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 2015  luglio 04 Sabato calendario

BOSSETTI: “FOSSE PER ME VORREI LA SENTENZA SUBITO TANTO SONO TRANQUILLO”

BERGAMO.
«Allora come è andata?». «Bene, tanto tu Massimo non hai capito niente, vero?». Sorride Massimo Bossetti dentro il gabbione degli imputati. Sono le 11.25: l’udienza è appena finita e Paolo Camporini, uno dei due avvocati, entra e lo sfotte. «Tocca ferro — l’espressione in realtà è più colorita — . L’udienza più importante, quella che ti interessa, è martedì (la Cassazione deciderà sulla richiesta di scarcerazione: esito quasi scontato, ndr ) ».
Lui fa sì con la testa e sorride di nuovo. Che per uno che rischia l’ergastolo, è in carcere da un anno e ha scoperto di non essere figlio di suo padre e tante altre cose, non è proprio una reazione scontata. Per un attimo, abbronzatissimo in mezzo a questo cubo di vetro che sembra un acquario pronto ad annegarlo, Bossetti torna sul processo. «Guarda — rivolto all’avvocato — se fosse per me vorrei la sentenza oggi. Capito?».
Magro come è entrato in carcere, lo stesso intenso colore del viso. Serio, concentrato. Jeans, polo blu a maniche corte, sneaker bianche, capelli “gellati” con sfumatura alta, fede al dito. Il presunto killer di Yara, l’uomo impassibile che non crolla e che ripete al mondo «sono innocente», fa il suo ingresso in aula alle 9.25. Si apre una porticina bianca di ferro e, in mezzo a tre agenti, spuntano le mèches che incorniciano il ciuffo. Per Bossetti è la “prima” in pubblico.
Lo aspettano tutti: 80 curiosi, 34 giornalisti, una pletora di avvocati e il suo grande accusatore, Letizia Ruggeri: seduta accanto al capo della procura Francesco Dettori, li separa un metro e mezzo e una parete di vetro. Bossetti arriva a bordo di un cellulare. Entra a palazzo di giustizia da un ingresso secondario. «Nervoso, molto nervoso », dice chi lo ha incrociato nella pancia del tribunale. In realtà appare quasi disteso.
Appena messo piede nella gabbia degli imputati, sulla sinistra, si gira di spalle perché gli devono togliere le manette. Segue un primo sguardo verso il pubblico che da un’ora e mezza ha preso posto dietro di lui. Sguardo smarrito. Sta in piedi tre minuti Bossetti, tamburella col piede destro, gesto che ripeterà per quasi tutta l’udienza.
Poi si siede e appoggia i gomiti su una scrivania nera dove è posto un microfono che non gli servirà. «Verrò a tutte le udienze », ha ripetuto a Salvagni, l’avvocato che lo segue dall’inizio del suo peggiore incubo e del quale si fida come un padre.
Ma la strada è in salita, per usare un eufemismo. L’ha detto anche alla moglie, Marita Comi, “la Marita” che si, sarà anche scesa in campo pubblicamente per difenderlo — interviste, copertine — ma nei colloqui in carcere lo ha incalzato e a muso duro gli ha spiattellato un «Massi, adesso basta, smettila di dire balle!». Qui non c’è la madre-confidente: Ester Arzuffi non compare nemmeno nella lista dei testimoni della difesa perché, cuore di mamma, pur sbandierando la supposta innocenza di “Massi”, si ostina a sfidare l’evidenza scientifica non ammettendo che il figlio è nato dalla relazione con Giuseppe Guerinoni: «una cosa che non esiste».
Che testimone può essere una così per la difesa del figlio? Ora che si inizia a fare sul serio, forse si può anche capire che uomo è davvero questo carpentiere tutto d’un pezzo che resta lì impassibile al suo posto a sciropparsi due ore e mezzo di tecnicismi, codici, giudizialese puro. «Questo è un processo accusatorio, il vostro compito è provare se l’accusa è fondata».
Mentre parla Salvagni, l’imputato più misterioso d’Italia incrocia le braccia. Poi si passa una mano sulle guance ben rasate. «Se dite che vittima e imputato si conoscevano, allora cambia tutta l’impostazione... ». Guarda i secondini. È quasi finita, la prima di chissà quante udienze. Fuori ci sono una decina di fan, ragazzotti, un paio di signori in età. «Liberatelo!». «Lasciatelo andare poer òm», povero uomo. E a Yara chi pensa?
Paolo Berizzi, la Repubblica 4/7/2015