di Kurt Weill e un titolo, Jadasmeeristblau, che più in là dei due mondi del Festival, la riporta al centro del proprio universo: “È un omaggio alla mia infanzia e alle scuole tedesche”. Il cavaliere al merito della Repubblica canta e incanta per 80 minuti. Lo fa da decenni, indossando e svestendo panni con la naturalezza e la leggerezza dei predestinati. Rosa Luxemburg per Faggi e Squarzina, Maria Brasca di Testori, l’Europa di ieri, le miserie lontane, le atmosfere di Stramilano: “Lo spettacolo che preferisco in assoluto” e le inquietudini di oggi perché Brecht, dice mentre fuma e offre da fumare: “Pur sciogliendo il dramma nell’ironia è sempre attuale e affronta drammi spaventosi. Aveva idee straordinarie ed eretiche, comunque”.
Ci parli dell’ironia.
Se ti chini sulla Germania, conservarla è necessario. Pur temendo di dire una cosa sgradevole e antipatica, azzardo: la Germania è pesante. C’è qualcosa di sé che la Germania non dimentica mai.
Brecht glielo fece conoscere Strehler?
Con Giorgio ho fatto 5 spettacoli, ma nessuno tratto da Brecht. Nonostante questo, non farsi investire dal culto era impossibile. Strehler parlava sempre e solo di Brecht. Lo straniamento. Il dentro e fuori dell’attore. Lo adorava e lo impose in Italia. Un tempo era più rappresentato. Il Piccolo aveva una specie di esclusiva. Detenevano i diritti. Ne erano gelosissimi.
Come arrivò al teatro?
Ero in vacanza. In montagna. A 17 anni. Incontrammo la compagnia del Carrozzone. Fantasio Piccoli e i suoi andarono a parlare con mio padre. “Manderebbe Adriana a recitare con noi?”
Suo padre la ostacolò?
“Prendetevela” disse. “Non è assolutamente capace di fare niente, tempo tre giorni tornerà a casa”. Invece andai per non tornare. Quelli del carrozzone viaggiavano davvero e io avevo una voglia pazza di perdermi in giro e scappare di casa. I ruoli erano piccoli. Feci uno schiavo ubriaco nel Miles gloriosus, e prima ancora, il debutto assoluto nei panni di un paggio ne La dodicesima notte. Avevo una sola battuta: “Vieni a me, vieni morte”.
Dicembre ’50. Teatro Stabile di Bolzano. All’improvviso manca la luce. Lei illumina la scena con una candela.
C’era un destino, ma la fiamma del mestiere non l’ho mai avuta. Nessuna pulsione verso il teatro. Nessun sacro fuoco. Ero timidissima, recitavo la poesia di Natale nascondendomi dietro la porta.
Ha recitato in decine di film e spettacoli teatrali. Ha vinto molti premi. È sul palco da più di sessant’anni.
La mia condanna, penso, per aver voluto lasciare a tutti i costi casa mia. La mia punizione. Gli spettacoli sono l’ultima cosa a cui penso nella vita. Io sto bene soprattutto quando non faccio niente. Quando ozio, leggo un libro, sto con gli amici.
Sono stati importanti?
Intendiamoci: io detesto il passato. Mi annoia profondamente. Non ci penso mai. Il passato è come un vecchio meraviglioso vestito che non indosserò più. Una cosa che osservi e ti viene una gran voglia di bruciare. Detto questo, gli amici sono stati fondamentali.
Pier Paolo Pasolini?
Un poeta. Con Sandro Penna, forse, l’unico. Di Pier Paolo ero amica. Viaggi, vacanze, intimità. Fu testimone di nozze del mio matrimonio con Fabio Mauri, con un vestito argenteo, stretto nella fotografia.
Lei partecipò al suo primo film, Accattone.
Pasolini sperava di farsi finanziare il film da Fellini. Federico aveva messo una produzione con Rizzoli, la Federiz, nata con l’obbiettivo di trovare talenti da far esordire. Pier Paolo girò un pezzo di Accattone, lo fece vedere a Fellini e quello, rapido, sentenziò: “Regista non diventerà mai, non lo può fare proprio”. Per fortuna subentrò Angelo Bini, ma all’inizio Pasolini non venne capito. Aveva uno sguardo prorompente, irritante, non convenzionale. Faceva qualcosa che prima non si era visto. Metteva i brutti in primo piano. Disturbava. Sul set invece era semplice e naturale. Nell’assegnazione dei ruoli: “Tu fai Amore, Adriana, una mignotta” e nella direzione della troupe. Non è che facesse chissà cosa, ma aveva carisma. Una cosa che non si compra e non si costruisce. Con Pier Paolo mi sono anche divertita tanto. Di Capriccio all’Italiana con un Totò in verde, ho bellissimi ricordi. Pasolini aveva quello che in musica chiameremmo l’orecchio assoluto.
In Accattone, Bernardo Bertolucci era l’assistente di Pasolini.
