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 2015  giugno 30 Martedì calendario

LASCIATE LE RUGHE AL CAVALIER DELLA MANICA


In Italia il problema della lingua in cui sono scritti i classici della letteratura, di quanto sia ancora comprensibile e godibile per il grande pubblico, si è posto più che altro per le traduzioni. Se ne discusse a lungo, per esempio, a proposito del Giovane Holden, che era un bel rebus sin dal titolo: The catcher in the rye. Data la scarsa familiarità del pubblico italiano con il linguaggio del baseball e con il whisky-rye, spiegava una nota dell’editore Einaudi scritta da Italo Calvino nel vano tentativo di prevenire l’inevitabile polemica, l’alternativa sarebbe stata intitolarlo Il terzino nella grappa. Ma a ben vedere il titolo era forse il problema minore. La nuova traduzione uscita l’anno scorso è figlia anche di questo annoso dibattito sull’attualità di quella prima versione elaborata da Adriana Motti - era il 1961 - dove il gergo degli adolescenti americani degli anni cinquanta veniva reso con espressioni riprese da quello dei loro coetanei italiani dell’epoca. E questa è la ragione per cui, alle orecchie dei suoi giovani lettori degli anni novanta e duemila, le tirate di Holden Caulfield contro cose come il racconto della sua «infanzia schifa» e simili «baggianate» alla David Copperfield facevano pensare più a un monologo di Sbirulino che ai tormenti di un adolescente scapestrato. Non parliamo nemmeno della traduzione di Pride and Prejudice pubblicata per la prima volta da Mondadori negli anni trenta col titolo Orgoglio e prevenzione, dove la protagonista, Elizabeth Bennet, apostrofata spesso con il diminutivo Lizzie, si trasformava drammaticamente in «Bettina».
La scelta di rimettere mano a una traduzione può insomma apparire giustificata da mille ragioni, anche di semplice comprensibilità. E se avete mai provato a leggere Platone nelle traduzioni ottocentesche di Francesco Acri, con i suoi densi periodi ricchi di espressioni quali «avvegnaché», per «sebbene», o «egli è poco», al posto di «poco fa», capite il perché (e se no, ve lo diciamo noi: si fa meno fatica a leggerlo direttamente in greco antico). Ma se la traduzione deve pur sempre rispecchiare in qualche modo l’originale, si pone un problema: perché è evidente che l’originale non cambia con il passare del tempo, che ai lettori di lingua inglese Holden Caulfield continuerà a parlare per sempre con il linguaggio degli anni cinquanta, così come lo ha fatto parlare Salinger, e modernizzare il suo vocabolario rischia di rivelarsi un’operazione arbitraria e anacronistica, come sarebbe il farlo parlare di telefonini e Playstation.
Ma a pensarci meglio, siamo proprio sicuri che l’originale non cambi e non debba cambiare mai? In Spagna, ad esempio, molti sembrano convinti del contrario. Tanto da avere appena portato in libreria nientemeno che una traduzione dell’opera fondamentale della loro stessa letteratura: il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes. «Trasposto in castigliano attuale integralmente e fedelmente – recita il sottotitolo – da Andrés Trapiello». In pratica, è come se in Italia uscisse una traduzione della Divina commedia. Attenzione: non una riduzione per ragazzi o un bignami per studenti, ma una puntuale e rigorosa traduzione nella lingua di oggi, affidata a uno scrittore di fama, profondo conoscitore dell’originale.
Sebbene in Spagna una simile scelta non sia una novità e abbia anzi autorevoli precedenti, il fatto che questa volta si tratti proprio del Don Chisciotte non poteva non aprire un dibattito sull’opportunità, la legittimità e l’utilità di una simile operazione. Trapiello rivendica di avere reso accessibile un capolavoro della letteratura a un pubblico che altrimenti non lo avrebbe mai avvicinato.
A suo sostegno, Mario Vargas Liosa ricorda nella prefazione la polemica suscitata nella Parigi degli anni sessanta da André Malraux, ministro della Cultura, con la decisione di far pulire le facciate degli edifici più famosi della città, da Notre Dame al Louvre. Come dovettero arrendersi allora i sostenitori della tesi secondo cui togliere dai monumenti i segni del tempo significava sfigurarli, sostiene lo scrittore peruviano, dovranno arrendersi i puristi di oggi.
