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 2015  luglio 04 Sabato calendario

IO, IL PAPA, SILVIO GLI AGNELLI E RENZI PARLA GAWRONSKI

Ho di fronte, nel terrazzo del suo attico romano, Jas Gawronski in superba tenuta estiva biancolatte. Jas ha poco del comune mortale. Il padre, Jan, fu un diplomatico polacco di natali principeschi. La mamma, Luciana, era figlia di Alfredo Frassati, il fondatore della Stampa. Suo zio, fratello della madre, è il beato Piergiorgio Frassati. Tra gli amici non sono contemplati né i Rossi né i Brambilla. Ma ci sono Gianni Agnelli e Karol Wojtyla cui ha dedicato un libro, «A cena col papa e altre storie», uscito quest’anno. Da corrispondente Rai-Tv, ha coperto le sedi più prestigiose, New York, Mosca e Parigi. Quando si è avvicinato alla politica ha fatto faville: eurodeputato per cinque legislature, senatore della Repubblica, portavoce di Silvio Berlusconi, al suo debutto a Palazzo Chigi (1994). Perfino l’oltraggio dei suoi 79 anni si è tenuto lontano da lui, lasciandogli l’aspetto di un seducente gentiluomo senza età. Jas è alto, dritto, abbronzato e senza un filo di capelli bianchi per un’astuzia della natura che gli ha regalato fin da giovane un’elegante calvizie mirabilmente incorporata al personaggio e fonte di fascino. «Sei anche nato a Vienna, per non farti mancare un tocco asburgico», dico, sedendo all’ombra della terrazza fiorita. «Battesimo a Semmering, il kurort viennese», dice Jas e indica nello studio, al di là della vetrata, la foto in bianco e nero di un prelato. «È il cardinale d’Austria che mi battezzò nel 1936». Chi di noi è stato mai battezzato da un cardinale? Questo è Gawronski. «Di quante lingue sei impastato?», gli chiedo. «Oltre l’italiano, francese, inglese, polacco e russo», dice e, quasi per darmi la prova, sbotta perentorio in polacco, alzando la voce. Una signora entra con acqua fresca e caffè. Scambia con Jas due battute slave e scompare. «Ti ritieni più italiano o polacco?», domando. «Più italiano, ma preferirei ritenermi polacco -risponde -. Ho maggiore stima della Polonia che dell’Italia di oggi. È più civile. I giovani conversano di libri e non solo di calcio. Si alzano per cedermi il posto in autobus, non gettano cicche, l’atteggiamento in chiesa è raccolto, mentre da noi è raccapricciante». «Come spieghi la differenza?», mi informo. «A migliorarli, è stata la dittatura comunista. La difficoltà li ha temprati, la clandestinità resi riflessivi». «Per stare al derby Italia-Polonia: meglio il nostro campione, Indro Montanelli, o il grande Ryszard Kapuscinski?». «Kapuscinski è più nelle mie corde di giornalista internazionale che si è occupato del mondo più che del suo Paese. La credibilità di Kapuscinski è inarrivabile. Da noi, solo Alberto Ronckey gli tiene testa. Inoltre, non mi piacciono i giornalisti che scrivono troppo bene. Sono per i contenuti». Gawronski è un interlocutore calmo ed educatamente franco. Preso l’avvio sui colleghi, ci lasciamo andare. «A New York -gli ricordo- sei stato a fianco dell’indimenticato Ruggero Orlando, prima di prenderne il posto». «Simpatico e bravo -risponde-. Faceva tutto a braccio. Umanamente mi ha insegnato molto. Da Sergio Zavoli ho preso invece il perfezionismo. Se si accorgeva di un difetto, e se ne accorgeva solo lui, rifaceva tutto». «Meglio New York o Mosca?», domando. «Fare il giornalista in Usa è una pacchia: l’informazione è a portata di mano. Ci manderei i meno capaci. Nella Mosca dell’Urss dovevano invece andarci i cannoni. Difficilissimo trovare notizie, falsi a non finire, depistaggi». «Il tuo atteggiamento verso il comunismo?». «Ideologicamente, non mi ha mai attratto ma ho visto le cose positive che ha fatto. Dopo il crollo del muro, tanti lo hanno rimpianto e continuano a farlo». «Pensi che per i russi sia peggio oggi?», mi incuriosisco. «Io no, molti di loro sì -replica-. Comunque, fare giornalismo sotto i rischi del comunismo mi ha dato tanta adrenalina». «E anche un posto nella Lista Mitrokhin del Kgb», ribatto. Jas ride divertito: «Ero classificato come “fonte da coltivare”. Essere nella lista significava