Complici di un momento creativo, siamo stati insieme due o tre anni. Poi ognuno per la sua strada. Prima della rivoluzione è un ricordo difficile e un po’ torturante. Mi somigliava troppo. Non l’ho fatto fischiettando e non ho capito subito che sarebbe stato un lavoro profetico e un racconto che avrebbe resistito al tempo. La verità è che quando giri non capisci mai quel che stai facendo. Bernardo comunque si impossessò di tutto quel che mi riguardava e lo mise nel film. Lo fece con Brando e prima di scrivere molti film diversi dagli inizi, un po’ con tutti. Prendeva le vite degli attori. Gli rubava tutto. Magari a plasmarli definitivamente non riusciva, però tentava.
Secondo qualche biografia improvvisata lei e Bertolucci avreste persino divorziato.
Ma perché scrivono queste sciocchezze? Per divorziare avremmo dovuto sposarci e io ho avuto solo due mariti. Di Mauri vi ho detto. Il secondo, da tempo immemore e con assoluto divertimento, è Giorgio Ferrara. Io e Bernardo siamo vicini di campagna, vecchi compagni di un tempo lontano, grandi amici. All’epoca, come facevo spesso, cambiai soltanto direzione. Sono una persona che va spesso da un’altra parte.
Morante, Moravia, Gadda, Bassani. Andando di qua e di là lei li ha conosciuti tutti.
Elsa era un demonio. Generosissima. Provocatoria. Drastica per gusti e indole: “Che autore piccolo borghese, Pirandello. A rappresentarlo non vi vergognate?”. Io ribattevo: “Tirate giù qualcosa voi invece di criticare” e quando Natalia Ginzburg scrisse Ti ho sposato per allegria messo in scena con grande successo nonostante le profezie di Zeffirelli: “Vi chiuderanno il sipario in faccia”, Elsa che per essere gentili diffidava della commedia, non ci vide più “Che cosa ignobile, volgare”. Prendeva e partiva per la crociata. Una volta elaborai un’Antigone con Peppino Patroni Griffi e la vidi paonazza: “Vi denuncio, chiamo la Polizia, non vi azzardate”. Era spiritosa, indomabile e forse persino più straordinaria di Moravia che pure aveva un profondo senso dell’umorismo.
A lei il sipario in faccia l’hanno mai chiuso?
Una sola volta, al Quirino. Atti unici di attori italiani. Sul palco – io in pigiama e lui in camicia da notte – Luca Ronconi. A un certo punto sentimmo una coda di pipistrello sulla faccia. Il sipario. Con ragione, erano andati via tutti. Il testo emanava una noia profonda.
Cosa ha amato del teatro?
La liturgia. Il loggione vuoto, la platea, l’atmosfera nei camerini prima dell’inizio, il palcoscenico. Recitare poi gratifica ed entusiasma. Faccio un lavoro talmente bello che puoi credere di far qualcosa anche se in realtà non stai facendo nulla.
Studiava gli altri attori?
Un privilegio. Al principio non sapevo fare niente e potevo godere di gente come Santuccio, Benassi, Brignone, Valli, Sbragia o Salerno. Attori che non finivano mai. L’uomo che mi ha fatto capire cosa fosse il teatro è Strehler, il resto l’hanno fatto gli incontri e in parte io.
Perché in parte?
Perché una sera mi resi conto che in fondo non mi dispiaceva che qualcuno mi ascoltasse. Mi applaudisse. Essere via da casa. Essere in un altro mondo lontano da Milano. Era importante.
Il suo rapporto con Milano?
Come si fa a non amarla? È una città divina. Anche da lontano. Senza voler contribuire anch’io all’orrore delle classifiche, rispetto a Roma, Milano è un’altra cosa. Ma la mia è una posizione minoritaria. Milano non piace a nessuno.
Roma e Milano sono diverse.
La diversità è il tratto distintivo dell’Italia. Siamo tutti radunati da 150 anni e invece i francesi sono tanti anni che tagliano teste e stanno tutti insieme. La patria, la patria, la patria. Si riconoscono. Noi no e sarebbe ridicolo il contrario. La parola patria da noi è vuota. Forse ha qualche valore per l’emigrante e per il tifoso che si emoziona con l’inno, gli altri della patria non sanno nulla. Ma insomma, via, non è una cosa grave.
A Milano è nata, si è affermata in teatro, è stata scelta per il cinema.
Dino Risi camminava in Via Dante. Mi vide. Mi prese per Buio in sala. A teatro invece ero all’Olimpia dove oggi c’è un supermercato o non so che. Recitavo in Noi moriamo sotto la pioggia con Valli. Una commedia – figuriamoci – scritta da Enzo Biagi per Andreina Pagnani. Strehler e Grassi vennero a vedermi per caso. Mi scritturarono per il Piccolo. Molti spettacoli. Elisabetta d’Inghilterra, Il revisore, Un caso clinico, Arlecchino. Adagio, adagio mi facevo strada.
Dopo i primi spettacoli lei lasciò il Piccolo.
Lilla Brignone mi cooptò per la sua compagnia e decisi di buttarmi all’avventura, ma l’imprinting di Strehler fu fondamentale. Non meno di quello di Visconti. Uno che non nascerà più. Per me ha rappresentato un riferimento costante.
