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 2015  luglio 05 Domenica calendario

DAL GIAPPONE ALL’OTTO PER MILLE, COSÌ IL BUDDISMO CONQUISTA L’ITALIA

In effetti, dopo qualche minuto, quel ronzio di parole, nam myoho renge kyo, nam myoho renge kyo, nam myoho renge kyo … ti entra dentro, ti scioglie, un po’ ti ipnotizza. Non era così anche per il rosario delle nostre nonne? Il Butsu-ma, sala di preghiera, è in penombra, il Butsu-dan, chiamiamolo altare, mostra il Gohonzon , piccola pergamena a caratteri giapponesi, la “tessera” di adesione di ogni fedele della Soka Gakkai, la scuola buddista che è la religione che sta ottenendo più successo tra gli italiani: 75 mila credenti (gli ebrei sono la metà, per dire), in crescita del 6-7 per cento all’anno da un quindicennio.
Oggi è anche un culto riconosciuto: da quando, il 27 giugno scorso, Matteo Renzi ha fatto visita a Firenze al direttore generale italiano Tamotsu Nakajima e con lui ha sottoscritto la bozza dell’intesa tra la religione del Siddharta e lo Stato Italiano. In verità, non sono proprio i primi. Due anni fa già i buddisti in gran parte “tibetani” dell’Ubi (Unione buddista italiana) hanno firmato il loro “concordato”. Quelli della Gakkai sono gli altri buddisti, i “giapponesi” che si richiamano alla predicazione del monaco medievale Nichiren Daishonin (1222-1282), secondo la versione del fondatore Makiguchi, educatore laico, pacifista e antiautoritario fatto morire in carcere dal regime imperiale nel 1944.
Insomma, rispetto al credo del Dalai Lama: radici comuni, ma altra storia e altre pratiche. Tra le due appartenenze c’è una guardinga amicizia venata di rivalità. Anche perché il successo dei nuovi arrivati (che ha portato la fede buddista al terzo posto fra le non-cattoliche praticate da italiani, dopo protestanti e testimoni di Geova) è stato bruciante. Introdotta da giapponesi negli anni ’60, la Gakkai cominciò a diffondersi a ritmo di jazz grazie alla “predicazione” di tre musicisti americani trapiantati a Roma: Karl Potter, Lawrence Dinwiddie e Marvin “Boogaloo” Smith; in pochi decenni passò da poche decine di pionieri a migliaia di fedeli, superando la somma delle 22 scuole radunate nell’Unione, e continua la corsa. Tra ammirazione, invidia e polemiche feroci qua e là.
Non è molto affollato oggi (è un caldo atroce), il kaikan di Corsico, periferia milanese, pare il tempio buddista (ma la parola significa “castello”) più grande d’Europa, forse il più bello: firmato da Giampiero Peia, scatola dorata che galleggia su uno stagno di loto. Arrivando, me lo indica dal parabrezza Romano Jeran, che qualcuno scambia per il monaco, ma è semplicemente uno dei responsabili della gestione: «Laggiù, dopo l’Ikea… c’è l’Ikeda», ride. Daisaku Ikeda, leader spirituale mondiale della Gakkai, ha gentilmente donato il proprio nome al tempio. Romano sembra un buon Buddha, ma non lo indovinereste: oggi è in bermuda e polo. «Non ci rasiamo la testa, non ci vestiamo di arancione…».
Anche per questo, forse, la Gakkai fa successo tra gli italiani. I suoi detrattori la accusano di essere una moda new age («new? abbiamo venticinque secoli di storia…»), ma è una fede poco appariscente. E molto personalizzata. Mauro, impiegato di 36 anni, maglietta I Love NY, ha finito il suo daimoku, la quotidiana ripetizione di nam myoho
renge ky o, (significa «esprimo la mia devozione alla legge mistica di causa ed effetto») che è di fatto, insieme alla lettura due volte al giorno di due capitoli del testo (Sutra del Loto), l’unico precetto del buddismo di Nichiren; e accetta volentieri due chiacchiere: «Vivevo un momento familiare difficile. Mi avvicinai alla fede, la prima cosa che chiesi fu di evitare il servizio militare. Beneficio del principiante: rientrai nel sovrannumero».
Il buddismo di Nichiren ha questo di particolare, che non trascende i desideri del mondo ma li purifica e aiuta a risolverli. Circola una battuta feroce: «I buddisti della Gakkai? Sono quelli che ripetono mille volte la stessa frase per trovare un parcheggio ». «Be’, se funzionasse sarebbe davvero un miracolo», ride Andrea, libero professionista bolognese, 42 anni, «è una battuta, ma ha senso: a me la fede ha dato la vitalità che mi mancava per raggiungere i miei obiettivi nella vita».
La pensano così anche fedeli celebri, il più noto è Roberto Baggio, ma anche Carmen Consoli, Sabina Guzzanti, la scrittrice Rossana Campo. Testimonial appariscenti che forse rubano un po’ la scena, ma fanno anche comodo, «non dicono mai grosse inesattezze nelle interviste», li assolve Roberto Minganti, portavoce nazionale della Soka Gakkai, romano, ex militante di Lotta Continua. Si sente soddisfazione nelle sue parole, il traguardo è stato importante. Con l’intesa, la Gakkai esce dall’ombra ormai troppo stretta per le sue dimensioni, acquisisce diritti: assistenza spirituale in ospedali e carceri, sepoltura rituale, scuole, esenzioni fiscali, e quel che più conta, fra qualche anno, l’accesso all’otto per mille. Dove, nessuno lo dice ma è palpabile, la speranza è emulare il successo dei valdesi, seguendo il loro modello di chiesa che sta simpatica a chi non crede nelle chiese.
Il buddismo Gakkai, almeno in Italia, non ha clero (in Giappone, negli anni ’90, c’è stata anzi una sorta di scisma protestante tra clero e laici), non ha istituzioni pesanti da mantenere (17 centri di preghiera, ma solo alcune decine di dipendenti). E questo tempio? Pagato con le donazioni dei fedeli, risponde Jeran, ex bancario. Che generosità, però: per comprare questa antica cascina viscontea, ristrutturarla e aggiungere il tempio ci son voluti 14 milioni di euro. Da dove sono venuti? «Esistiamo da decenni, e i nostri fedeli sono generosi». Non mancheranno le polemiche. Non sono mai mancate, nella storia della Gakkai, anche feroci, basta un giro su Google per verificare: scissioni, rivalità di leadership, accuse di proselitismo aggressivo, di autoritarismo interno e disinvoltura politica...
«Ma considerare la Soka Gakkai una setta è sbagliato», assicura Pierluigi Zoccatelli del Cesnur di Torino, che li studia a fondo da anni, «è un fenomeno reale che trova in Italia un terreno fertile: come il Giappone, abbiamo un passato feudale e spirituale assieme. Credo che nei prossimi anni sentiremo sempre più spesso il nam myoho renge kyo…».
Michele Smargiassi, la Repubblica 5/7/2015