anche considerazione professionale. Sarebbe stato quasi offensivo il contrario. Sfottevo Demetrio Volcic, che non c’era, come fosse un demerito». Mentre sorride al ricordo, una telefonata lo distrae per qualche minuto. È stato il nonno Frassati, anima della Stampa prefascista, a spingerti al giornalismo? «Lui mi sconsigliava. È un mestiere per gente moralmente insana, diceva. Lo feci di nascosto. Prima su giornali polacchi, poi italiani». Il nonno è vissuto 93 anni. Sua figlia, tua mamma, 105. Sei in una botte di ferro. «Con i miei cinque fratelli facciamo insieme 506 anni. Mia sorella, ottantanovenne, sta meglio di me, va in motorino e scia». Che hai preso da Piergiorgio, lo zio beato di cui proprio oggi ricorre il novantesimo della morte? «Lo ammiro per il ricordo che ha lasciato in tutto il mondo. Un giorno, all’aeroporto di Haiti, mi misi a parlare con un gigantesco prete nero. Era il vescovo. Quando venne fuori che ero il nipote del beato Frassati, mi sollevò di peso, abbracciandomi con tutto l’entusiasmo della devozione che aveva per mio zio». Hai fama di tombeur de femmes, il che non si concilia con la santità dello zio. «Ma anche lui si era innamorato. Ho effettivamente delle amiche di gioventù, oggi ottantenni, le quali mi dicono che ero appetibile. Io però non me ne rendevo conto e ho avuto diversi flirt con donne brutte. A saperlo mi sarei regolato diversamente». L’Avvocato, tuo grande amico, in vita riempì le cronache. Da morto, è dimenticato. «Quando si muore, succede di essere scordati. Se però penso che dopo si scoprì che aveva nascosto fondi all’estero, dico che è un bene sia stato dimenticato. Se no, sarebbe ricordato anche per questo». Cosa resta degli Agnelli con la Fiat americana? «La rispettabilità di cui gode in Italia. Il fatto che si sia parlato così poco della fuga di capitali indica il perdurante carisma. Negli Usa, la loro immagine sarebbe stata travolta, facendo dimenticare tutto il buono che hanno fatto». John Elkann? «Non ha le qualità, né i difetti che rendevano fascinoso l’Avvocato». Lapo Elkann? «Somiglia al nonno. Genialoide, fantasioso, creativo. Ha gestito bene le sue disavventure. Il vizio rende più umani». Hai intervistato più volte Wojtyla. Vi unì la polacchitudine? «L’anello fu il beato Piergiorgio. Wojtyla ne adorava la figura. Begli uomini tutti e due, il fisico che conta, le montagne come sfida, per nulla bigotti: più opere di bene che salmi in chiesa». Come hai conosciuto il Papa? «Gli faceva comodo un polacco che gli raccontasse Roma e mi invitò a cena. Non l’ho mai visto se non a tavola. Non gli piaceva mangiare solo». Il terzomondismo di Papa Francesco ti ispira? «A me non piace la sua idea, meglio poveri che ricchi. Però, attira le folle e aumenta il peso della Chiesa. Nei suoi panni, farei lo stesso». Il tuo ricordo di portavoce del Cav. «Fu entusiasmante. Aria di cambiamento, ampi programmi. L’uomo era affascinante e di una trasparenza totale. Assistevo a ogni sua telefonata e incontro». La tua opinione complessiva, bunga bunga compreso? «Sono fermo alla prima impressione: strapositiva. I bunga bunga sono fatti suoi, anche se da premier era meglio evitare. È il risvolto negativo delle sue qualità di trasparenza». Lo rivoteresti? «Dipende dall’alternativa. Certo, non voterei mai Fi da sola. Semmai con lui e per lui». Il giovane fiorentino? «A me piace. Rivoluzionario nella maniera in cui combatte i sindacati. Si butta a parlare inglese anche se non lo sa bene. Nessuno prima di lui ha avuto il suo coraggio. Per me, è al posto giusto». Ue e Grecia? «Se l’obiettivo è fare l’Europa, gli stati nazionali devono fare rinunce». Obama o Putin? «Obama rappresenta una Nazione che ammiro. Putin è un genio della politica che sa ottenere l’appoggio del suo popolo e fare gli interessi del suo Paese». L’Islam del terzo Millennio? «Fenomeno terrorizzante. Volevo chiudere gli occhi su un mondo sereno. Invece scoppia. Che ne sarà dei nostri figli?». Una volta hai detto: “Vera classe è anche non concedere interviste”. Perché allora me l’hai data? «(ride) Ho pensato che era meglio averti con che contro».