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 2015  luglio 04 Sabato calendario

BLOB GRECIA

005

Il Post 3/7/2015
Cosa succede se vincono i Sì o i No in Grecia
Domenica 5 luglio in Grecia si terrà un referendum sulle più recenti proposte dei creditori internazionali per affrontare la crisi economica del paese. La consultazione è stata indetta domenica scorsa dal governo di Alexis Tsipras, che ha rifiutato di accettare le ultime condizioni poste dall’Unione Europea chiedendo alla popolazione di esprimersi, e facendo campagna per il “No”. L’esito del referendum continua a essere incerto, almeno stando ai sondaggi che danno quasi appaiati i “Sì” e i “No”. Secondo molti osservatori la consultazione di domenica potrebbe determinare anche la sopravvivenza del governo Tsipras e, in un modo o nell’altro, il futuro economico della Grecia e più estesamente dell’euro.
Il quesito
Il testo sul quale si dovranno esprimere gli elettori è questo:
Al popolo greco è chiesto di decidere se accettare o meno una bozza di accordo tra la Commissione Europea, la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale avanzata all’incontro dell’Eurogruppo del 25 giugno e che consiste in due documenti: il primo si chiama “Riforme per il completamento dell’attuale programma e per andare oltre” mentre il secondo si chiama “Analisi preliminare della sostenibilità del debito”.
– Se si rifiutano le proposte delle istituzioni, votare Non Approvo / NO.
– Se si accettano le proposte delle istituzioni, votare Approvo / SI.
La formulazione del quesito è stata criticata da molti osservatori per non essere chiara e, soprattutto, perché fa riferimento a documenti piuttosto complicati e comunque non ancora definitivi. Molti andranno al voto senza avere chiaro che cosa accadrà materialmente se voteranno No o Sì, e del resto non ci sono molti elementi prevedibili circa ciò che potrà accadere.
Se vincono i Sì
Nel caso di una vittoria dei Sì innanzitutto il governo di Alexis Tsipras sarebbe politicamente nei guai: avendo fatto campagna per il No e avendo criticato l’accordo oggetto della consultazione, ne uscirebbe sconfitto e sconfessato dagli elettori. Il ministro delle finanze greco, Yanis Varoufakis, ha già annunciato che se vinceranno i Sì lascerà il suo incarico; Tsipras non è stato altrettanto esplicito ma ha fatto capire di non essere “un uomo per tutte le stagioni”. La vittoria del Sì renderebbe praticamente inevitabile un accordo con l’UE sulla base delle condizioni richieste a giugno, ma non è detto che Tsipras abbia intenzione di firmarlo: è plausibile che dopo un’eventuale sconfitta al referendum si dimetta e che a quel punto i partiti che hanno fatto campagna per il Sì formino un nuovo governo di unità nazionale, con l’obiettivo minimo di concordare le condizioni per il prestito.
Una vittoria dei Sì sarebbe un importante segnale per i leader degli stati che adottano l’euro: sia quelli considerati più intransigenti, come Angela Merkel in Germania, sia quelli dei paesi che hanno avuto grosse difficoltà in passato, che sono stati aiutati dalle autorità internazionali e ora non si trovano più in emergenza, come Spagna e Portogallo. Le autorità europee potrebbero riunirsi in tempi piuttosto rapidi e concordare con il nuovo governo un ulteriore prestito, il terzo, per ridare liquidità alle banche ed evitare il fallimento del paese (che ha già mancato il pagamento di una rata da 1,6 miliardi di euro al Fondo Monetario Internazionale, tra i suoi principali creditori, e in generale sta finendo i soldi). Il prestito sarebbe concesso in cambio di un impegno concreto a riformare diversi settori della pubblica amministrazione in Grecia, tra le altre cose facendo tagli alla spesa e alzando l’età pensionabile. Le banche potrebbero riaprire in pochi giorni, dopo una settimana di chiusura che ha portato a grandi difficoltà, con prelievi limitati e il divieto di trasferire somme di denaro all’estero.
È più difficile esprimersi sugli effetti delle riforme indicate dalle istituzioni internazionali: in Grecia in questi tre anni sono state applicate parzialmente e con grandi difficoltà, e secondo moltissimi hanno aggravato le sofferenze della popolazione e il logoramento dell’economia; secondo altri però i leader greci hanno preferito tagli di bilancio orizzontali a vere riforme strutturali, tanto che in Grecia rimangono iniquità e privilegi e in nessuno degli altri paesi che hanno applicato in varie forme le cosiddette “riforme di austerità” – Spagna, Portogallo, ma anche Islanda e Italia – si sia arrivati a situazioni lontanamente paragonabili, e anzi molti hanno ricominciato a crescere.
Se vincono i No
È lo scenario più complicato e incerto. Il governo Tsipras uscirebbe dal referendum immediatamente rafforzato e potrebbe ripresentarsi davanti alle autorità europee con una nuova legittimazione popolare, chiedendo e sperando di ottenere modifiche favorevoli alle richieste dei creditori per ottenere un nuovo prestito. La vittoria del No sarebbe anche una sconfitta politica per i leader europei che hanno sostenuto la linea più dura, come la cancelliera tedesca Angela Merkel, e che hanno scommesso su un indebolimento del governo Tsipras e delle posizioni della Grecia.
Tsipras ha detto che la vittoria del No farebbe ripartire i negoziati e permetterebbe di ottenere un accordo migliore per la Grecia, ma non sarebbe comunque facile: la ragione è che in ogni caso la Grecia sta finendo i soldi e senza un prestito internazionale è destinata alla bancarotta, che vinca il Sì o che vinca il No. Per usare una metafora, anche con una vittoria del No il manico del coltello rimane dalla parte dei creditori.
Senza un prestito internazionale – che potrebbe anche non arrivare dall’UE, in una situazione estrema: negli ultimi mesi si sono fatte parecchie ipotesi astratte anche su un ruolo della Russia – la Grecia tra poche settimane non avrebbe più soldi per pagare stipendi, pensioni e servizi, e il suo sistema bancario collasserebbe. In una situazione del genere, l’unica cosa che la Grecia potrebbe fare sarebbe stampare una nuova moneta. La Grecia non uscirebbe istantaneamente dall’euro, anche perché si tratta di qualcosa senza precedenti e non è del tutto chiaro come dovrebbe avvenire tecnicamente: le due valute potrebbero coesistere per un certo periodo.
Se tornasse in vigore la dracma, la valuta della Grecia prima del suo ingresso nell’euro, ci sarebbe una notevole perdita del valore di acquisto della nuova moneta. Secondo gli analisti la capacità di acquisto sarebbe del 30-40 per cento inferiore rispetto all’euro, anche perché il governo potrebbe avvantaggiarsi di una bassa valutazione della moneta. I debiti internazionali della Grecia però rimarrebbero in euro, così come le cifre da pagare per ottenere energia e comprare beni dall’estero. In breve tempo l’inflazione potrebbe aumentare sensibilmente, rendendo il valore della dracma molto basso rispetto a quello dell’euro. La valuta resterebbe in ballo sul mercato dei cambi per almeno un paio di mesi prima di stabilizzarsi: ma nulla esclude che in tutto questo l’economia del paese continui a peggiorare, tanto da rendere necessario a un certo punto l’avvio di un negoziato per un nuovo prestito internazionale, e tornare daccapo. Alla base di tutta questa situazione ci sono cose che prescindono dalla moneta: il cattivo stato di salute dell’economia greca, che esporta pochissimo, ha un’enorme evasione fiscale e un tasso di disoccupazione altissimo.

Referendum in Grecia: se vince il Sì, se vince il No Lo sviluppo dei negoziati tra la Grecia e i suoi creditori e la prospettiva di un referendum il prossimo 5 luglio generano nel breve termine una sequenza di forte volatilità sui mercati finanziari. Non sono tuttavia coinvolte le nostre st ...


Soldionline.it 3/7/2015 (copiare il link)
Referendum in Grecia: se vince il Sì, se vince il No ...

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Matteo Pucciarelli, la Repubblica 4/7/2015
Quelli del NO. “Basta ricatti e ultimatum,messaggio di dignità”
Tsipras in piazza: “Non dovete farvi terrorizzare,nessuno può mandarci via dall’Europa”. Scontri circoscritti tra gli anarchici e la polizia
ATENE. Sul lato sinistro del palco posto proprio davanti alla sede del Parlamento, c’è uno striscione con il verso di una vecchia poesia greca: «Piccolo popolo che combatte senza spade né pallottole per il pane di tutte le genti». Non ci sono indici né vincoli da rispettare in piazza Syntagma, si parla solo al cuore (e alla pancia) di una nazione che non sa bene fin dove far arrivare il proprio orgoglio. E Tsipras punta su quello, per convincere i propri connazionali spaccati a metà.
Lo fa mandando un messaggio trasversale: «Qualsiasi sarà il risultato del referendum, la Grecia ha vinto. Ha dato una prova di democrazia. E nessuno può permettersi di mandarci via dall’Europa». Tutti i sondaggi parlano di un testa a testa, gli scostamenti sono di un punto o al massimo due, per qualcuno (come Bloomberg) è avanti il “no” e per qualcun’altro è avanti il “sì”. C’è una fetta consistente di indecisi che non sa bene di chi avere più timore, se dell’autodeterminazione — con annesso paventato strapiombo — o se di nuovi dolorosi sacrifici, ma con il terreno sotto i piedi. Il referendum si farà: l’ultimo dubbio lo ha cancellato il consiglio di Stato respingendo il ricorso sulla presunta incostituzionalità della consultazione Di certo le immagini dell’imponente manifestazione per il “no” che anticipa il voto di domani sono una dimostrazione di forza. Perché nonostante tutto il consenso del premier greco resta alto. Tsipras arriva con le canoniche due ore di ritardo a serata inoltrata tra gli applausi, parla undici minuti e fa un discorso tutto centrato sul proprio paese: «Il mondo in questo momento sta guardando questa piazza — dice — così popolo greco oggi non protestiamo, questa è una festa della democrazia. La democrazia è gioia e libertà e dobbiamo festeggiarla. Lunedì saremo vincitori comunque vada, la Grecia ha mandato un messaggio di dignità all’Europa». Nessun riferimento diretto al “sì” o al “no”, nessuna menzione di eventuali dismissioni: «Le pagine migliori della nostra storia sono quelle di quando ci siamo trovati di fronte a degli ultimatum. Non fatevi terrorizzare. Non ci divideremo, cammineremo uniti comunque vada ». E poi, «con calma, con cuore e decisione scegliete per una Europa solidale. Nessuno può nascondere che la ragione è dalla nostra parte. Che questo paese è la culla della democrazia. Respiriamo aria di libertà, la Grecia ha vinto, la democrazia ha vinto, con dignità e contro la paura, dopo cinque anni di distruzione».
In piazza c’è anche una bandiera dell’Europa e il primo a parlare è un tedesco, un rappresentante della Linke tedesca. Sono i compagni di banco di Syriza a Bruxelles; poi è il turno degli spagnoli di Podemos. «Il futuro è vostro e non della troika — grida l’eurodeputato Miguel Urbán — non se lo aspettavano ma si sono trovati di fronte un popolo di valore ». Sul palco c’è anche lo Sinn Fein irlandese. È la piccola internazionale radicale che si aggira per l’Europa, tutto pur di rompere la sensazione di isolamento e per dimostrare che in ballo c’è la richiesta di cambiamento delle politiche europee e non il ritorno alle piccole patrie.
Il grande e storico oxi greco è quello del 28 ottobre 1940, festa nazionale, quando Ioannis Metaxas — che pure era un dittatore — negò l’ingresso delle truppe di Benito Mussolini. Oggi non ci sono carri armati al confine, ma come recita uno striscione dei tifosi dell’Aek Atene srotolato poco prima del discorso di Tsipras «questa Europa è come il nazismo: nessun passo indietro».
Una manifestazione di orgoglio nazionale quindi, ma anche di tensione. Per almeno mezz’ora l’aria si fa incandescente. Infatti alle sei e mezzo da via Ermou, a un passo dal ministero delle Finanze, arriva un corteo di un centinaio di anarchici con le bandiere rosse e i caschi integrali in mano. Le bandiere sono più che altro una scusa per avere dei bastoni in mano. Costeggiano Syntagma e in teoria si dirigono verso lo stadio Panathineo, dove si tiene in contemporanea la manifestazione del “sì”. Sanno benissimo che le forze dell’ordine dovranno fermarli.
È quello che avviene: la polizia spara i lacrimogeni, arrivano anche gli agenti in motocicletta, qualcuno di loro viene disarcionato dai manifestanti e picchiato con le mazze; di risposta un ragazzo viene trascinato via con la forza per essere arrestato, sono momenti di caos. Gli agenti indietreggiano e, come da prassi da quando Syriza è al governo, si allontanano. Ma è la prima volta in sei mesi, raccontano, che c’è stato un contrattacco dei militari.
Scontri che inevitabilmente si trasformeranno in uno spot per l’altra Grecia, che da giorni evoca il caos se mai dovesse vincere il “no”.


