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 2015  luglio 05 Domenica calendario

JAN FABRE TRAGEDIA H24

ANVERSA
Un mondo cosmopolita, colto e curioso è quello che si ritrova oggi al Troubleyn di Anversa. Alle tre del pomeriggio, poco prima dello spettacolo, l’ex manifattuta di Pastorijstraat 33, dal 1986 factory creativa di Jan Fabre, grande sovversivo del teatro e della visual art, protagonista della scena artistica internazionale, brulica di gente di ogni provenienza: una troupe televisiva tedesca è qui per immortalare “l’evento”, un giovane filmaker italiano, Giulio Boato, su quanto sta avvenendo qui ci farà un film e poi scrittori, artisti, amici, tutti in paziente attesa. Intorno è il caos, o meglio simpatici momenti che avrebbero ispirato i Monty Python: mentre gli ospiti aspettano nel foyer, da giorni accalcato di armature greche e corone d’alloro, zelanti ragazzi trasportano secchi di allarmante liquido rosso sangue e carrelli pieni di poco invitanti pezzi di carne cruda, necessari — si capirà poi — alle scene sfrenate dei riti sacrificali.
Siamo alla prima prova di Mount Olympus — To glorify the cult of tragedy, da mesi annunciato come evento straordinario e insuperabile: uno spettacolo di ventiquattro ore filate, dalle quattro del pomeriggio alla stessa ora del giorno successivo, senza intervalli, che immerge lo spettatore nei prodigi e negli odii degli antichi miti greci, come una monumentale memoria della nostra civiltà. Ma anche come un gioioso inno all’immaginazione, al coraggio, all’utopia che manda all’aria le consuete regole del teatro e chiama lo spettatore e i ventisette attori/performer a un’esperienza unica. «Mi è sembrata una scelta normale una durata così estrema. I riti del teatro greco duravano tre giorni e tre notti e l’intera società veniva integrata in quell’esperienza. Qui succederà qualcosa di simile», ci spiega un Jan Fabre entusiasta, già al tavolo di regia davanti a un computer con un gigantesco totalizzatore di minuti e a un copione di quarantasette pagine (scritto con Jeroen Olyslaegers), prima di dare ilviaallospettacolo.Cinquantasetteanni,starinternazionale,sfrenagreca tamente e contemporaneamente regista, performer, visual artist, aria da giovanotto impenitente, Fabre non è nuovo a imprese ardite di iperavanguardia: quarant’anni fa, durante una sua performance, camminò quattro chilometri col naso su un binario del tram; i suoi quadri giovanili, ormai valutati qualche milione di euro, sono stati dipinti con sangue e sperma (autentici), mentre qualche anno fa con Marina Abramovic è stato in scena cinque ore dentro un’armatura. Ma questa maratona H24 di
Mount Olympus è un atto estremo anche per un iconoclasta come lui. «Di solito a teatro si fanno sei, sette settimane di prove e poi si va in scena. A questo progetto io ci lavoro da sei anni. Prima sul testo, poi con gli attori che hanno letto tutte le tragedie e poi Platone, Aristotele... Abbiamo parlato con filosofi, scrittori, incontrato scienziati, abbiamo fatto improvvisazioni, ricerche, studi e da un anno stiamo provando. Dodici ore al giorno. Tutti i giorni».