Ma se la brillante prosa secentesca di Cervantes appare troppo faticosa per gli spagnoli di oggi, che dovrebbero dire gli studenti italiani costretti a confrontarsi con la densissima poesia trecentesca di Dante, che già i suoi contemporanei non avrebbero saputo decodificare senza una guida? Quanto al fatto che a scoraggiare i lettori spagnoli di oggi sia anche l’imponente apparato di note, è davvero una curiosa ironia della storia, nel caso di un autore che sin dal prologo del suo capolavoro spiegava di essere stato sul punto di rinunciare a darlo mai alle stampe proprio per mancanza di note. E così raccontava di essersi sfogato con un amico: «... Perché, come volete voi che non mi preoccupi cosa dirà quell’antico legislatore che chiaman volgo, quando veda che, dopo tanti anni quanti sono che dormo nel silenzio dell’oblio, me ne salto fuori adesso, con tutti i miei anni sul groppone, con una storiella secca come lo sparto, scarsa d’invenzione, arida di stile, povera di concetti e priva di ogni erudizione e dottrina, senza citazioni a margine e senza note in fondo al libro, come ne vedo pieni i libri degli altri, seppure siano fantasiosi e profani, talmente carichi di sentenze di Aristotele, di Platone e di tutta la caterva di filosofi, che lasciano ammirati i lettori e fanno ritenere i loro autori uomini istruiti, eruditi ed eloquenti?».
A complicare le cose c’è poi il fatto che l’intero Don Chisciotte gioca sul suo essere l’adattamento di un manoscritto, tradotto da uno scartafaccio, opera di uno storico arabo. E che la seconda parte fu scritta in fretta e furia proprio per rispondere alla concorrenza sleale di una versione apocrifa. Seconda parte in cui i protagonisti si confrontano con la loro stessa fama, incontrano altri personaggi che hanno letto la prima parte e li trattano come le star di una telenovela, in un gioco di specchi che noi italiani saremmo tentati di definire pirandelliano, non fosse che è stato scritto oltre tre secoli prima di Pirandello. A conferma della tesi di Harold Bloom, secondo il quale un classico è quel libro che è sempre più avanti dei suoi lettori, e di ogni lettura posteriore (così, ad esempio, un’interpretazione freudiana aggiunge ben poco alla lettura di Amleto, mentre un’attenta lettura di Amleto aggiunge sempre qualcosa alla nostra comprensione della psicanalisi). Ma se così è, il tentativo di modernizzare un classico non è destinato sin dall’inizio a rivelarsi un inseguimento impossibile, in cui l’inseguitore non riuscirà mai nemmeno a intravedere la sua presunta vittima?
Può darsi che metterla in questo modo sia farla troppo complicata, dimenticando l’aspetto pratico della questione. Trapiello ricorda con orgoglio l’ottantenne che ringraziandolo gli ha detto: «Finalmente potrò leggere il Chisciotte». Il punto, però, è tutto lì: siamo sicuri che si tratti proprio del Chisciotte?
«Ogni libro stabilisce con i suoi lettori un rapporto di apprendimento: ogni libro ci insegna a leggerlo», sostiene lo scrittore argentino Alberto Manguel. Pensare di poterne «semplificare» il testo, osserva, significa credere che lo stile, il vocabolario, il tono, non siano parte essenziale dell’opera bensì una sorta di «decorazione superflua». Ma se fosse così, conclude, «Inferno di Dan Brown avrebbe lo stesso valore letterario dell’Inferno di Dante».
Posizione forse troppo radicale. A noi però resta il sospetto che se domani Cervantes dovesse resuscitare, scriverebbe una terza parte in cui Don Chisciotte, resuscitato anch’egli, non mancherebbe di dare una sonora lezione a quel cavalier Trapiello che aveva osato spacciarsi per il suo autentico cantore. Del resto, la storia delle imitazioni, commenti e variazioni sul tema ispirate dal Don Chisciotte è praticamente infinita, dalle Meditaciones del Quijote del filosofo José Ortega y Gasset alla Vida di Don Quijote y Sancho di Miguel de Unamuno.
Non per niente, come dice l’ispanista Francisco Rico, lo studioso cui si deve l’edizione di riferimento del Don Chisciotte, «un classico esiste più per il contesto che per il testo», è tale perché «è presente nella società», e di solito ci arriva attraverso adattamenti, che dunque sono «tutti buoni», per definizione. «Conosciamo l’Iliade grazie ad adattamenti e, soprattutto, grazie all’Eneide», dice Rico.
Anche questa, in apparenza, è una posizione radicale. O forse è solo la posizione di chi, dichiarando buoni per principio tutti gli adattamenti, non vuole in verità dichiararne buono nessuno (senza però far la figura del pedante che difende il suo territorio). La questione è certo controversa e non ammette risposte facili. Ma una nuova traduzione di Anna Karenina affidata a qualche giovane scrittore alla moda, corredata di immagini hard e magari di una fascetta che ce la presenti come “la prima milf della letteratura europea”, forse non meriterebbe di prendere il posto della prosa sorvegliata di Leone Ginzburg. E forse non avrebbe nemmeno lo stesso valore culturale dell’Eneide.