Ettore Livini, la Repubblica 4/7/2015
Quelli del SÌ. “Unico voto per restare nell’euro e nella Ue”
Tra l’Inno alla gioia e quello greco i favorevoli che affollano lo stadio accusano il governo: “Dilettanti allo sbaraglio, ci stanno rovinando”
ATENE. «Il nostro giorno non è oggi, è domenica », mette le mani avanti Anastasia Paleologou smanettando sul suo smartphone. Fino a un secondo fa ha tenuto ben alta sulla testa la sua professione di fede «Sì, credo e appartengo all’Europa», è scritto nero su bianco sul cartellone. Ora, cercando di non farsi vedere dai vicini, sta controllando in streaming come vanno le cose nella piazza dell’Oxi, 500 metri più in là. E le riprese dai droni trasmesse su tutte le tv nazionali le hanno fatto una brutta sorpresa: a Syntagma, dove è schierato l’esercito del “No” c’è — almeno ad occhio — molta più gente di quella che è arrivata qui davanti al meraviglioso stadio del Panathinaikos per dare l’ultima spinta al “sì”.
«E’ la prima manifestazione della mia vita — confida Stergios Giannodis, tenendo per mano i due figli con bandiera arancione del “Nai” d’ordinanza in mano — Ma domenica si decide il futuro dei miei ragazzi. E non potevo mancare». Parte l’Inno, l’Inno alla gioia. Sventolano nel maestrale serale centinaia di bandiere della Grecia mescolate a quelle dell’Europa. «Ci portano fuori dall’euro» è l’urlo di guerra che Antonis Samaras, ex premier del centrodestra, ruggisce da giorni. Qui ne sono convinti tutti. «Non si faccia ingannare dai numeri delle piazze — esorcizza le immagini tv Giorgos Xoristras, 23 anni, tornato da Londra dove studia per votare — La folla che vede davanti al Parlamento sono in gran parte quadri di Syriza mobilitati per l’occasione. Questa invece è la manifestazione della gente qualunque. Gli operai, i commercianti, i pensionati che pagheranno il conto più salato alle folli scelta del tandem Tsipras- Varoufakis. Dilettanti allo sbaraglio». Non che dei professionisti ci sia troppo da fidarsi. Il vero problema del fronte del sì è che a sostenerne la causa nei giorni scorsi si sono presentate esattamente le stesse persone che hanno portato il paese nel baratro negli ultimi decenni.
Dal limbo di un silenzio un po’ misterioso durato sei anni è spuntato Kostas Karamanlis (che molti davano in ottimi rapporti con Alexis Tsipras), titolare dal 2004 al 2009 di un esecutivo che ha gonfiato di debiti il bilancio nazionale. “Fatichiamo a rinnovarci, non presentiamo facce nuove — ammette Irene Broutsas, un’altra dei non tantissimi giovani presenti in piazza — E alla fine sembra sempre più nuovo di noi un volto già vecchio come quello di Tsipras ».
Vero. Il cartello del sì — facendo le prove generali di un governo di unità nazionale per il dopo elezioni — prova stasera a tenere nascosti i tirannosauri del bipartitismo ellenico e a proporre qualche faccia nuova. Furoreggia il partito dei sindaci. Sul palco sale George Kaminis, amatissimo sindaco della capitale: «Non date retta alle sirene di Syriza — arringa la folla — Sono passati 5 mesi in cui non sono riusciti a fare uno straccio di accordo e hanno distrutto l’economia nazionale. E ora hanno la faccia to- sta di dirci che, se vincono, fanno un’intesa con i creditori in 48 ore! Fantascienza». Lui e il primo cittadino di Salonicco Yannis Boutaris, rampollo della famiglia titolare dell’omonimo marchio di vini, sono la speranza di questa piazza per riuscire davvero a voltar pagina.
«Non ci facciamo illusioni — confessa Stelios Papagiannou, un avvocato all’esordio in piazza — . Che vinca il sì o il no, si andrà ad elezioni molto presto. E il rischio è che comunque vada alla fine vinca di nuovo Syriza». «Comunque si voti — dice Samaras — bisogna che lunedì si serrino le fila e si resti uniti». Chi ha orecchie per intendere, intenda. Nea Demokratia, forza egemone davanti al Panathinaikos, si candida a fare da pivot al grande governo di unità nazionale che potrebbe decollare con la vittoria del sì. Un minestrone con il Pasok, To Potami e le colombe di Syriza con cui approvare le riforme e approvare un terzo piano di aiuti con i creditori prima di tornare alle urne.
Parte l’inno nazionale greco. Tutti sull’attenti, mano sul cuore. La folla sciama verso casa. E il deflusso è rapido e tranquillo, con la polizia che ha anche aperto la strada che passa proprio di fronte a Megarou Maximos, la residenza di Tsipras. Lontano, dal Parlamento, arriva l’eco del comizio del premier e gli applausi della folla oceanica del no. «In ogni caso la Grecia ha dato un’altra lezione di democrazia a tutti », dice avviandosi a casa Anastasia trascinando il suo cartello come una reliquia. I numeri della piazza non buttano bene. Ma il cartello del sì sorride lo stesso. La sua giornata, alla fine, è domenica.

F.Q.. il Fatto Quotidiano 3/7/2015
Crisi Grecia, bocciato ricorso: referendum si farà. Liquidità banche fino a lunedì. “Ue ha cercato di bloccare report Fmi”
Il referendum sul programma di aiuti proposto dai creditori è costituzionale e quindi si farà. Il Consiglio di Stato boccia il ricorso contro il quesito e cade così anche uno degli ultimi ostacoli sulla strada della consultazione popolare in Grecia: domenica 5 luglio gli elettori potranno esprimersi a favore o contro il piano. A poche ore dalla chiamata alle urne, mentre i sostenitori dei due schieramenti opposti scendono in piazza per le ultime manifestazioni, cresce la tensione sul fronte Atene-Bruxelles. Fonti dell’agenzia Reuters hanno rivelato che le potenze europee avrebbero cercato di bloccare il report del Fmi (poi diffuso giovedì 2 luglio) in cui si chiedeva di tagliare il debito greco: un documento che è subito diventato uno dei punti a cui si aggrappa il premier Tsipras nelle sue argomentazioni per il “no” e che mette in difficoltà l’Ue. Dal punto di vista finanziario, le banche greche hanno fatto sapere di avere la disponibilità di un miliardo di euro fino a lunedì. Poi, in base al risultato del voto, sarà la Bce a decidere come comportarsi. Il vicepresidente della Banca centrale europea Vitor Constancio ha già fatto sapere che “se vincerà il sì, si potrebbe allentare la stretta sui fondi della liquidità d’emergenza. Se vincerà il no, allora sarà più difficile per l’intesa essere raggiunta”.

L’ennesima giornata di passione per i greci si chiude con due manifestazioni ad Atene dei due schieramenti opposti per il referendum. Nei pressi dello stadio Panathenian, invece, il raduno di coloro che propendono per il ‘sì’: stando alla polizia, 17mila i partecipanti. Circa 25mila le persone a piazza Syntagma, per sostenere il fronte del ‘no’. “Oggi tutta l’Europa guarda voi”, ha detto Tsipras, “il popolo greco, i 3 milioni di poveri e gli 1,5 milioni di disoccupati. Oggi tutto il pianeta guarda questo posto, dove è nata la democrazia. Vinceremo con orgoglio e dignità”. Non sono mancate le tensioni poco prima dell’inizio dell’evento: circa 300 persone con il volto coperto dai passamontagna hanno cercato di forzare un cordone di poliziotti posto all’inizio di via Ermou.
Dopo la diffusione dei risultati di un sondaggio ancora incompleto sulle intenzioni di voto dei greci, la cautela è d’obbligo. Mentre il premier greco Alexis Tsipras invita i cittadini a non farsi suggestionare (“È meglio stare calmi e aspettare che il popolo prenda nelle sue mani il suo futuro. Andiamo a votare tranquilli”), il presidente della commissione Ue Jean-Claude Juncker continua a schierarsi per il “sì” (“Se i greci rifiuteranno il programma di aiuti, la posizione della Grecia sarà drammaticamente indebolita”). Il leader greco poi attacca il Fondo monetario internazionale: “Ora l’Fmi afferma che il debito greco può essere sostenibile solo con un taglio del 30 per cento e un periodo di grazia di 20 anni”. Ma questo rapporto, diffuso nelle scorse ore, “non è mai stato condiviso con le istituzioni nei cinque mesi in cui abbiamo negoziato”.
Tutti gli occhi sono puntati però sul risultato. Per il momento sono i numeri stessi a non consentire un’analisi: i nuovi rilevamenti aggiornati a venerdì 3 luglio, quando in Grecia mancano due giorni alla consultazione, fotografano una situazione in bilico, con l’elettorato diviso quasi perfettamente a metà tra favorevoli e contrari. Secondo quello realizzato dalla società Alco per il quotidiano Ethnos, i sì sarebbero al 44,8% mentre i no si attesterebbero al 43,4%. Gli indecisi scendono all’11,8%. In compenso il 74% dei greci vuole che il paese resti nell’eurozona e solo il 15% vorrebbe tornare ad una moneta nazionale. Spaccatura degli elettori e sostanziale parità sono confermate anche da un sondaggio commissionato da Bloomberg all’università della Macedonia: no al 43%, sì al 42,5.
Considerato il numero degli indecisi e il margine di errore di qualsiasi poll, impossibile trarre conclusioni. Il sostegno al no, cioè la posizione sostenuta dal governo, è comunque calato rispetto allo scorso sabato, quando si attestava a oltre il 50%. Nella notte il premier Alexis Tsipras ha parlato di nuovo in tv garantendo: “Il giorno dopo il referendum sarò a Bruxelles e un accordo sarà firmato” entro 48 ore dal voto. Mentre il ministro delle Finanze Yanis Varoufakis ha detto che non solo un accordo è in vista” anche con la vittoria del no, ma “è più o meno fatto”. Da Bruxelles, puntuale, è arrivata la smentita: se vincesse il ‘no’ “la posizione greca ne uscirebbe drammaticamente indebolita“, ha detto il presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker. E “anche in caso di vittoria del ‘sì’- in seguito alla quale iTsipras ha fatto capire di essere pronto a dimettersi – dovremmo affrontare negoziati difficili”. Parole smentite duramente anche dal presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem: “Un accordo già fatto? Affermazione totalmente falsa”.
Il fondo salva Stati: “Grecia ha fatto evento di default ma non chiediamo restituzione immediata dei prestiti” - Intanto il Fondo europeo di stabilità finanziaria (Efsf) ha diffuso un comunicato in cui attesta che Atene, non avendo pagato martedì la rata da 1,6 miliardi dovuta al Fondo monetario internazionale, ha fatto quello che viene definito un “evento di default”. Di conseguenza i Paesi dell’Eurozona che ne sono azionisti “si riservano il diritto di richiedere prima della scadenza il rimborso di 130,9 miliardi di euro di prestiti”. Vale a dire che per ora, come auspicato due giorni fa dal vicepresidente della Commissione Ue Valdis Dombrovskis, hanno deciso di non chiedere il pagamento immediato, cosa che avrebbe accelerato il percorso della dichiarazione di default delle Gracia. Il capo dell’Efsf, Klaus Regling, ha detto però che “questo evento di default è motivo di profonda preoccupazione. Si rompe l’impegno assunto da parte della Grecia di onorare i suoi obblighi finanziari verso tutti i suoi creditori, e si apre la porta a gravi conseguenze per l’economia greca e il popolo greco”. L’Efsf resta “in stretto coordinamento con gli Stati membri dell’area dell’euro, la Commissione europea e il Fondo monetario internazionale per decidere le sue azioni future”. In ogni caso il mancato pagamento greco “non ha alcuna influenza sulla capacità dell’Efsf di rimborsare i propri obbligazionisti. Gli investitori sanno che le obbligazioni Efsf beneficiano di una struttura di garanzia solida”.
Forniture problematiche nelle Cicladi a causa delle limitazioni ai pagamenti verso l’estero - Nel frattempo la popolazione, al quinto giorno con le banche chiuse e tetti ai prelievi ai bancomat, è sempre più in difficoltà. Secondo l’edizione online di Kathimerini, diverse isole dell’arcipelago delle Cicladi sono già alle prese con problemi di approvvigionamento, soprattutto per alcune categorie di generi alimentari, come la carne, e per le medicine. Alla base del problema, secondo la Camera di Commercio, c’è il fatto che le imprese locali non possono pagare i fornitori esteri a causa del limitazioni ai movimenti dei capitali. L’associazione ha chiesto al governo di intervenire per evitare ripercussioni sul turismo. Il vice ministro competente, Elena Kountoura, ha assicurato che da lunedì sono stati fatti tutti gli sforzi per dare priorità all’invio dei pagamenti di alberghi e ristoranti e limitare questi problemi. L’Associazione delle agenzie turistiche elleniche (Sete) calcola però che negli ultimi giorni il calo delle prenotazioni, rispetto alle attese, è stato superiore al 30 per cento.



Fonte: il Post 2/7/2015

Testo Frammento
QUANTI DEBITI HA LA GRECIA? –
Entro la mezzanotte del 30 giugno la Grecia avrebbe dovuto ripagare un prestito di 1,6 miliardi di euro che aveva ricevuto dal Fondo Monetario Internazionale (FMI), un’organizzazione economica di cui fanno parte 188 nazioni. La Grecia non l’ha fatto ed è così entrata in quello che diventerà un effettivo default, che si verifica quando uno stato diventa insolvente, e cioè non restituisce un prestito entro i termini stabiliti. Questo significa che la Grecia non potrà più ricevere prestiti dal FMI e, in circa due anni, rischia di esserne espulsa. Quello del 30 giugno non è però l’unico debito che la Grecia dovrà ripagare nei prossimi giorni, mesi e anni.

Chi può prestare soldi alla Grecia?
Non più il Fondo Monetario Internazionale, verso il quale la Grecia è insolvente: lo impediscono le regole del FMI e anche la logica (il FMI non presterebbe altri soldi a chi non gli ha restituito quelli prestati in precedenza). Glieli potrebbe prestare l’Unione Europea e a certe condizioni vorrebbe farlo. Queste condizioni fanno parte del “piano di salvataggio” dell’Unione Europea, e su queste si voterà nel referendum di domenica 5 luglio.

Chi sono i creditori della Grecia?
Lo stato greco ha diversi creditori: i principali sono il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Centrale Europea e la Commissione Europea, a cui fa capo il cosiddetto “fondo-salva stati” (il MEF: Meccanismo europeo di stabilità). Li si chiamava “troika” – poi “Gruppo di Bruxelles” – e sono loro ad aver tirato fuori i soldi che negli ultimi anni hanno permesso alla Grecia di non dichiarare bancarotta e continuare a pagare stipendi, pensioni e servizi. A loro si aggiungono tutti coloro che in passato hanno investito nella Grecia, per esempio chi – stati, banche o privati cittadini – possiede buoni del tesoro dello stato greco.
La Grecia deve quindi dei soldi a un ente monetario mondiale ed extra-europeo (l’FMI), a un istituto appositamente creato alcuni anni fa per finanziare e aiutare i paesi dell’area euro (il MEF) e alla banca (la BCE) che da quando esiste controlla, amministra e gestisce l’euro – e quindi l’economia dei paesi che lo usano – oltre che, in parte minore, a privati e singoli stati.

Quanti soldi gli deve la Grecia, in tutto?
Il Wall Street Journal ha risposto alla domanda con un chiaro e dettagliato grafico, che negli ultimi giorni viene costantemente aggiornato. Senza perdersi in eccessivi particolarismi, la Grecia deve restituire circa 281 miliardi di euro, più di quanto valga al momento il suo Prodotto Interno Lordo. Quasi la metà di questi 281 miliardi di euro – 131 miliardi – dovranno andare al MEF (il Wall Street Journal lo chiama col suo vecchio nome: “Fondo europeo di stabilità finanziaria”).
La Grecia deve anche 87 miliardi di euro a investitori privati (34) e a singoli stati dell’eurozona (53): questi numeri però sono la somma di tanti diversi stati e investitori. Il secondo più importante creditore della Grecia è quindi in realtà la Banca Centrale Europea, a cui spettano 27 miliardi di euro. Seguono il Fondo Monetario Internazionale (15 miliardi in tutto) e l’insieme dei detentori di buoni del tesoro del governo greco (cui spettano 15 miliardi di euro).

Quanto tempo ha la Grecia per restituire i soldi?
Per la Grecia si tratta – a seconda dei prestiti (delle loro rate) e dei creditori – di questioni che sono rispettivamente di giorni, settimane, mesi, anni o decenni. Allo stato attuale la Grecia potrà considerare saldati i suoi debiti dopo che il 28 aprile 2054 avrà versato l’ultima rata che deve al MEF. La scadenza più vicina è invece il 10 luglio 2015: quel giorno la Grecia dovrà rimborsare il corrispettivo di due miliardi di euro a chi in passato ha investito nei suoi buoni del tesoro.
Quelli relativi ai buoni del tesoro non sono gli unici soldi che la Grecia dovrà restituire entro il 2015, che tra l’altro è – da qui al 2054 – l’anno in cui la Grecia ha più debiti da pagare: solo da luglio a dicembre sono più di 25 miliardi di euro. In tutti gli altri anni dal 2016 al 2054 la Grecia dovrà pagare, ogni anno, una cifra che non salirà mai sopra gli 11 miliardi (nel 2019). Questo allo stato attuale, naturalmente: perché la Grecia negli anni prenderà in prestito altri soldi, dagli Stati, dalle istituzioni o dai mercati, che dovrà restituire poi negli anni successivi con gli interessi.
Guardando ai creditori, e non al valore complessivo dei crediti, è subito evidente che da oggi al 2021 la Grecia dovrà dare soldi soprattutto a FMI e BCE: entro il 2025 i debiti che la Grecia ha con BCE e FMI potranno – se rimborsati nei tempi stabiliti – essere estinti. Dal 2020 la Grecia dovrà però iniziare a ripagare i prestiti ricevuti dai governi dell’eurozona. Questi debiti finirebbero, secondo gli attuali piani e prospetti, nel 2041; nel 2042 la Grecia dovrebbe ripagare anche gli investitori privati. Da lì in poi la Grecia avrebbe debiti solo nei confronti del MEF.