Carattere ostile?
Un uomo sublime. Erano tutti pazzi di lui. Mi vide in un Goldoni: “Togliti subito questa parruccaccia”, “non posso, c’è un altro regista”, “Fai come ti dico, subito”. Rimasi affascinata. Conquistata. Luchino si faceva ascoltare. Per trasmettere il cuore di un personaggio, Strehler si appoggiava sulla cultura e sulla spiegazione razionale. Visconti te li faceva vedere. Te li faceva sentire. Li impersonava. Lo guardavi ammirato. “Magari potessi recitare così” dicevi. Lasciava tutti sconvolti. Femmine, maschi, bambini, gatti. Era incredibile.
Le dava consigli?
Su ogni cosa. Avevo doppiato Stefania Sandrelli e Claudia Cardinale per due diversi film e Luchino sentì il bisogno di dirmi la sua: “Smettila di prestar la voce a queste qui, che parlassero con la loro, altrimenti stessero zitte”. Diedi retta.
Lei ha visto cose strane.
Gassman, un attore superbo, pazzesco, ci obbligava a indossare le tute per andare a recitare di fronte agli operai. Cercava di allargare il pubblico, di sperimentare, metteva in scena Adelchi e Otello per persone che non avevano la minima idea di ciò di cui stesse parlando. Gassman era anche bello. Attraente. Seducente. Come De Sica. Adorabile mascalzone che metteva pile di copioni davanti alla porta fingendo di lavorare, per fuggire e andare a scommettere a Campione d’Italia. Con lui ebbi una bellissima parte in Una breve vacanza. Vittorio era un attore dal grande cuore, dal grande cinismo e dal grande coraggio.
Quanto coraggio le ci volle per spogliarsi?
Decise Luchino. Eravamo a Roma per Vecchi tempi di Pinter con Umberto Orsini e Valentina Cortese. A un tratto, distrattamente, a un passo dal debutto, Visconti lasciò scivolare un “Qui ti spogli, cara. Ti togli l’accappatoio e rimani nuda”.
Del ring a tre immaginato da Visconti rimasero il grande scandalo, la rabbia dello stesso Pinter seduto in platea per la prima e la causa legale che bloccò lo spettacolo dopo sole 35 repliche.
Lì per lì ebbi qualche perplessità anche io: “Ma come? Ho una gran parte, non sono mai stata una bellona e tu mi fai spogliare?”. Visconti mi fece tingere di biondo e andammo in scena. Si aprì un mondo.
Perché?
Mentre recitavo, non mi ascoltava nessuno. Capii che era fantastico star lì senza vestiti e poco dopo si aprì una ridicolissima carriera di nudo che però ho fatto molto volentieri. Mi sono divertita molto. Ero tutto tranne che un simbolo dell’erotismo e gli amici di sempre erano turbati: “Ma perché ti presti? Tu dovresti fare solo cose alte, intellettuali”.
Invece?
Invece me ne fregai e in ordine sparso piovvero Paolo il caldo, Homo eroticus, La schiava io ce l’ho e tu no, Caligola di Brass e anche un raffinatissimo film diretto da Susan Sontag, Duetto per cannibali, commercializzato con un titolo, La tarantola dalla pelle calda in cui la tarantola naturalmente ero io. Il film resistette in sala mezz’ora, ma Susan fu un incontro interessante. Le aveva tutte: era artista, femminista, ebrea, gravemente ammalata. Una cornice solidissima.
Per Il fantasma della libertà la chiamò anche Buñuel.
Avevo paura del suo giudizio. Ero inquieta. Sapevo che aveva già mandato via un’attrice. Lo aspettai in camerino con un impermeabile di Valentino foderato di pelliccia e come i maniaci al parco, lo spalancai. Ero nuda. Lui mi fece suonare il pianoforte e mi rassicurò: “Je ne suis pas pornograph” diceva. Voleva che il seno andasse a tempo con la musica. Filò tutto benissimo. Buñuel in un certo senso era come Pasolini. Si somigliavano anche fisicamente. Sembravano due mendicanti. Una modestia remissiva lontana dal carattere di Fellini, De Sica o Visconti. Quando parlava però restavano tutti in religioso silenzio. Le cose che diceva erano importanti.
Si è cimentata con la scrittura e con la regia.
Iniziai nel ’99 con Alcool. Io e Franca Valeri debuttammo a Benevento. Franca è di un umorismo straordinario: “Adriana – mi dice – il mio unico matrimonio riuscito è con te”.
Cosa ha capito dirigendo gli attori?
Che fare il regista è come essere un becchino, trasporti morti che vorrebbero essere altrove. Non ho rimpianti e men che mai personali. Le storie importanti non finiscono. L’unico rimpianto è il lutto. Gli amici che se ne vanno. Le voci che non tornano.
Felice di aver fatto l’attrice?
Non ho mai pensato di esserlo. Mi sono sempre illusa di non appartenere a niente e a nessuno. Ognuno pensa di essere particolare, speciale, unico. Poi magari non lo è. Pazienza.
Malcom Pagani e Fabrizio Corallo, il Fatto Quotidiano 5/7/2015