Oggi si sperimenta per la prima volta la prodigiosa macchina scenica che, vista dalle quinte, appare un caos di allarmante imponenza, pari alla monumentalità dell’opera. Oltre cinquanta tra tecnici e assistenti in movimento, dovunque stagisti e aiutanti che preparano oggetti di scena, depositano materiali nei pochi angoli rimasti liberi. Fuori, in cortile, dove si affaccia la sartoria, si stirano e si lavano a ritmo continuo trecento candidi lenzuoli, i soli costumi di scena che Fabre ha voluto. Poco più in là, nella palestra dei danzatori, sono stati allestiti dieci letti: è lì che andranno a riposarsi gli attori tra una scena e l’altra. Alle due di notte c’è chi mangia in silenzio una frittata, qualcuno si accascia sulle poltrone in pelle del foyer: è previsto che il pubblico faccia come gli pare, entra e esca, dorma oppure mangi — purché senza far rumore. A Berlino, dove l’opera ha appena debuttato, fuori dal teatro hanno montato tende da campo per gli spettatori; a Roma, dove lo spettacolo arriverà ospite del Romaeuropa festival il 17 ottobre dopo essere stato a Amsterdam, San Paolo, Buenos Aires, si pensa di sistemare delle brandine nei corridoi del Teatro Argentina. Qui, nella sua factory, anche Fabre di tanto in tanto sparisce su un lettino in fondo alla sala. Dice: «Lo spettacolo è stato costruito pensando allo stato fisico e mentale dei performer e del pubblico nel corso delle ventiquattr’ore. Ho giocato sul tempo, la ripetizione, la lentezza, la dilatazione, seguendo come cambia l’identità fisiologica, come il modo di recitare da svegli o sulla soglia tra la veglia e il sonno, come si altera la percezione nello scorrere delle ore». È come un fluttuare tra realtà e irrealtà, diranno alla fine gli spettatori.
Lo spettacolo, come è nello stile di Fabre, è un racconto labirintico e disorientante: danze, lotte, riti, poetici o crudeli, scene di sesso e corpi nudi, belli o sanguinanti, seducenti o disfatti. «Per Mount Olympus ho raccolto il meglio di quattro generazioni di performer », dai quaranta-cinquantenni come gli storici Annabelle Chambon e Cédric Charron fino ai più giovani, appena ventenni. Si capisce che un progetto di massima ambizione creativa come questo non poteva che nascere qui, negli spazi del Troubleyn, un enclave creativa internazionale nel quartiere più local di Anversa, dove peraltro Jan è nato. Qui c’è anche la sede di “Angelos” che si occupa solo del Fabre-artista visivo (notizia di questi giorni: la Cattedrale di Anversa gli ha commissionato un’opera che farà sicuramente discutere, trattandosi di una scultura in bronzo che raffigura Fabre stesso sotto la croce). Ma a dire il vero la prima ispirazione di Mount Olympus gli era venuta leggendo Le nozze di Cadmo e Armonia di Roberto Calasso. «Sì è vero, come è vero che in fondo tutti i miei lavori sono basati sulla tragedia greca, il grande utero da cui siamo nati. Il testo dello spettacolo è una rielaborazione dai classici, riscritti e miscelati in un flusso unico. Non ci sono i nomi dei personaggi perché li vedo come simboli, metafore, emblemi della natura umana: il sangue che scorre nella tragedia greca scorre ancora oggi, e forse in modi anche più violenti. Guarda cosa sta accadendo in Siria, guarda la furia dell’Is». Cosa resterà di tutto questo immenso lavoro? «Una domanda» risponde Fabre. «C’è una catarsi anche per noi? Una possibile purificazione? Intendo dire da un punto di vista filosofico, sociale, poetico? Viviamo in un mondo di cellulari e computer che ci connettono anche con il nostro stesso corpo. Se ho fatto tutto questo è perché credo che partecipare assieme a un’azione creativa di ventiquattro ore sia la più autentica tra le connessioni. Ma ci pensi? Uno spettatore che sceglie di prendersi ventiquattr’ore per sé, ventiquattr’ore liberate: non è una forma di catarsi questa? La consuetudine vuole che nei festival, nei musei, nei teatri, le opere d’arte siano intrattenimento, divertimento, breve e momentaneo. Mi dicono “Jan fai qualcosa che diverta il pubblico, Jan, per favore, qualcosa che ci porti denaro”. Ecco, qui non c’è nessun guadagno. Ma è proprio questa la catarsi».
Anna Bandettini, la Repubblica 5/7/2015