Chi sono i creditori della Grecia?
Germania, Francia e Italia, soprattutto.


Fonte: il Post 3/7/2015

Testo Frammento
L’ULTIMO REFERENDUM IN GRECIA –
L’8 dicembre del 1974 i cittadini greci andarono a votare per un referendum che doveva stabilire la forma istituzionale della Grecia, monarchia o repubblica. Vinse la repubblica con il 69,2 per cento dei voti, mentre l’affluenza fu pari al 75,6 per cento degli aventi diritto al voto. Quel referendum fu l’ultimo grande evento politico del 1974, un anno molto importante per la storia della Grecia durante il quale successe un po’ di tutto: il cosiddetto “regime dei colonnelli”, la giunta militare che era al potere dal 1967, era crollato dopo il colpo di stato a Cipro. Si erano tenute elezioni parlamentari libere che erano state vinte dall’ex primo ministro Costantine Karamanlis e la Grecia stava tornando lentamente alla democrazia.
Quello dell’8 dicembre del 1974 fu l’ultimo referendum che si è tenuto in Grecia. Nel 2011 l’allora primo ministro greco, il socialista George Papandreou, annunciò un referendum sul piano di aiuti concordato con le autorità europee per evitare che la Grecia andasse in stato di insolvenza: il solo annuncio del referendum – unito da altre decisioni molto contestate, come la rimozione dal loro incarico dei capi delle forze armate greche – portò alla formazione di un nuovo governo che decise di annullare il voto. Quello che si terrà domenica 5 luglio sarà quindi il primo referendum in Grecia dallo storico voto del 1974.
Il referendum dell’8 dicembre 1974 non fu il primo che si tenne in Grecia sulla forma istituzionale dello stato. Già l’anno precedente, il 29 luglio del 1973, il 78,6 per cento dei votanti aveva scelto la repubblica in un plebiscito indetto dal colonnello George Papadopoulos, l’esponente allora più importante e potente della giunta militare al potere in Grecia. In realtà era da alcuni anni che il re greco, Costantino II, non si trovava più in Grecia. Nell’aprile del 1967, quando i militari presero il potere, Costantino II decise di appoggiare il colpo di stato o almeno di non opporsi apertamente: in quel periodo cominciò però a preparare un contro-colpo di stato che avrebbe dovuto portare alla caduta della giunta militare. Ma il suo piano, intrapreso a partire dal 13 dicembre 1967, fallì: la famiglia regnante fu costretta a lasciare il paese e a rifugiarsi in Italia. La Grecia rimase una monarchia senza re e fu introdotta la figura del “reggente”, posizione occupata fino al 1972 dal generale Georgios Zoitakis e poi dallo stesso Papadopoulos.
Già prima del referendum del 1973, Papadopoulos aveva cercato di riformare alcuni aspetti della politica greca, incontrando però diverse resistenze sia tra i più intransigenti della giunta militare sia tra coloro che si opponevano alla dittatura, come gli studenti del Politecnico di Atene. Nel maggio del 1973 c’era poi stato un altro episodio molto importante e ripreso dalla stampa italiana e internazionale: l’equipaggio di un cacciatorpediniere greco, Velos, si era ammutinato e si era diretto fino in Italia, dove aveva chiesto asilo politico (PDF). Papadopoulos temeva che altre parti delle forze armate greche potessero fare un colpo di stato contro di lui, e allo stesso tempo voleva insistere sulla politica di riforme che stava cercando di mettere in pratica da alcuni anni. Il primo giugno dichiarò la Grecia una repubblica presidenziale, con lui stesso presidente. L’atto formale fu approvato da un plebiscito che si tenne il 29 luglio 1973: il voto fu ampiamente controllato dai militari e gli oppositori al regime non riconobbero il risultato. La Grecia, almeno in teoria, era diventata una repubblica.
La fine del regime dei Colonnelli e il referendum del 1974
Nel novembre del 1973 ripresero le proteste degli studenti del Politecnico di Atene, a cui il governo di Papadopoulos rispose con grande violenza. La situazione di caos fu sfruttata da Dimitrios Ioannidis, un militare della fazione più intransigente e capo della temuta Polizia militare. Ioannidis organizzò un colpo di stato contro Papadopoulos, prese il potere e fece insediare un nuovo governo. Nonostante la giunta militare fosse già parecchio indebolita dalle proteste e dalle divisioni interne, l’episodio che portò alla sua caduta fu la decisione di Ioannidis di appoggiare un colpo di stato a Cipro, un’isola a sud della Grecia abitata dalla comunità greco-cipriota (78 per cento circa dell’intera popolazione) e da quella turco-cipriota (22 per cento). Il 15 luglio 1974 un colpo di stato appoggiato dalla giunta greca depose l’arcivescovo Makarios III, presidente cipriota. La Turchia decise in risposta di invadere Cipro, per difendere gli interessi dei turchi-ciprioti, e occupò la parte settentrionale dell’isola. L’incapacità della giunta di portare a termine il suo piano divenne la causa immediata principale della caduta del regime dei colonnelli.
Il presidente greco Phaedon Gizikis, nominato dalla giunta, decise di affidare l’incarico di formare un nuovo governo a Costantine Karamanlis, che era stato a capo del governo prima dell’arrivo dei militari. Nel novembre di quell’anno si tennero le prime elezioni libere dopo molti anni, che furono vinte dal partito di Karamanlis, Nuova Democrazia, ancora oggi il principale partito conservatore della Grecia. Karamanlis decise anche di indire un nuovo referendum sulla scelta repubblica-monarchia, perché non considerava valido quello dell’anno precedente. Al re Costantino II fu vietato di rientrare in Grecia per la campagna elettorale, ma gli fu consentito di fare dei discorsi alla nazione trasmessi in televisione. I partiti politici greci rimasero per la maggior parte neutrali. A favore della repubblica si espressero comunque in molti, tra cui Alexandros Panagoulis, uno degli oppositori più conosciuti del regime dei colonnelli e per un periodo compagno della giornalista italiana Oriana Fallaci. La repubblica vinse con il 69,2 per cento dei voti: a Creta votarono a favore della repubblica oltre il 90 per cento dei votanti.
Il 1974, un anno importante per la storia greca
Nel luglio del 2014, a quasi 40 anni di distanza dal referendum, il giornalista greco Nikos Konstandaras scrisse sul New York Times un articolo che spiegava bene l’importanza del 1974 per la storia della Grecia. Tra le altre cose Konstandaras raccontava come da quel momento cominciarono a crearsi le condizioni per quello che sarebbe successo dopo: la disaffezione alla politica, l’imponente presenza dello stato nell’economia e un diffuso populismo.

«Il 1974 fu più importante del 1981, l’anno in cui ci unimmo [la Grecia, ndr] a quella che allora era la Comunità Economica Europea, oggi Unione Europea. Ci siamo a malapena accorti del 1989 e del collasso del blocco sovietico, fino a che l’Europa, la nostra regione e l’economia globale hanno cominciato a cambiare. Anche il 2001, anno in cui cambiarono molte cose nel mondo e in cui la Grecia adottò la moneta comune, e il 2004, quando Atene ospitò con successo le Olimpiadi estive, furono solo passi sulla strada che dalla libertà avrebbe portato alla rovina economica.
Il 1974 fu l’anno da cui iniziò il più grande periodo continuativo di stabilità e prosperità nella nostra storia, ma che consolidò anche molti dei problemi che abbiamo ancora oggi: una grande sfiducia nei confronti dell’autorità, la resistenza alle riforme, uno sfrenato populismo in politica e nei media, un’economia dominata dalla presenza dello stato che favorisce gruppi specifici e un sistema politico che privilegia la convenienza all’efficienza e che mette davanti gli interessi personali al bene comune. […]
Nel dicembre 1974 Xenophon Zolotas, il governatore della Banca centrale greca, avvisò così il governo: “Se continueremo a coprire il debito affidandoci pesantemente a nuovi prestiti le cose continueranno ad andare male”. I successivi governatori della Banca centrale greca continuarono a dire la stessa cosa. I nostri politici spendaccioni, con poche eccezioni, non si adattarono al cambio dei tempi, scegliendo di mantenere i votanti soddisfatti con nuovi prestiti, fino a quando la Grecia non arrivò sull’orlo della bancarotta nel 2010, un nuovo importante anno per il nostro paese»


Fonte: Eugenio Occorsio, la Repubblica 3/7/2015

Testo Frammento
GREXIT, LE TERRE INCOGNITE DELL’EURO SENZA ATENE –
«Il futuro dell’Europa è nelle mani della Grecia», titola l’Economist di oggi.
Difficile discordare. Banche chiuse d’ufficio per otto giorni, la prima insolvenza con l’Fmi di un Paese europeo, il collasso di un piano di salvataggio senza precedenti, l’impossibilità di un accordo europeo: situazioni impensabili quando fu varato l’euro e che lasceranno il segno. Secondo il Fondo serviranno altri 50 miliardi entro il 2018 per la Grecia. E sono il preludio alla “navigazione in acque sconosciute” prospettata da Draghi. A questo punto è davvero difficile prevedere cosa accadrà. Ma lo spettro della Grexit si fa sempre più incombente: ormai non è più solo un male remoto da esorcizzare ma uno scenario plausibile con cui politici e banchieri stanno facendo seriamente i conti. Così abbiamo chiesto e tre prestigiosi economisti di aiutarci a valutare, come in un esperimento non più solo da laboratorio, quali potrebbero essere le conseguenze della più infausta delle conclusioni a questo dramma che si trascina da sette anni. Ognuno fa le sue ipotesi, ma di sicuro tutti concordano con il titolo dell’Economist.

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MICHAEL SPENCE
“Una dracma svalutata del 50% schianterebbe l’economia”
«Atene sopravvive oggi solo grazie alla Troika e la prima vittima della Grexit sarebbe la Grecia stessa. Non vedo la possibilità che il Paese possa farcela in una condizione di isolamento totale dal resto d’Europa, con l’economia a pezzi e un debito gigantesco da restituire, a questo punto non si sa più come. La solidarietà europea già fatica a manifestarsi adesso, figuriamoci dopo un divorzio che non potrà essere che traumatico. La reintroduzione della dracma porterebbe ad una svalutazione che il Fmi calcola nel 50%, qualcuno più ottimista nel 40, ma insomma di dimensioni tali da sfiancare qualsiasi economia anche molto più solida. Paradossalmente l’export, che di regola è l’unico settore a trarre vantaggio da una svalutazione, nel caso greco quasi non esiste per l’esiguità dell’apparato manifatturiero a differenza dell’Italia e anche della Spagna e del Portogallo. Le possibilità che il ritorno alla dracma possa avere qualche pur minimo risvolto positivo secondo me sono molto esigue. Le conseguenze sarebbero pesanti anche dal punto di vista politico interno, con Tsipras e i suoi ministri che finirebbero inevitabilmente sotto accusa per non aver saputo trattare efficacemente e non aver mantenuto la promessa elettorale di restare nell’euro pur attenuando la morsa dell’austerity che tanta sofferenza provoca. Peggio, il premier verrebbe anche incolpato di aver dissipato i germogli di ripresa che il Paese respirava nel 2014 quando addirittura la Grecia si era riaffacciata sul mercato dei capitali. Ora sarebbe fuori dall’euro e con un’economia sfiancata, senza la possibilità di recuperare in fretta sovvertendo le misure di austerity per assoluta mancanza di risorse. L’austerity è stata sbagliata ed eccessiva, il suo retaggio sono il 26% di disoccupazione e il 50% di quella giovanile, e i suoi danni saranno duraturi. Le banche, dissanguate da una fuga di capitali che continuerebbe sfrenata fino all’ultimo secondo utile, malgrado tutte le chiusure e i controlli ufficiali di capitale, molto probabilmente fallirebbero senza alcuna possibilità di sostegno dalla Bce. Tutto questo nello scenario peggiore plausibile, quello di Grexit: ma in ogni caso, comunque vada a finire, dopo la crisi greca l’Europa non sarà mai più la stessa».

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DANIEL GROS
“Rischio dissoluzione per l’euro se la Grecia si riprende da sola”
«Il vero pericolo per l’Europa, non sembri un’ipotesi surreale, è che la Grexit sia un successo. Visto che ragioniamo in termini di ipotesi di studio, perché ancora credo che alla fine un accordo in extremis sarà raggiunto, vediamo anche questa variabile: naturalmente nei primi mesi le conseguenze economiche sono disastrose per tutti, e tutti dicono “avete visto, lo dicevamo noi”. Però poi – ripeto, questa è l’ipotesi peggiore per il continente - la Grecia si riprende, magari addirittura rapidamente, e prospera con la sua brava dracma. Allora per l’Europa è davvero finita. Avrà buon gioco chi dirà: “Avete visto? Si sta meglio senza Europa”, e l’effetto-propulsione per i partiti anti-euro sarebbe incontrollabile. La fine dell’irrevocabilità dell’euro, insieme con la consapevolezza di aver bruciato centinaia di miliardi inutilmente, può davvero condurre alla fine dell’esperimento della moneta unica. Certo, tutto questo accade se la Grecia ne ricava giovamento: viceversa, se la Grecia affonda, si apre per l’Europa una serie di altri problemi, però tutti molto minori che non nel caso precedente. Le misure anti-attacco speculativo in questo caso funzionerebbero, anche perché la soluzione della vicenda greca (nefasta nell’ipotesi che stiamo esaminando) arriva dopo tanti anni di “attesa” nel momento in cui in Europa si respira aria di ripresa. Per cui neanche nei primi mesi vedo il pericolo concreto di impennate dello spread e dei “premi di rischio”. Certo, la tensione potrebbe riaffiorare in una prossima crisi o recessione, perché la speculazione si ricorderebbe del precedente greco e attaccherebbe senza pietà le economie più deboli. Insomma, meglio evitare di sperimentare la Grexit dal vivo. Comunque, se la Grecia esce, quello che deve fare subito l’Europa non è molto diverso dall’ipotesi contraria: rafforzare le strutture comuni, implementare l’unione bancaria con una garanzia dei depositi, accennare qualche forma di integrazione fiscale. Di più l’Europa non può fare a meno di cambiare i trattati e cedere finalmente un po’ di sovranità. Basterebbe una vera volontà politica. Ma i Paesi europei non vogliono saperne, neanche se c’è la Grexit».

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LORENZO BINI SMAGHI
“L’Italia può evitare il contagio con riforme e piano banche”
«L’alto livello del debito e la bassa crescita del nostro Paese rappresentano elementi di vulnerabilità sui quali si concentreranno inevitabilmente gli investitori internazionali, nel caso della vittoria del no in Grecia e della conseguente possibile Grexit. Un altro punto di debolezza italiano è rappresentato dalle varie forze che si sono schierate a favore di Tsipras recentemente – Lega, 5 Stelle, Forza Italia, addirittura alcune frange del Pd a giudicare dalle ultime esternazioni di D’Alema – che potrebbero prendere spunto dal disagio greco per lanciare una nuova campagna populistica contro l’Europa nella speranza di ottenere ulteriori consensi. E’ il “pensiero debole”, insomma il populismo che si sente circolare in questi giorni nei talk show nostrani, che alimenta timori di una incapacità del paese di fare la propria parte invece di cercare continuamente capri espiatori. A meno che non ci sia un ravvedimento di fronte al dramma che la Grecia vivrà uscendo dall’euro. Il rischio di contagio esiste comunque, inutile nasconderselo, soprattutto se l’euro non appare più come irreversibile. Bisogna prepararsi a farvi fronte. Sono fondamentali i passi avanti che si riuscirà a compiere in Europa verso una maggiore integrazione politica. Presumo, e voglio sperare, che il governo italiano abbia già negoziato con gli altri principali partner, non solo nelle sedi ufficiali ma in quelle in cui veramente si decidono le cose, un piano preciso in tal senso: integrazione fiscale, assicurazione comune sui depositi, altri provvedimenti per il completamento dell’unione bancaria. Altrettanto fondamentali sono le riforme rivolte a consentire all’Italia di recuperare competitività e riprendere a crescere creando posti di lavoro. Non basta il Jobs act, occorre realizzare concretamente le riforme promesse, dalla giustizia alla pubblica amministrazione. È necessario poi accelerare la ristrutturazione del sistema bancario e alleggerirlo delle sofferenze affinché possa sostenere la ripresa. Solo in queste condizioni la Bce, più che mai in caso di Grexit, potrà sentirsi pienamente legittimata ad intervenire con i suoi “bazooka” per limitare il contagio. L’istituto ha più volte ripetuto che ciascuno deve fare la sua parte e ha dimostrato di saper fare la sua».


Fonte: Andrea Bonanni, la Repubblica 3/7/2015

Testo Frammento
SE NON PASSA IL PIANO INCUBO PER LA UE DIVISA TRA NUOVO NEGOZIATO E ROTTURA –
Ieri mattina il presidente Hollande ha telefonato ad Angela Merkel con un quesito a cui nessuno, al momento, è in grado di dare una risposta. Che cosa succede veramente se domenica i greci voteranno “no” al referendum? In questo caso, secondo il presidente francese, «si entra in una dimensione sconosciuta». Adesso che il “piano B” in caso di default di Atene è diventato “piano A”, quello che manca davvero è un “piano C” che definisca la strategia da seguire nell’ipotesi di uno Tsipras vittorioso, che si ripresenta a Bruxelles chiedendo di rinegoziare tutto da una posizione politicamente rafforzata. La possibilità è tutt’altro che remota, visto che i sondaggi fotografano un elettorato greco diviso praticamente a metà. E le cancellerie europee sono molto preoccupate.
«Molti affermano che non possiamo permetterci un’uscita della Grecia dall’euro. Altri sostengono che non possiamo permetterci di tenere Atene nella moneta unica alle sue condizioni. Di certo, quello che non possiamo permetterci è di farci sorprendere lunedì da un “ no” greco senza sapere che pesci pigliare», commenta sconsolato un alto funzionario europeo. In questa situazione di totale incertezza, sono parecchi quelli che segretamente sperano sia ancora una volta Draghi a togliere le castagne dal fuoco al posto dei politici. Se lunedì, a seguito di una vittoria dei “no”, il Consiglio direttivo della Bce dovesse decidere di chiudere l’Ela, il rubinetto di emergenza che tiene in vita le banche greche sia pure a sportelli chiusi, la sopravvivenza di Atene nell’euro diventerebbe questione di giorni più che di settimane. Se poi il 20 luglio la Grecia non fosse in grado di rimborsare 3,5 miliardi che deve alla Banca centrale europea, Varoufakis dovrebbe affrettarsi a stampare dracme, anche se sostiene che il governo ha buttato via le matrici delle vecchie banconote. Ma è difficile credere che Draghi, questa volta, sia disposto a supplire alla latitanza della politica senza chiamare l’eurogruppo ad assumersi le proprie responsabilità.
Se domenica vincessero i “sì”, il percorso politico sarebbe abbastanza chiaro. Di fronte ad una richiesta di aiuto del popolo greco, e alle probabili dimissioni del governo Tsipras, l’Ue non avrebbe altra strada che quella di varare un nuovo programma di assistenza. Ma non sarebbe comunque una passeggiata. La crisi di questi giorni si è già mangiata tutte le prospettive di crescita economica per l’anno in corso e il Paese chiuderà il 2015 in forte recessione. Nel rapporto pubblicato ieri, il Fmi avverte che la Grecia avrà bisogno nuovi finanziamenti per 50 miliardi nei prossimi 3 anni, di cui almeno 36 da prestiti europei. Sarà necessario ristrutturare il debito pubblico, che rischia di arrivare al 200 per cento del Pil, allungando le scadenze almeno fino al 2040. Se poi anche il nuovo governo frenasse sulle riforme, come ha fatto Tsipras finora, diventerebbe inevitabile un taglio netto del debito per una somma che potrebbe arrivare a 50 miliardi di euro. Dai palazzi di Francoforte, inoltre, fanno notare che l’incertezza politica seguita ad una vitoria dei “sì”, renderebbe difficile definire un nuovo programma di lungo periodo. Il probabile governo di transizione che prenderebbe il potere avrebbe vita breve. E alle elezioni potrebbe nuovamente vincere Tsipras e la linea anti-austerità: «Sarebbe come buttare i soldi dalla finestra», commenta un alto dirigente.
Ma la prospettiva veramente da incubo si materializzerebbe con la vittoria dei “no”. «Il referendum è per scegliere tra l’euro e la dracma», ha sintetizzato Renzi. Questo, almeno, è il messaggio che tutti si sforzano di inviare all’opinione pubblica greca prima del voto. Un messaggio opposto a quello di Tsipras, secondo cui il “no” non implica l’abbandono della moneta unica ma rafforza solo la posizione negoziale del governo greco a Bruxelles. In realtà entrambe le semplificazioni non rendono la complessità del problema. Innanzitutto l’Unione monetaria non prevede meccanismi per l’uscita di un Pae- se. Legalmente, l’unico modo per abbandonare l’euro sarebbe quello di uscire dall’Ue: un’ipotesi assolutamente impensabile per un Paese come la Grecia. Atene, poi, ha già fatto sapere che non ci sarà in ogni caso un divorzio consensuale, e si è detta pronta a ricorrere alla Corte di Giustizia per restare nella moneta unica ad ogni costo.
E’ vero che la Grecia potrebbe facilmente essere forzata a rinunciare all’euro e a battere una moneta parallela per poter pagare stipendi e pensioni. Ma il danno economico e di immagine che l’Europa ne riceverebbe sarebbe enorme. Atene potrebbe cancellare unilateralmente i 270 miliardi di debiti che ha contratto con Bce, Fmi e fondo salva stati e questa sarebbe una perdita netta per i contribuenti europei. Inoltre l’uscita di un Paese dall’unione monetaria potrebbe riaprire la guerra degli spread. Nonostante il probabile intervento calmieratore della Bce, Standard e Poor’s ha calcolato che i Paesi più esposti pagherebbero 30 miliardi di maggiori interessi sui loro debiti pubblici, di cui 11 graverebbero sull’Italia. Ma, nella «dimensione sconosciuta » evocata da Hollande, nessuno può escludere che la mareggiata sui mercati si trasformi in tsunami capace di spezzare la coesione dell’euro. E le insistenti pressioni di Obama per evitare un Grexit non sono fatte per tranquillizzare gli animi circa i rischi che incombono. D’altra parte tutti concordano che negoziare un nuovo programma di assistenza con uno Tsipras rafforzato da una vittoria dei “no” sarebbe quasi impossibile, ha detto ieri il presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem. Ovvio. Intanto, però, il “piano C” continua a latitare.


Fonte: Andrea Di Biase, MilanoFinanza 3/7/2015

Testo Frammento
FMI: PER LA GRECIA SERVONO 50 MLD –
Un terzo piano di salvataggio della Grecia costerebbe 50 miliardi di euro nei prossimi tre anni. È la previsione del Fmi, diffusa ieri. Intanto il ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis è pronto a lasciare in caso di vittoria dei sì al referendum di domenica in merito all’accettazione del programma dei creditori internazionali.
Ma il presidente dell’Eurogruppo, l’olandese Jeroen Dijsselbloem, avverte Atene: se i greci voteranno no sarà «incredibilmente difficile» mettere in piedi un nuovo salvataggio. Un avvertimento, neanche tanto velato, sulle possibili conseguenze del voto di domenica. Intanto è giallo sui sondaggi: la società Gpo ha smentito di aver fatto il rilevamento pubblicato online dal quotidiano Kathimerini in cui si dava in vantaggio i sì. Dall’Italia il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, è sicuro che lunedì la Grecia tornerà a trattare. E il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, rassicura: siamo in grado di far fronte alle turbolenze.
L’incertezza sull’esito della crisi greca e sui suoi riflessi sul futuro dell’euro ha però inciso negativamente sulle borse europee, che hanno chiuso in territorio negativo. Il Dax ha accelerato al ribasso nel finale chiudendo in flessione dello 0,73%, il Cac ha perso lo 0,98%, l’Ibex ha ceduto lo 0,68%. Il Ftse Mib di Piazza Affari ha chiuso perdendo l’1,43% a quota 22.616.
Lo spread è invece rimasto sui livelli della seduta di ieri a 149 punti base con il rendimento del decennale al 2,33%.
Un nuovo piano da 50 mld. Secondo le stime del Fondo monetario internazionale, un eventuale rifinanziamento del debito greco costerebbe almeno 50 miliardi di euro fino al 2018. Secondo i tecnici dell’Fmi le finanze della Grecia si sono ulteriormente deteriorate perché Atene è stata troppo lenta nel varare le riforme economiche necessarie. Washington sottolinea anche che lo scorso anno si prevedeva un calo del debito greco al 128% del pil. Ora il debito è tornato a viaggiare verso il 150% entro il 2020. Il rapporto, pubblicato ieri sul sito internet dell’Fmi, era stato redatto poco prima del fallito accordo nelle ultime ore e del mancato pagamento della tranche da 1,6 miliardi dovuta entro lunedì 30 giugno. «Questi ultimi sviluppi», si sottolinea, «avranno certamente un ulteriore impatto economico e finanziario significativamente negativo» sulla situazione greca. Perché, sottolineano gli economisti dell’Fmi, «la Grecia è preclusa dall’ottenere nuovi aiuti fino a che non avrà pagato in pieno i suoi arretrati col Fondo».
Nel rapporto si legge anche che i creditori dovrebbero offrire alla Grecia tassi di interesse scontati e una estensione del periodo previsto per il rimborso dei prestiti.
Il monito di Dijsselbloem. Il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, parlando al Parlamento olandese, ha però avvertito Atene: se i greci voteranno no al referendum sarà «incredibilmente difficile» mettere in piedi un nuovo salvataggio. Allo stesso tempo il ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis ha fatto sapere di essere pronto a dimettersi nel caso la consultazione popolare dovesse concludersi con un sì al programma proposto dai creditori internazionali. «Rassegnerò le dimissioni se vince il sì» al referendum, ha affermato Varoufakis, in una intervista a Bloomberg TV. In quel caso, ha aggiunto, la Grecia firmerà immediatamente l’ultimo piano messo sul tavolo dalle istituzioni internazionali. Ma se i greci dovessero dire no, «riprenderemo immediatamente» le trattative. Anche se, ha spiegato il ministro greco, il governo Tsipras non intende firmare alcuna intesa che non preveda «la ristrutturazione del debito». In sostanza un taglio del valore nominale dei crediti che, per la maggior parte, sono ora in mano degli altri Paesi dell’Eurozona, Italia compresa. Sul fronte interno, il ministro delle Finanze ha assicurato che martedì prossimo le banche greche riapriranno «regolarmente», sottolineando che gli istituti sono «perfettamente capitalizzati». In queste ore, però, nessuno se la sente di alzare i toni e guardare allo scenario peggiore. «Secondo me non uscirà dall’euro, farà di tutto per fare un accordo», ha provato a rassicurare il premier italiano Renzi, convinto che un’uscita «sarebbe una sconfitta politica di tutti». Anche il presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, che per la prima volta è sceso in campo per contraddire le indicazioni elettorali di un Governo europeo, si è limitato a ricordare ai greci la grande responsabilità che portano: «Aspettiamo il risultato del referendum e lo prenderemo in considerazione, ora è il momento che i greci decidano il loro futuro». E anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella spinge ancora per il dialogo: «Auspichiamo che la Grecia possa trovare rapidamente un’equilibrata intesa per riavviare un percorso di stabilità e crescita nell’alveo dell’Unione Europea, cui Atene appartiene».
I rischi per l’Italia. Secondo l’agenzia di rating Standard & Poor’s, l’Italia sarebbe il Paese più colpito nel caso di un’uscita della Grecia dall’euro, con un aumento dei rendimenti dei titoli di Stato che farebbe salire il costo del debito di 11 miliardi di euro. «Il principale effetto di una Grexit sul resto dell’Eurozona, in particolare sulla periferia, avverrebbe attraverso i mercati dei capitali», ha dichiarato S&P. In particolare, farebbe tornare una componente di rischio sui bond dei Paesi considerati «più vulnerabili». Secondo la simulazione di S&P, l’aumento dei costi di finanziamento per l’Eurozona nel 2015 e nel 2016 sarebbe pari a 30 miliardi, ma l’incremento verrebbe distribuito in maniera diseguale, con l’Italia che appunto potrebbe registrare il maggior incremento assoluto: 11 miliardi.
Il giallo del sondaggio. A rendere ancora più volatile la giornata sui mercati ci si è messo anche un sondaggio della società Gpo pubblicato dall’edizione online del quotidiano Kathimerini, secondo cui il 47% dei greci sarebbe propenso a votare sì. I favorevoli al no, ovvero coloro che sarebbero schierati con la posizione del governo, sarebbero pari al 43%. Successivamente, però, la Gpo ha smentito di aver fatto quel rilevamento. «Non abbiamo alcuna responsabilità per quelle cifre pubblicate dai media e useremo tutti i mezzi legali per tutelare i nostri interessi», fa sapere l’azienda in un comunicato. I sondaggi, si aggiunge, devono essere fatti in modo «responsabile», in particolare «mentre si attende la decisione del popolo greco».
Andrea Di Biase, MilanoFinanza 3/7/2015

Fonte: Luca Cifoni, Il Messaggero 3/7/2015

Testo Frammento
GREXIT, CON LA NUOVA MONETA SVALUTAZIONE FINO AL 50% –
Banche senza più liquidità, svalutazione con conseguente perdita del potere d’acquisto, micidiali contraccolpi per un’economia già disastrata. Anche se è difficile prevedere nel dettaglio tutti gli effetti di una uscita della Grecia dell’euro, vista l’assoluta unicità dell’evento, pochi dubitano che lo scenario peggiore non porti con sé queste conseguenze. Mentre anche gli osservatori più ottimisti circa i rischi di contagio verso l’esterno non nascondono la possibilità che un esito drastico della vicenda vada a minare la credibilità dell’intero edificio europeo.
Finora, la data limite era indicata nel 20 luglio, ovvero il giorno in cui vengono a scadenza 3,5 miliardi di titoli greci in mano alla Bce. Se il governo greco non fosse in grado di ripagarli, la banca centrale europea sarebbe più o meno obbligata a tagliare le erogazioni di liquidità agli istituti di credito ellenici, che attualmente passano attraverso il programma di emergenza Ela. Ma a prendere sul serio chi in queste ore nei palazzi di Bruxelles usa toni oltranzisti, equiparando il no al referendum alla volontà di uscire in via definitiva dalla moneta unica, questa rottura irreversibile potrebbe avvenire anche prima, da lunedì in poi. Le banche greche si ritroverebbero di fatto senza l’ombrello di una banca centrale su cui contare, e con loro l’intero Paese. Senza liquidità verrebbero meno, almeno in una prima fase, l’operatività bancaria e il funzionamento dell’intera sistema dei pagamenti. Le code ai bancomat di questi giorni sono solo un assaggio di quel che accadrebbe: le difficoltà non riguarderebbero solo i privati ma anche le imprese, che avrebbero forti difficoltà a portare avanti la propria attività n mancanza di strumenti finanziari efficienti e con i prestiti bancari presumibilmente ridotti al lumicino.
PASSAGGIO INEVITABILE
L’adozione di una diversa valuta sarebbe a quel punto un passaggio quasi inevitabile, e il governo potrebbe solo tentare di regolarne tempi e modalità. Questo anche in un contesto giuridico in cui formalmente non è prevista l’uscita dall’euro ma solo dall’Unione europea, comunque sulla base di una richiesta del Paese interessato. La nuova moneta è destinata a deprezzarsi rispetto all’euro (alcuni dicono fino al 50%) e dunque dipendenti e pensionati pagati in dracme più o meno ufficiali vedrebbero ridotto il proprio potere d’acquisto rispetto ad ampie categorie di beni e servizi provenienti dall’estero. Sfortunatamente l’economia greca - che non ha una componente manifatturiera orientata all’esportazione - non avrebbe la possibilità di beneficiare della nuova situazione in termini di recupero di competitività e gli unici vantaggi concreti sarebbero per il turismo: gli stranieri con il tasca l’euro forte sarebbero invogliati a programmare le proprie vacanze nel Paese, a meno di turbolenze tali da sconsigliare i viaggi.
L’ALTERNATIVA
Il ritorno alla dracma, anche attraverso lo stadio intermedio della doppia circolazione, avrebbe anche l’effetto di far aumentare il valore nominale del debito pubblico espresso nella nuova valuta. Ma a quel punto il governo greco non sarebbe comunque in grado di far fronte ai propri impegni e i creditori dovrebbero rinunciare in via temporanea o definitiva al flusso degli interessi e a quote di capitale.
È possibile invece che la rottura delle trattative e il conseguente default non portino alla Grexit? La difficoltà principale sta proprio nel funzionamento del sistema bancario: è ipotizzabile che questo continui a fornire euro all’economia greca, pur se con alcuni vincoli, solo nel caso in cui istituti di credito stranieri - dunque ancora connessi alla Bce - conquistino un ruolo predominante acquisendo gli sportelli locali. Uno scenario tecnicamente possibile ma più difficile da concepire a livello politico vista la forte contrapposizione tra Atene e il resto della Ue.



Fonte: L’Espresso 3/07/2015

Testo Frammento
MIRACOLO A SALONICCO UN BANCOMAT SANGUINA [6 pezzi] –
LA CRISI GRECA sta seminando il panico in tutta Europa. A Salonicco una pastorella giura di avere visto un Bancomat sanguinare. In tutto il resto della Grecia, per un fenomeno che gli economisti definiscono “slurping”, i Bancomat invece di distribuire denaro risucchiano le banconote dalle tasche dei passanti. Ad Atene i ristoranti sono pieni, è impossibile trovare un tavolo libero anche nelle peggiori bettole. È il cibo che manca, e i clienti lo aspettano inutilmente fino all’orario di chiusura, battendo nervosamente la forchetta sul bicchiere per richiamare l’attenzione del cameriere, che fa finta di niente. È disponibile solo, a giorni alterni, la filoumiza, un’insalatone di feta a cubetti mischiata con feta a fettine, ma perfino i turisti tedeschi hanno qualche difficoltà a inghiottirla. La feta è stata dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’umanità: usata per intonacare le case, è lei a dare ai villaggi delle isole greche quell’inconfondibile luce candida.
TSIPRAS Attribuisce il suo difficile momento alla creazione della Lista Tsipras in Italia. «Fino a quel momento - ha confidato ai collaboratori più stretti - tutto andava a gonfie vele. Da lì in poi, tutto ha cominciato a girare storto. Non sono superstizioso. Mi limito a fare due più due». Pare che il primo ministro greco veda molto di buon occhio la nascita, in Italia, di una Lista Merkel.
MONETA UNICA «Il fallimento dell’euro è sotto gli occhi di tutti - spiega il ministro dell’economia Varoufakis - e d’altra parte il ritorno alle singole monete nazionali è impossibile. Dunque la sola soluzione praticabile è che l’intera Europa adotti la dracma come moneta unica». La proposta è giudicata molto affascinante dai numismatici ma poco praticabile dalle banche centrali: si tratterebbe di fondere monete in bronzo, lavorarle ancora arroventate con tenaglie e martello e infine imprimere l’effigie di Giove o Atena con un sigillo. I costi sarebbero insostenibili.
PLATONE «La Grecia fuori dall’Europa sarebbe come vedere giocare Platone in serie B», ha detto il presidente della Commissione europea Juncker. «Vedere Juncker capo dell’Europa - ha risposto Platone dalla sua caverna - è come vedere il Lussemburgo disputare la finale dei Campionati del mondo».
CONTI IN ORDINE Entro il 2018 non solamente gli Stati nazionali, ma ogni singolo cittadino europeo dovrà presentare i suoi conti alla Commissione europea, dimostrando che sono in ordine. In caso contrario, dopo una severa lavata di capo, il cittadino si vedrà recapitare a casa un Certificato di Indegnità che dovrà affiggere, per legge, sul portone condominiale, corredato da una sua fotografia. Ma come potrà capire, ognuno di noi, se rientra nei parametri europei? Bisogna calcolare l’indice Mowles, ovvero il rapporto tra l’ultimo conto pagato al ristorante e il rendimento delle proprie azioni, moltiplicare per 3,14 e arrotondare alla cifra più alta. Il risultato dev’essere esattamente 52, né più basso né più alto, altrimenti l’esame non è superato.
ALTRE COSE IN ORDINE «Non è vero che l’unica cosa che ci interessa sono i conti in ordine», si difendono gli eurocrati. E fanno notare che secondo i parametri europei anche i cassetti e gli armadi devono essere in ordine, con un puntuale ricambio estate/inverno, l’antitarme e i sacchetti di lavanda, le mutande e i calzini nel cassetto in alto, i maglioni in quello più basso, le cinture bene arrotolate per non occupare troppo spazio. Meglio le camicie appese che quelle ripiegate nei cassetti: si stropicciano. Le scarpe vanno ingrassate e lucidate almeno una volta all’anno e tenute in scarpiere bene areate, possibilmente non nella stanza dove si dorme.
PUTIN Putin ha recentemente ricordato «gli storici rapporti di amicizia e collaborazione con la Grecia». L’interpretazione unanime degli esperti di politica internazionale è che Putin ha intenzione di invadere la Grecia entro poche settimane. Ma per arrivare fino ad Atene la Russia dovrebbe annettersi l’Ucraina (già fatto), la Moldavia, la Romania, la Bulgaria e la Macedonia, estendendo la propria area di influenza ben oltre i vecchi confini del Patto di Varsavia. Per ora, dunque, l’ipotesi sembra troppo azzardata. Le condizioni del rublo, pietose, contribuiranno comunque a rinsaldare i rapporti greco-russi.
Michele Serra

IL VOCABOLARIO DEL DRAMMA GRECO –
European stability mechanism
È lo strumento principale attraverso cui l’Unione europea ha prestato soldi alla Grecia. Prima chiamato Efsf e ora Esm, il cosiddetto “Fondo salva Stati” ha elargito finora ad Atene 141,8 miliardi di euro, quasi la metà del suo debito pubblico. I Paesi contribuiscono al finanziamento in proporzione al loro peso all’interno della Banca centrale europea (Bce). Secondo il ministro dell’Economia, Pier Paolo Padoan, tra prestiti diretti e contributo al Fondo, la Grecia deve all’Italia 35,9 miliardi di euro. Roma è dunque il terzo Paese creditore di Atene dopo Germania e Francia.
EMERGENCY LENDING ASSISTANCE
Gli unici finanziamenti alle banche greche sono arrivati finora dall’Emergency lending assistance (Ela), un programma attraverso cui la Bce ha erogato agli istituti di credito greci 89 miliardi di euro. Domenica 28 giugno, il giorno in cui il governo di Alexis Tsipras ha annunciato il controllo sui capitali, Mario Draghi ha detto che manterrà gli attuali livelli di assistenza verso le banche greche, ma ha anche specificato che non li aumenterà.
Il primo requisito per ricevere i quattrini della Bce è quello di essere solventi, cioè in grado di restituire i prestiti.
Il deterioramento della situazione in Grecia non fa che indebolire il patrimonio delle sue banche.
Quantitative easing
A marzo di quest’anno la Bce ha iniziato a comprare titoli di Stato dei Paesi che usano la moneta unica. Il programma, in vigore fino a settembre 2016 per un totale di 1.100 miliardi di euro, ha lo scopo di contrastare attacchi speculativi sulle economie più deboli della zona. Se un Paese è in difficoltà, infatti, banche e fondi d’investimento possono decidere di vendere in massa i suoi titoli di Stato, mandandone di conseguenza alle stelle gli interessi e causandone eventualmente il fallimento. Comprando titoli di Stato - fino a un massimo di 60 miliardi al mese - la Bce punta a fare da scudo contro la speculazione. Al momento, però, la misura non vale per la Grecia. Atene può beneficiarne solo ripagando i prestiti in scadenza e accettando il piano della troika.
Outright monetary transactions
È un altro importante strumento di salvataggio, ma finora la Bce non l’ha utilizzato. Prevede l’acquisto di titoli di Stato dei Paesi della zona euro, con due differenze sostanziali rispetto al quantitative easing: le nazioni devono essere in dichiarata difficoltà economica; gli acquisti sono illimitati. Lo strumento potrebbe dunque essere usato subito per spegnere l’incendio greco. Più complicato utilizzarlo, in caso di uscita di Atene dall’euro, con gli altri Paesi in difficoltà.
Il programma prevede infatti che per poter beneficiare dell’aiuto della Bce, il governo in questione stipuli un accordo di assistenza finanziaria, cioè si metta nelle mani della troika.
S.V.

DISFATTA LA GRECIA RIFACCIAMO L’EUROPA –
Tra le tante immagini che riportano a casa, i turisti che ogni estate invadono Atene e le isole dell’Egeo avranno sicuramente quella dei numerosi greci, giovani e vecchi, seduti per ore a conversare ai tavolini dei caffè. Ha raccontato Petros Markaris, scrittore amato anche in Italia per i polizieschi di Kostas Charitos, il commissario che ama lavorare in agosto e per fuggire al mare aspetta settembre, sapendo che la capitale si trasforma in un inferno di calore non appena si attenua il meltemi, il tipico vento estivo: «I miei amici tedeschi sono perplessi perché vedono i greci a passeggio nelle strade o seduti al caffè, non riescono a capire che questo è il modo di vivere della gente del Sud».
I tedeschi troppo rigorosi contro i greci un po’ pigroni, la salvezza dell’euro contro la miseria della dracma. Nei giorni più bui della crisi che rischia di travolgere la Grecia, i luoghi comuni sulle divergenze che minacciano il futuro della moneta unica si sono sprecati. E tutti i protagonisti hanno fatto il possibile per scaricare sugli altri ogni responsabilità. «Ci hanno ricattati», ha accusato il primo ministro Alexis Tspiras, costretto a chiudere le banche per non farle fallire, al termine di un negoziato dove il comportamento dei rappresentanti di Atene è stato giudicato da chi sedeva al tavolo «spregiudicato e avventuristico», come ha raccontato “Il Sole 24 Ore” in una dettagliata ricostruzione dei fatti. «Mi sono sentito tradito», si è lamentato il presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, un ultra navigato politico lussemburghese, sulla scena da trent’anni, che nemmeno nella telefonata fatta in extremis, quella che ha reso possibile la concitata trattativa finale, ha saputo offrire alla Grecia una vera prospettiva di risanamento: «I leader europei hanno grandi responsabilità. Hanno avuto un atteggiamento duro, punitivo», dice l’economista Paul De Grauwe, che insegna alla London School of Economics, secondo il quale rompere il tabù dell’inviolabilità dell’euro sarebbe un boomerang «in termini di instabilità per tutta l’area».
Se c’è una divergenza che rischia di distruggere l’euro, tuttavia, non è quella sedimentata negli stereotipi più diffusi. In questi anni, tra i Paesi più forti dell’Eurozona, Germania in testa, e quelli più deboli, di cui la Grecia è solo il caso più drammatico, si è scavato un solco così profondo da rendere evidente anche a Bruxelles una verità difficile da accettare. Con tutti i suoi indubbi pregi, «l’unione monetaria nel suo assetto attuale non è sostenibile», ha scritto Guntram Wolff, direttore del Bruegel, il più influente think tank della capitale europea, elencando i fattori che potrebbero causarne quella che non esita a definire «la disintegrazione»: e cioè «la disoccupazione troppo alta, la crescita troppo debole, le tensioni politiche troppo ampie, le fragilità finanziarie troppo sostanziali».
In termini brutali, la questione che deriva da questa situazione è semplice: riusciranno Marine Le Pen o Matteo Salvini a completare l’opera di Tsipras? Ovvero: se è bastata la crisi di un Paese piccolo come la Grecia per mettere in discussione il futuro di una moneta adottata da 330 milioni di persone, diffusa a livello planetario e molto presente nelle riserve valutarie di tutte le banche centrali, cosa accadrebbe nell’eventualità che, in una delle sue economie più importanti, in Francia, in Italia, in Spagna, vada al governo un partito dichiaratamente anti euro?
Quanto la situazione sia esplosiva lo dice un fatto più di tutti. Subito dopo l’annuncio da parte di Tspiras del referendum di domenica 5 luglio sulle proposte dei creditori, se i mercati non hanno travolto irrimediabilmente l’Italia gran parte del merito va alla Banca centrale europea (Bce) e al suo presidente, Mario Draghi, che con il “Quantitative easing” (vedi scheda a pagina 19) ha arginato la speculazione sui titoli di Stato italiani e degli altri Paesi a rischio. Lo hanno riconosciuto in stretta sequenza sia il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, che il premier Matteo Renzi. Che cosa sarebbe successo, senza Draghi, allo spread? Sarebbe schizzato a livelli ancor più allarmanti di quelli raggiunti, mettendo a rischio la tenuta dei conti pubblici: più sale lo spread, più in prospettiva lo Stato deve pagare in interessi su Bot e Btp, meno margini di manovra ha per quadrare il bilancio. Lo si è visto subito: martedì 30 giugno, poche ore prima che Tsipras inviasse a Juncker la lettera che ha rianimato i mercati, il Tesoro non è riuscito a vendere in asta tutti i titoli di Stato che avrebbe voluto e , su quelli con scadenza decennale, ha dovuto offrire agli investitori il rendimento più alto dal 2014. Eppure, va ricordato che la Germania ha apertamente osteggiato la manovra di Draghi fino all’ultimo, sostenendo che dando un po’ di ossigeno alle casse statali avrebbe offerto ai governi più inetti la scusa per non fare le pulizie in casa. Ma che cosa accadrà nel 2016, quando il paracadute della Bce si chiuderà e, magari, uno dei partiti che oggi urlano nelle piazze e in televisione contro l’euro vincerà le elezioni e si troverà nella stanza dei bottoni? Che garanzie avranno gli investitori che la moneta europea possa resistere a una forza distruttiva che parte da Stati come Francia e Italia, seduti su un debito pubblico di gran lunga più vasto di quello di Atene?
L’unica certezza, di fronte a questi interrogativi, è che per l’euro la resa dei conti è solo rinviata. E la prima a saperlo è la cancelliera Angela Merkel, che però, a differenza dei pari grado di altri Paesi, si trova per eredità storica e meriti suoi in una posizione invidiabile: ogni volta che lo spread impazza, i conti pubblici tedeschi ne traggono beneficio. I capitali in cerca di un porto sicuro vanno sui titoli di Stato tedeschi, i Bund, e Berlino vede il costo del proprio debito pubblico scendere ulteriormente. Di più: da queste condizioni super-favorevoli traggono vantaggi anche le industrie del Paese, che possono finanziare il loro sviluppo a tassi irrisori. E ancora: l’impossibilità dei Paesi vicini, come l’Italia, di svalutare la propria moneta per spingere sull’export fa sì che il costo del lavoro tedesco resti competitivo, permettendo al Made in Germany di sbaragliare la concorrenza sui mercati. Un circolo virtuoso che, sull’altro fronte, quello dei Paesi deboli, si traduce in una spirale negativa senza via d’uscita. Ma c’è un dato importante: è proprio la presenza nell’euro di Paesi dall’economia fragile come l’Italia o la Spagna a fornire un assist alla Germania stessa: «Hanno un effetto calmieratore sul cambio dell’euro rispetto al dollaro. Se tornasse al marco, la Germania vedrebbe la sua moneta rivalutarsi immediatamente e la sua industria perderebbe competitività», osserva Marcello Minenna, autore del libro “La moneta incompiuta” (Ediesse Editore), secondo il quale questa considerazione rappresenta un’arma politica che finora non è stata fatta pesare nelle trattative con Berlino per ottenere, in cambio, un’azione più incisiva per ridurre gli sconquassi generati dallo spread.
La risposta delle istituzioni europee alle minacce scaturite da questi squilibri è il piano chiamato dei “cinque presidenti” perché compilato da Juncker assieme a quattro colleghi, il tedesco Martin Schulz (Parlamento europeo), Draghi, il polacco Donald Tusk (Consiglio europeo, l’organo che raccoglie i capi di governo dei Paesi dell’Ue) e l’olandese Jeroen Dijsselbloem (Eurogruppo, dove siedono i ministri delle Finanze dell’Eurozona). Il piano promette l’apertura di discussioni approfondite su molteplici livelli d’intervento e ha il pregio di identificare nel baratro aperto fra le diverse economie una questione da affrontare. Ma, dal punto di vista pratico, ha molti limiti, due dei quali fortissimi. Primo: per i primi due anni, fino al luglio 2017, prevede soltanto una fase di studio, battezzata nei documenti ufficiali in modo un po’ comico «approfondire facendo», priva di vere riforme. Secondo: non c’è nessuna proposta politica per rendere l’Eurozona in grado di affrontare una crisi come quella greca, spendendo risorse proprie per rimettere un Paese in difficoltà in grado di camminare con le proprie gambe.
È per mancanze come queste che Sergio Fabbrini, direttore della School of Government dell’Università Luiss, usa parole dure sul piano Juncker: «Purtroppo è l’ennesima occasione mancata per andare verso l’unione politica». Spiega il professore, che ha appena pubblicato con la Cambridge University Press il saggio “Which European Union?”: «Siamo abituati a pensare che nell’Unione europea ogni crisi porti a una soluzione che finisce per migliorare l’integrazione e la solidità dell’area. Purtroppo, però, i trattati attuali cristallizzano una situazione istituzionale che ci sta portando alla disintegrazione».
In estrema sintesi, l’analisi di Fabbrini è questa: l’Eurozona funziona necessariamente con il pieno accordo di tutti i 19 governi, e ciascuno di loro ha potere di veto sulle decisioni più importanti. È stata la Francia, in passato, a volere questa situazione, spaventata dal peso che la Germania riunificata avrebbe avuto se si fosse andati verso un sistema di voto a maggioranza. Ma ora la situazione è tutta a vantaggio di Berlino. Le regole di austerità sono disegnate su quelle della Germania, che dopo i disastri del nazismo aveva affidato a dei vincoli rigidi la gestione della propria politica economica, sottraendola al normale processo politico democratico. E, se non vanno bene per le necessità economiche di un Paese con urgenze diverse, nessuno riesce a cambiarle. «Il paradosso è che oggi, quando avrebbero avuto la necessità di trattare, Tsipras e il ministro Yanis Varoufakis, non avevano di fronte nessuno con la facoltà di farlo davvero. Perché c’era sempre qualche governo interessato a non concedere alla Grecia alcun beneficio. E loro non hanno capito che l’argomento dell’orgoglio nazionale non ha senso: chiedendo un taglio del loro debito, non danneggiavano il capitalismo internazionale, perché i loro creditori sono oggi in gran parte gli altri governi dell’Eurozona. Che, rinunciando ai prestiti concessi ad Atene, danneggiano i propri cittadini e contribuenti».
Se si continua così, però, le prospettive dell’euro appaiono disastrose. Dice Fabbrini: «È giusto che ogni governo sia responsabile dei propri debiti: chi sbaglia, fallisce, il debito non può essere scaricato su altri, perché trasferire i soldi delle tasse da uno all’altro per coprire i danni altrui crea soltanto divisioni e rancori fra i cittadini dei diversi Paesi. Ma l’Eurozona deve poter agire come una federazione: dev’essere dotata di risorse autonome, di un proprio bilancio, con cui - ad esempio - finanziare politiche sociali o contrastare la disoccupazione in un Paese in difficoltà».
Di tutto questo, però, nel piano dei cinque presidenti c’è molto poco. Paul De Grauwe osserva che persino l’ultimo piano di riforma, firmato nel 2012 dai cosiddetti quattro presidenti (all’epoca non venne coinvolto quello del Parlamento) e rimasto in larga parte inattuato, «era più ambizioso, visto che parlava della creazione di uno spazio di bilancio per l’Eurozona». Andrea Boitani, che insegna Economia monetaria all’Università Cattolica di Milano, fa un paragone con la bancarotta dichiarata nel 2011 dalla California, uno degli Stati americani più ricchi, dove hanno casa le più conosciute star di Hollywood e il quartier generale le multinazionali del terzo millennio, colossi del calibro di Apple, Google e Facebook: «In una vera federazione, quando uno degli Stati fallisce, i suoi cittadini non vengono gettati nella fame. Ci sono dei tagli, certamente, vengono fatti degli sforzi per rimettere i conti in carreggiata ma, allo stesso tempo, il bilancio federale interviene, ad esempio pagando lo stipendio ai dipendenti pubblici per un certo periodo di tempo, fino a quando la situazione si è normalizzata e lo Stato riprende normalmente la sua sovranità. In questo modo i salvataggi sono più rapidi e non si trasformano in una tragedia: nessuno ha mai pensato di far uscire la California dal dollaro perché era fallita. E nessuno ha dovuto chiedere all’Oregon se era d’accordo o meno nel concedere gli aiuti». La situazione degli Stati Uniti è certamente molto diversa da quella dell’Eurozona, avverte Boitani: «Il bilancio federale negli Stati Uniti vale quasi il 30 per cento del Pil, un livello nemmeno paragonabile con quello dei fondi europei (meno dell’1 per cento del Pil della zona). Ma se vuole evitare crisi dalle ripercussioni gravi come quella greca, l’Eurozona deve assumere una logica di lungo periodo: la Grecia spende troppo, ha troppi dipendenti pubblici, è vero. Ma ha anche problemi strutturali di fondo, simili a quelli del Sud Italia, tranne la mafia. E questi li può risolvere solo se imposta dei programmi di sviluppo che daranno effetti nel tempo, finanziati con prestiti a lunghissimo termine. Certamente il governo, in cambio degli aiuti, deve accettare un monitoraggio molto stretto su come intende usare questi fondi. Ma il punto fondamentale è un altro: non possono essere solo gli Stati più fragili dell’Eurozona a cedere parte della loro sovranità, altrimenti qualsiasi richiesta verrà percepita come un ricatto. Per andare verso un’unione federale, devono farlo tutti».
Luca Piana

PENSIONI, TASSE, IMPRESE: I NODI MAI SCIOLTI –
Tasse sulle imprese, sussidi ai pensionati, esenzioni dell’Iva per le isole, spese militari. Sono questi i punti di attrito principali fra la Grecia e i suoi creditori. Le discrepanze emergono confrontando due dei documenti pubblicati in questi giorni: la lista di proposte della Commissione europea e la controproposta firmata dal governo di Alexis Tsipras. Pagine che permettono di capire quali sono, in teoria, i motivi concreti che hanno causato prima lo stop alle trattative e l’annuncio del referendum, poi la riapertura in extremis dei negoziati.
Riforma dell’Iva
Dopo mesi di discussioni, le parti hanno trovato un accordo sull’innalzamento dell’Imposta sul valore aggiunto (Iva) per ristoranti e hotel, categorie importanti per una nazione che basa buona parte della propria economia sul turismo. Sono rimaste distanti le posizioni sul regime di Iva ridotta per le isole.
I creditori volevano una rimozione totale, il governo fino all’ultimo ne ha chiesto la conferma.
Spese militari
I creditori chiedono di ridurre di 400 milioni di euro il budget annuale per la difesa, storicamente uno dei più rilevanti dell’Unione europea.
Il governo greco, che oltre a Syriza comprende i nazionalisti di destra dell’Anel, vuole invece ridurre il taglio della metà, compensando le minori entrate con un aumento della tassazione sul settore navale.
Tasse sulle imprese
Le parti concordano su un aumento dell’aliquota dal 26 al 28 per cento a partire dall’anno prossimo, ma restano divisi su due punti. Il primo, accettato da Tsipras nella notte di martedì 30 giugno, prevede di riscuotere in anticipo il 100 per cento delle imposte societarie, incluse quelle dei professionisti. Il secondo riguarda una tassa aggiuntiva, del 12 per cento, sulle imprese che registrano utili superiori a mezzo milione di euro: è una delle richieste di Tsipras rifiutate dalla troika.
Sussidi ai pensionati
In assoluto il tema più caldo della trattativa, anche perché eventuali riforme incideranno sulla vita di milioni di greci senza possibilità di scappatoie. D’accordo sull’innalzamento dell’età pensionabile a 67 anni, le parti sono rimaste tuttavia divise sull’entrata in vigore della riforma: il 2025 per il governo di Atene, il 2022 per i creditori. Più o meno la stessa dinamica che ha bloccato le trattative sull’assegno integrativo per i più poveri. In Grecia chi ha più di 60 anni e percepisce un redditto netto (da lavoro o da pensione) inferiore ai 700 euro beneficia di un’integrazione, da un minimo di 57,50 a un massimo di 230 euro.
Il governo greco all’ultimo minuto ha accettato di eliminarli da fine 2019, conservandoli però per i beneficiari con i redditi più bassi.
S.V.

«CON LA DRACMA FAREMMO LA FAME» [Colloquio con Joachim Grispolakis] –
«La politica di Alexis Tsipras è la dracma». È lapidario il professor Joachim Grispolakis, 68 anni, rettore emerito dell’ università di Xania (La Canea), cervello greco con vasta esperienza internazionale (Stati Uniti, Canada), da tempo tornato nella sua terra. Si autocertifica: «Sono di sinistra». Poi precisa: «Socialdemocratico alla maniera della Spd tedesca». Snocciola una militanza che ha contemplato anche l’adesione al partito comunista (dal 1980 al 1989, fino alla caduta del Muro, insomma). «Per questo li conosco bene», chiosa. Conosce bene chi, professore? «I tre ministri che costituiscono l’ossatura ideologica del governo, quelli degli Esteri, del Lavoro e dello Sviluppo. Ex comunisti che si sono formati in Unione Sovietica, hanno perso la guerra civile e da allora cercano la rivincita. L’hanno trovata nell’avversione all’Europa». E Tsipras?
«Ho buoni amici che sono stati suoi professori alla facoltà di ingegneria dove è rimasto dieci anni, quando il corso dura la metà. Si è impegnato solo nelle occupazioni. Non vedevano l’ora si laureasse. L’inglese ha cominciato a studiarlo da pochi mesi. Tsipras è un opportunista che sta giocando con la pelle del Paese», dice Grispolakis.
Però è stato eletto, oggi gode di un consenso ancora maggiore, ha risvegliato un orgoglio nazionale fiaccato dalle troppe batoste ricevute da Bruxelles. E ha osato il rischiatutto per vedere se dall’altra parte del tavolo da poker c’è un bluff. Per Grispolakis è solo uno pseudo-leader che si caratterizza per quattro “i”: «irresponsabile, incompetente, immaturo e immorale». E poi: «Aveva promesso 12 miliardi per il rilancio e non se ne è visto nemmeno uno, anzi hanno dovuto chiedere sacrifici per altri 8. La Grecia in totale ha avuto 210 miliardi di aiuti e il minimo che possiamo dire è che non ne abbiamo fatto un buon uso».
Non sarà tutta colpa di Tsipras, il disastro lo ha ereditato.
«Certo ma io giudico il suo operato e anche la sua mancanza di intelligenza politica. Se l’Europa ha bisogno della Grecia, la Grecia ha cento volte di più bisogno dell’Europa. Siamo il 2 per cento della popolazione del Continente. Gli altri ci hanno aiutato. Sarebbe carino almeno rispettare i patti. Ci avevano chiesto di abbassare la spesa pensionistica di un punto l’anno. Non l’abbiamo fatto. Anzi ci sono 180 mila persone tra i 50 e i 55 anni (l’età media in cui ci si ritira dal lavoro qui) che chiedono la pensione, costo ulteriore 350 milioni di euro, e noi non variamo la legge che la permette solo a 67 anni». Non è tutto: «Al netto delle aziende dei settori strategici sulle quali non discuto, c’è ne sono altre migliaia che andrebbero privatizzate e non abbiamo mosso un passo, quando invece abbiamo un disperato bisogno di fare cassa. Abbiamo ancora una pletora di dipendenti pubblici, 850 mila, e invece di tagliare questo governo vorrebbe assumere».
Sarebbe stato complicato per un governo di sinistra eletto su un preciso programma chiedere di tirare la cinghia ancora di più. Si sarebbe potuta verificare quella famosa equazione per la quale «l’operazione è riuscita ma il paziente è morto». il professor Grispolakis riflette prima di rispondere: «Abbiamo davanti a noi due strade. L’austerità e il disastro. Preferisco la prima, l’unica che può dare un futuro al Paese e ai nostri giovani».
Il disastro sarebbe la dracma, naturalmente. «Se tornassimo alla nostra vecchia moneta non potremmo più garantire nemmeno quel minimo di welfare che sopravvive. La scuola, la sicurezza pubblica. Niente».
Eppure si fa largo l’idea, soprattutto sulle isole (un milione e mezzo di persone sugli 11 totali), tra i disoccupati che non hanno nulla da perdere (due milioni) e tra i più svantaggiati che in fondo togliere la camicia di forza dell’euro non sarebbe un dramma. Turismo, agricoltura, pastorizia darebbero comunque da mangiare. Il professore ridacchia ironico: «Bene, un bel ritorno all’Ottocento. Ma la gente delle isole non usa forse i telefonini? E non si sposta in auto? No, senza un po’ di industrie soprattutto tecnologiche, non ce la possiamo fare».
Nel corso della chiacchierata Grispolakis non ha speso nemmeno una parola di biasimo verso Bruxelles, la Merkel, i partner europei che pure di errori ne hanno fatti: «Ovvio che hanno le loro colpe. Ma la prima è la nostra. Siamo noi i responsabili se non vogliamo accettare di vivere con quello che produciamo e senza che paghino gli altri per noi. A Larissa, tanto per fare un esempio, terra contadina, fino a prima della crisi c’era la più alta percentuale di Suv al mondo.
Tutti comprati coi sussidi europei all’agricoltura».
Gigi Riva

MA CEDERE AI RICATTI È SEMPRE UN ERRORE –
DOMENICA I GRECI sceglieranno, salvo sorprese dell’ultimo momento. Ma sceglieranno tra cosa? A sentire il premier Tsipras potranno dire no alle umilianti condizioni imposte dalla troika o sì alla perenne austerità. A sentire l’opposizione potranno dire sì all’Europa o no all’euro. Entrambe le affermazioni sono vere, ma omettono convenientemente parte della verità, ovvero cosa succederà veramente dopo la vittoria di un fronte o dell’altro. Tsipras omette di dire che se vince il No, a meno di un cambiamento radicale dell’atteggiamento dell’Europa nei confronti della Grecia, difficilmente la Grecia potrebbe stare nell’euro, il risultato preferito dalla maggioranza dei greci. L’opposizione omette di dire che questo piano di austerità allontana il rischio di bancarotta, ma non lo elimina. Se non cambiano le cose, dopo questo piano ce ne sarà probabilmente un altro, e un altro ancora, perché il debito greco non è sostenibile, a meno di un cambiamento radicale dell’atteggiamento dell’Europa nei confronti della Grecia.
È chiaro che un greco che voglia uscire dall’euro voterà No ed uno a cui la politica imposta dall’Europa va bene voterà Sì. Ma questi rappresentano la minoranza. La maggioranza dei greci vuole concessioni dall’Europa, ma vuole anche stare nell’euro: come deve votare? Quello che rende questo referendum inusuale è proprio questo. Nelle scelte tra monarchia e repubblica, tra aborto o no, le conseguenze della propria scelta sono chiare, perché predeterminate. In questo referendum no. Viene chiesto ai cittadini di votare su una strategia negoziale e la differenza principale tra il fronte del Sì e quello del No è nelle ipotesi che vengono assunte su come reagirà l’Europa. La convinzione di Syriza è che l’Europa abbia più paura di perdere la Grecia di quanto la Grecia abbia di perdere l’Europa. Se così fosse, una vittoria del No costringerebbe l’Europa a cedere nelle trattative pur di evitare un’uscita della Grecia. Al contrario la convinzione dell’opposizione è che si ottiene di più dall’Europa con le buone che con le cattive. In questo caso una vittoria del Sì, con la probabile caduta di Tsipras, porterebbe alla formazione di un nuovo governo, più in sintonia con l’Europa. Sapendo che la sopravvivenza del nuovo governo dipende dalle concessioni che riesce ad ottenere dalla troika, quest’ultima sarebbe pressoché costretta a generosi compromessi.
SE ANALIZZIAMO gli incentivi delle parti coinvolte - però - le due ipotesi non sono ugualmente probabili. Se i leader europei guardano ai loro incentivi elettorali di breve periodo, non c’è dubbio che per i leader europei, e in particolare per Merkel e Schäuble, è più costoso cedere di fronte al “ricatto” della Grecia che essere considerati corresponsabili dell’uscita della Grecia dall’eurozona. Nel primo caso rischierebbero di perdere una fetta consistente del proprio elettorato a favore della AfD anti-euro, nel secondo no (anzi forse potrebbero addirittura guadagnare voti).
SE INVECE I LEADER EUROPEI guardano ad una prospettiva di più lungo periodo, il risultato non cambia. In una prospettiva di lungo periodo, la negoziazione tra Europa e Grecia deve essere analizzata anche per le conseguenze che questa avrà sulle negoziazioni future con altri Paesi. Cedere di fronte ad un ricatto non fa che aumentare gli incentivi a ricattare. Per questo - miopi o no - a questo punto i leader europei non possono cedere al ricatto di una Grecia che vota No ma vuole concessioni.
Questo significa che la vittoria del Sì è scontata? Assolutamente no. La mia analisi assume che tutti gli elettori siano perfettamente informati ed agiscano in modo razionale. Con solo cinque giorni di campagna elettorale, in un clima teso, con le banche chiuse, entrambe le ipotesi sono irrealistiche. Alla fine vincerà chi riuscirà a scaricare la responsabilità dell’attuale situazione sull’avversario: per Syriza le banche sono chiuse per colpa dell’Europa, per il fronte del Sì per colpa di Syriza. Io sono un fervente sostenitore di un’Europa più democratica, dove a decidere sia il popolo e non i burocrati a Bruxelles o Francoforte, ma questa è vera democrazia?
Luigi Zingales

Fonte: Ivo Caizzi, Corriere della Sera 3/07/2015

Testo Frammento
SESSANTA MILIARDI IN TRE ANNI, TANTO SERVE PER LA SOSTENIBILITÀ DEL DEBITO GRECO SECONDO L’FMI. E MENTRE VAROUFAKIS ANNUNCIA LE SUE DIMISSIONI IN CASO DI VITTORIA DEL SÌ, GLI USA TEMONO UN AVVICINAMENTO DI TSIPRAS A RUSSIA E CINA IN CAMBIO DI AIUTI. CIRCOLA L’IPOTESI CHE LA GRECIA POSSA DIVENTARE IL SESTO DEI PAESI BRICS –
Diventa frontale l’attacco dei leader dell’Ue al governo greco di estrema sinistra in vista del referendum indetto dal premier Alexis Tsipras, domenica prossima, per rafforzare il peso negoziale di Atene sulle misure di austerità pretese dai creditori in cambio dei prestiti di salvataggio. Il presidente olandese dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem si è aggiunto alla cancelliera tedesca di centrodestra Angela Merkel e ai vertici di Commissione europea e Consiglio dei 28 governi nel sostenere il «si».
Il ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis ha annunciato le dimissioni se perderà il «no». Tsipras ha detto più genericamente che non metterà la «poltrona» davanti agli «interessi della Nazione».
Il Fondo monetario di Washington, simulando lo scenario «peggiore possibile», ha fatto sapere di ritenere necessari per la sostenibilità del debito greco una riduzione di circa 50 miliardi, l’allungamento delle scadenze e prestiti a tassi agevolati per 60 miliardi in tre anni (inclusi i 10 miliardi ora bloccati e con 36 miliardi a carico dell’eurozona,).
Per il premier Matteo Renzi «la Grecia non uscirà dall’euro, farà di tutto per fare un accordo» e, se anche uscisse dalla moneta unica, «l’Italia non avrebbe problemi economici particolari, certo sarebbe una sconfitta politica per tutti».
Dijsselbloem ha considerato un errore il referendum, che ha provocato la frattura tra Atene e i rappresentanti dei creditori (Commissione europea, Bce e Fmi). «Il governo greco ha rigettato tutto con la convinzione che, se voteranno no, otterranno un pacchetto meno duro, più amichevole – ha dichiarato il presidente dell’Eurogruppo —. Questa convinzione è semplicemente sbagliata». La vittoria del «no» metterebbe la Grecia e l’Europa in una posizione «molto difficile» e sarebbe «estremamente difficile» per Atene rimanere nell’euro, nonostante l’adesione alla moneta unica sia irreversibile. Per Dijsselbloem la vittoria del «si» renderebbe «promettente» la ripresa dei negoziati per nuovi prestiti.
Varoufakis si è detto «certo» di un accordo con i creditori dopo il referendum. In caso di vittoria dei «sì» non accetterebbe un compromesso senza ristrutturazione del debito. Tsipras si è dichiarato «aperto» a fare «concessioni» per arrivare a un accordo «48 ore dopo il referendum», ma con una «soluzione percorribile» nel taglio del debito. Ha promesso che le chiusure delle banche «non dureranno a lungo».
Dubbi stanno emergendo sulla regolarità del referendum. Il Consiglio d’Europa di Strasburgo ha segnalato il preavviso troppo breve e il quesito poco chiaro. Cittadini greci sono ricorsi al Consiglio di Stato, che dovrebbe esprimersi oggi.
Il segretario generale della Nato, il norvegese Jens Stoltenberg, ha espresso preoccupazioni geopolitiche. «La Grecia è un alleato della Nato impegnato e fedele – ha detto —. Mi auguro sia possibile trovare una soluzione perché sarebbe un bene per la Grecia, per l’Europa e per la Nato». Gli Stati Uniti, temono un avvicinamento di Tsipras a Russia e Cina in cambio di aiuti. Circola l’ipotesi che la Grecia possa diventare il sesto dei Brics (Russia, Cina, India, Brasile e Sud Africa) già nel vertice in programma la prossima settimana. Il governo ellenico avrebbe accesso ai prestiti della banca di sviluppo di questi Stati emergenti.



Fonte: Isabella Bufacchi, Il Sole 24 Ore 3/7/2015

Testo Frammento
GRECIA, IL DEBITORE PRIVILEGIATO –
Esiste la categoria dei creditori privilegiati, sono quelli che godono di maggiori diritti, hanno un trattamento preferenziale. Ma esistono anche i debitori privilegiati. A guardare l’entità e alle condizioni degli aiuti finanziari esterni accordati alla Grecia, proprio dai creditori istituzionali, i cosiddetti “official”, si scopre che esiste anche la categoria dei debitori privilegiati. Rispetto soprattutto a Irlanda e Portogallo, gli altri due Paesi dell’Eurozona assistiti dall’Efsf e dall’Fmi, la Grecia ha tutti i numeri per essere considerata un “preferred debtor”.
I prestiti erogati alla Grecia dai partner europei, il Fondo monetario e il Fondo europeo salva-Stati Efsf ammontano a 240 miliardi, pari al 134% del Pil greco. Ma questa percentuale è ancora più eclatante quando a questi aiuti si aggiunge il supporto ricevuto dalla Banca centrale europea (non certamente un aiuto diretto allo Stato) con i 19,8 miliardi di titoli di Stato greci acquistati tramite il Securities markets programme e con i 34 miliardi di liquidità standard trasferita al sistema bancario greco. Il sostegno totale sale così a circa 300 miliardi. A questa somma andrebbe aggiunta la linea di credito di emergenza Ela concessa dalla Banca centrale greca alle banche greche per 90 miliardi circa, perchè si tratta comunque di un’operazione di assistenza straordinaria nell’ambito dell’Eurosistema delle banche centrali nazionali. Il tutto arriva a una cifra da capogiro pari a 380 miliardi, equivalente a oltre il 200% del Pil greco (211%).
Non è solo l’entità dei prestiti alla Grecia a fare la differenza ma anche le condizioni. I prestiti bilaterali degli Stati e dell’Efsf ristrutturati a fine 2012 hanno comportato queste condizioni: un allungamento delle scadenze di 15 anni; un periodo di grazia sugli interessi di 10 anni e un abbassamento dei tassi di interesse di 100 punti base.
L’Efsfs ha anche ristrutturato gli aiuti a Portogallo e Irlanda in due occasioni: a metà del 2011 e poi nel marzo 2013. Per i due Stati, la vita media dei prestiti è passata dagli iniziali 7,5 anni a 15 anni per poi chiudere a 22 anni (sono entrambi ora 20,8 anni). In quanto alle condizioni, l’Irlanda ha visto il suo margine sopra il costo della raccolta dell’Efsf calare dagli iniziali 247 punti base allo 0% mentre quello del Portogallo è sceso da 208 punti base allo 0 per cento.
Irlanda e Portogallo sono stati ai patti: hanno rispettato sempre gli impegni presi con il Protocollo d’Intesa (il famigerato Memorandum of Understanding) e hanno preso in prestito l’intero importo messo a dispozione dall’Efsf (17,7 miliardi l’Irlanda, 26 miliardi il Portogallo). I loro programmi sono stati chiusi rispettivamente nel dicembre 2013 e nel maggio 2014. Hanno ottenuto un trattamento privilegiato in un’occasione, quanto hanno potuto rimborsare anticipatamente i prestiti dell’Fmi (perchè più onerosi) senza che questo facesse scattare le clausole di accelerazione sui prestiti Efsf. Sono stati virtuosi e premiati.
La Grecia ha ottenuto nel 2012 un periodo di grazia sugli interessi di 10 anni e attualmente la vita media del suo prestito con l’Efsf è di 30 anni, molto più lunga di quella di Irlanda e Portogallo. Un finanziamento alla Grecia è stato accordato dal Fondo europeo con una scadenza record al 2054.
Il secondo piano di salvataggio alla Grecia è stato prorogato dal febbraio 2015 al 30 giugno: gli aiuti tramite Efsf si fermano a 130 miliardi (bloccata l’erogazione dell’ultima tranche da 1,8 miliardi per il mancato rispetto del Protocollo e fermi anche 10,9 miliardi per la ricapitalizzazione delle banche). Il terzo bailout resta in sospeso. L’Italia e più in generale tutti i creditori “official” e privati aspettano l’esito del referendum. L’esposizione dell’Italia verso la Grecia è pari a 35,9 miliardi in termini di aiuti già contabilizzati nel debito pubblico (la somma del prestito bilaterale da 10,2 miliardi e dei 25,7 miliardi pro-quota degli Efsf bond per il piano greco). L’esposizione sale attorno ai 60 miliardi se si tiene anche conto dell’esposizione della Banca d’Italia come azionista della Bce e dell’Italia nella Bei.




Fonte: Alessandro Merli, Il Sole 24 Ore 2/7/2015

Testo Frammento
LA LEZIONE DELLA GERMANIA SUI CONTI: BILANCIO PUBBLICO IN PERFETTO PAREGGIO FINO AL 2019 –
Per una singolare coincidenza, il giorno in cui il governo tedesco ha mostrato un fronte compatto alle ultime convulsioni da Atene ha finito per essere lo stesso in cui a Berlino veniva annunciato un bilancio pubblico in perfetto pareggio, e che tale resterà fino al 2019. Due modi per mandare alla Grecia, e all’Europa, lo stesso messaggio. La sovrapposizione di date non è passata inosservata. Anzi, le incombenze del ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble di presentare i conti pubblici tedeschi hanno fatto slittare ieri dal mattino al pomeriggio la riunione dell’Eurogruppo.
Ma le carte in tavole Berlino le aveva già messe in mattinata. Con l’intervento al Bundestag del cancelliere Angela Merkel, che ha ribadito la posizione dei giorni scorsi: la porta aperta nei confronti della Grecia, ma non prima del referendum indetto dal premier Alexis Tsipras per domenica, la posizione che alla fine ha prevalso anche all’Eurogruppo e sulla quale solo la Francia aveva mostrato di voler dissentire; la necessità di un compromesso, «ma non a ogni costo»; la riaffermazione che l’Europa è un’unione di «diritto» e «responsabilità».
«Il buon europeo è quello che rispetta i Trattati e non danneggia l’Europa», ha detto il cancelliere. Se possibile, intervenendo dopo di lei, il suo vice e leader dell’alleato socialdemocratico, Sigmar Gabriel, è stato ancora più ortodosso, con un forte richiamo alle regole, che qualcuno vorrebbe merkeliano, ma che in realtà è la quintessenza della posizione tedesca. Semmai, l’osservazione meno formale è venuta da Schäeuble, che ama usare l’arma del sarcasmo, e che ha notato come «non si sa se il Governo greco vuole il referendum o no, e da cha parte sta». Un dilemma che lo stesso Tsipras ha chiarito più tardi, ribadendo che il voto ci sarà e che lui farà campagna per il “no”, ma che non smuove la linea di Berlino, anche dopo la nuova lettera del premier greco ai creditori: anzi tutto, l’insensata pretesa di Atene di ripartire da venerdì scorso, quando la Grecia ha interrotto il negoziato, come se niente fosse; ma soprattutto, e più fondamentalmente, l’ormai totale sfiducia tedesca nei confronti di questo interlocutore, con l’aspettativa che il voto del referendum porti con sé anche un cambio di Governo ad Atene. Un’aspirazione non dichiarata, ma esattamente ciò che, nel dibattito parlamentare, il leader della sinistra della Linke, Gregor Gysi, ha accusato la signora Merkel di volere.
L’annuncio del bilancio federale e del piano fiscale a medio termine è così servito anche a riaffermare la visione tedesca della crisi dell’Eurozona come una contrapposizione fra il vizio e la virtù, l’interpretazione favorita a Berlino, che passa più dalla filosofia morale che dall’economia. Un modo anche per rafforzare l’affermazione del cancelliere che «l’Europa non è a rischio», ma più che altro quella del suo ministro delle Finanze che «i conti sono blindati contro i rischi».
Per Schäeuble il bilancio in pareggio, ottenuto l’anno scorso con un anno di anticipo, per la prima volta dal 1969, è ormai diventato il totem – o, secondo i suoi critici, un feticcio – su cui innalzare la propria eredità politica. I conti presentano quindi una serie di zeri da qui al 2019, un saldo netto ottenuto grazie all’aumento delle entrate fiscali (a sua volta generato da crescita e occupazione migliori che nella bozza di bilancio di marzo), che consente di alzare la spesa senza intaccare l’obiettivo del cosiddetto “schwarze null”, lo zero nero. Il debito scenderà sotto il 70% del prodotto interno lordo nel 2016. Il documento conferma che si sarà un aumento degli investimenti di 10 miliardi di euro l’anno fra il 2016 e il 2018, per infrastrutture, digitale, energia, cambiamenti climatici. Si tratta di una cifra nettamente inferiore a quella che il Fondo monetario, la Commissione europea e la grande maggioranza degli esperti indipendenti ritengono necessaria e che potrebbe essere finanziata senza difficoltà in questi tempi di tassi d’interesse a zero. Un’altra modestissima concessione, 5 miliardi l’anno, andrà in sgravi fiscali alle famiglie. Altri importi più piccoli andranno a finanziare gli investimenti degli enti locali.
Ma in questo momento per il Governo tedesco è più importante dare una lezione di virtù ai partner europei.
Alessandro Merli, Il Sole 24 Ore 2/7/2015



Fonte: Eugenio Occorsio, la Repubblica 2/7/2015

Testo Frammento
CINQUECENTO MILIARDI E CINQUE SALVATAGGI IN SOLI SEI ANNI: QUESTO IL COSTO COMPLESSIVO DELLA CRISI GRECA. AI 330 MILIARDI CHE ATENE DEVE AI CREDITORI INTERNAZIONALI BISOGNA AGGIUNGERE I PRESTITI NEL FRATTEMPO CONDONATI O RIDOTTI (E MAI RESTITUITI). E DIRE CHE NEL 2009 NE SAREBBERO BASTATI 100 PER EVITARE IL DISASTRO –
Il “pre-default” dell’altra notte verso il Fmi, innescato dal mancato saldo della rata da 1,6 miliardi dovuta dalla Grecia all’istituzione di Washington a fine giugno, rischia di non restare senza conseguenze. Ieri, a margine della riunione dell’Eurogruppo, il Fondo salvastati (l’Efsf trasformato in European stability fund), che ha 142 miliardi di crediti verso Atene a fronte dei 21 dell’Fmi, ha reso noto che si riserva di valutare se considerare la Grecia insolvente anche verso di esso, e quindi attivare tutte le procedure del caso, dall’esazione forzata all’accorciamento delle scadenze. È solo l’ultima tegola che piomba sulle spalle del Paese in questa lunghissima crisi debitoria cominciata il 23 aprile 2010 quando i Paesi europei accordarono alla Grecia i primi 110 miliardi di prestiti bilaterali (poco meno di 10 l’Italia). Poche settimane prima il premier socialista George Papandreou aveva dato a denti stretti l’annuncio: i conti dei governi precedenti erano truccati e anziché il 5 il deficit era del 12% del Pil (alla fine per il 2009 sarà del 15,6). Le agenzie di rating avevano abbassato senza esitazione la quotazione dei buoni del Tesoro fino al livello dei junk-bond e il 3 marzo 2010 Papandreou si era presentato contrito e pallido in Parlamento dando l’annuncio: «Il Paese è a rischio di bancarotta». A meno che, aggiunge, divenga operativo un pacchetto draconiano di misure di risanamento: tagli nella paga dei dipendenti pubblici con la riduzione del 30% dei bonus di Natale e Pasqua (un antico retaggio), aumento dell’Iva del 2% fino al 21 per la maggior parte dei beni, tasse più alte su alcol, tabacco, auto potenti, yacht, congelamento delle pensioni. Era il primo di una serie infinita di piani di austerity (sette compreso quello discusso ieri dall’Eurogruppo) e la premessa all’appello alla solidarietà internazionale accolto dall’Europa con l’appoggio della Bce e dell’Fmi. Oggi la Grecia deve ai creditori internazionali poco meno di 330 miliardi di euro, ma considerando i prestiti nel frattempo condonati o “ristrutturati”, cioè ridotti ( e i pochissimi restituiti), si sfiora l’asticella dei 500 miliardi. È questo il costo complessivo della crisi greca. Finora. Nessuno aveva allora in mente quello che economisti autorevoli, da Stiglitz a Krugman, ripetevano: bastava prendersi in carico l’indebitamento iniziale, poco più di 100 miliardi spalmati sull’intera comunità internazionale, e la partita si sarebbe chiusa lì. Invece il 2 maggio 2010 i ministri dell’Eurozona accordano alla Grecia altri 120 miliardi di prestiti. I round di finanziamenti saranno quattro in tutto, con una serie di versamenti scaglionati nel tempo. È rimasto in sospeso solo l’ultimo da 7 miliardi. Il 7 maggio 2010 un summit straordinario crea un fondo di salvataggio europeo strutturato, l’Efsf, Fondo europeo di stabilità finanziaria, sede in Lussemburgo e dotazione anticrisi di 750 miliardi di euro. Si parla di eurobond ma i tedeschi fanno muro. Basta un anno per constatare che i soldi non bastano. Il 24 giugno 2011 altro summit e altro salvataggio. Il dosaggio viene aumentato e si raggiunge l’accordo per 120 miliardi freschi per Atene, in massima parte a carico dell’Efsf, che intanto ha aperto linee di credito minori a favore di Irlanda e Portogallo. Saranno chiuse nel 2012 con la restituzione per intero di un’ottantina di miliardi. Per Atene invece siamo in pieno panico: il 21 luglio 2011, mentre si respira la paura per la tenuta dell’euro, si decide un nuovo piano di salvataggio per la Grecia da 109 miliardi. Le paure di crollo dell’euro penalizzano le economie più esposte come quella italiana: lo spread Btp-Bund raggiunge il record di 575 e porta alla caduta del governo Berlusconi il 9 novembre. Ma torniamo in Grecia. I debiti continuano ad accumularsi, e a complicare la situazione i fondi d’emergenza finiscono per due terzi a pagamento dei debiti con le banche tedesche e francesi, che hanno ingenti finanziamenti bloccati in Grecia, anziché all’economia reale del Paese. Ma in quel momento pochi sembrano notarlo e la centrifuga greca continua a drenare denaro da ogni parte. Il 27 ottobre 2011 parte il primo haircut sulle spalle dei governi (Bce e Fmi conservano il diritto di rimborso pieno): viene tagliato del 50%, in parte cancellato e in parte convertito in titoli a lunghissima scadenza (fino a 45 anni), un pacchetto di 150 miliardi di debiti. Un altro haircut seguirà a breve: senza queste misure il debito sarebbe al 240% del Pil e invece è “solo” al 175. Il 30 marzo 2012 a Copenaghen l’Eurogruppo vara l’Esm, European Stability Mechanism, dotando la nuova cortina protettiva di 800 miliardi. La Grecia sottoscrive il secondo memorandum d’impegni e parte il quinto round di finanziamenti da 100 miliardi complessivi, erogati per il 93%, che è scaduto l’altra notte. All’inizio le cose si mettono bene: il 10 aprile 2014 la Grecia festeggia il ritorno sui mercati internazionali collocando 3 miliardi di titoli al 4,7%. Il decennale scende dal 44 al 5,7%. Ma è un’illusione. La macchina s’inceppa ancora una volta e all’inizio di quest’anno con l’arrivo di Syriza tutto si blocca.
Eugenio Occorsio, la Repubblica 2/7/2015


Fonte: Charles Forelle, MilanoFinanza 2/7/2015

Testo Frammento
OTTO PASSI DI ATENE VERSO LA GREXIT –
Le prossime tre settimane sono cruciali per lo sviluppo della crisi greca, dopo la messa in mora da parte del Fmi martedì 30 giugno. Il 20 luglio sarà la fase finale: il giorno in cui la Grecia dovrà ripagare i titoli di Stato detenuti dalla Banca Centrale Europea. Escludendo un qualsiasi accordo dell’ultimo minuto, ecco passo per passo come si chiuderà la partita.
1Con la scadenza del programma di salvataggio che l’ha sostenuta per cinque anni e il rifiuto dei creditori dei disperati tentativi di Atene di guadagnare tempo, martedì la Grecia è diventato il primo Paese della storia a non rimborsare il Fmi.
Il Fondo ha informato che il governo greco non è riuscito a trasferire 1,6 miliardi di euro per chiudere l’operazione martedì, il singolo mancato pagamento più grande nella storia del Fmi.
2 Il Fmi non ne sarà felice, ma questo insoluto avrà scarse conseguenze pratiche. Il Fondo Salva Stati ha la possibilità di dichiarare in default i prestiti d’emergenza alla Grecia e richiedere un rimborso accelerato, ma sarebbe una soluzione drastica che probabilmente non eserciterà, almeno non subito.
3 Qui le cose si complicano. La mancata restituzione dei prestiti al Fmi cambia la visione della Bce sulla liquidità di emergenza per le banche greche, il principale punto debole della Grecia. Le banche greche hanno fatto affidamento per mesi sui prestiti di emergenza di Francoforte. Hanno poca liquidità e pochi asset cedibili rapidamente, quindi quando un correntista fa un prelievo, devono farsi prestare i fondi dalla banca centrale per consegnare i contanti. Quest’anno, fino a maggio - il dato più recente - i greci hanno prelevato 35 miliardi di euro e le banche estere hanno ritirato altri 30 miliardi di euro di prestiti, ma le greche dispongono di liquidità per meno di 2 miliardi. Domenica, la Bce ha congelato la liquidità di emergenza a circa 89 miliardi di euro. Incapaci di ottenere ulteriori fondi da restituire ai correntisti, lunedì le banche sono rimaste chiuse e perché riaprano dovrà essere ristabilita la liquidità di emergenza. Difficile immaginare che la Bce la conceda senza un accorda tra il governo greco e le istituzioni creditori.
4 Al momento, la Bce sta adottando una via intermedia. Dal momento che le banche hanno bisogno di più denaro ogni giorno per far fronte ai prelievi, congelare la liquidità d’emergenza fa fermare le banche, ma non le porta alla bancarotta. Di fatto, la Bce fa capire che non darà nuovi prestiti, ma continua a rinnovare quelli in essere. La cosa più difficile sarà porre fine alla liquidità di emergenza e richiedere il rimborso dei prestiti a scadenza.
5 Due eventi potrebbero porre fine alla liquidità d’emergenza: l’insolvenza delle banche o il valutare inadeguata una garanzia. Consideriamo i due punti uno alla volta. Per i documenti contabili, le banche greche sono solventi. Gli asset, soprattutto i prestiti, eccedono le passività, soprattutto depositi e prestiti Bce. Ovviamente, la situazione potrebbe cambiare, forse molti prestiti hanno bisogno di essere estinti o svalutati. Forse i crediti per imposte differite (sostanzialmente, le promesse di rimborsi fiscali da parte del governo greco) valgono meno di quanto stimato. Le banche non possiedono grandi quote di debito pubblico greco: 13,8 miliardi di euro su quasi 400 miliardi di euro. Anche se il debito fosse azzerato, le banche resterebbero solvibili.
Le garanzie sono un’altra cosa. L’Ela è assicurato da una serie di collaterali: prestiti delle banche, covered bond, una piccola parte di debito pubblico. Per le quattro grandi banche, tuttavia, una categoria speciale di bond garantiti dallo Stato costituisce buona parte delle garanzie. Ciò significa che ai fini dell’Ela la Bce deve valutare se la garanzia data dal governo è adeguata. È una scelta obbligata. Alcuni nel Consiglio Bce potrebbero ritenere che la fine del programma di assistenza del Fmi comprometta la garanzia del governo e l’adeguatezza degli speciali bond, ma la Bce potrebbe congelare la liquidità di emergenza almeno fino al referendum.
6 Questa sospensione può durare fino al 20 luglio. Quel giorno scadranno 3,5 miliardi di euro in titoli di Stato greci detenuti dalla Bce. Se la Grecia non paga, la Bce difficilmente manterrà in vita gli Ela. Un effettivo mancato pagamento rende la decisione sofferta sulla garanzia del governo molto più chiara.
7 A quel punto l’Ela viene meno e le banche non possono ripagare i prestiti. Quindi la garanzia che hanno indicato sarà escussa: hanno dato a garanzia più di un euro per ogni euro concesso in prestito, e quindi collasseranno.
8 Probabilmente il 21 luglio, se i prestiti concessi ai sensi dell’Ela sono overnight (la scadenza esatta è ignota), le banche collasseranno. A quel punto, senza il sostegno della Bce, il governo dovrà creare una nuova moneta per riavviare il sistema finanziario e provvedere i pagamenti. È la Grexit.
Tutto ciò si può ancora evitare? Sì, ma i tempi sono estremamente stretti. Il referendum è il 5 luglio. Se vince il Sì, Tsipras darà le dimissioni. Dovrà essere formato un nuovo governo, firmato un accordo, dovranno essere approvate leggi e sborsato del denaro in tempo per i pagamenti del 20 luglio.
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Charles Forelle, MilanoFinanza 2/7/2015