Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  giugno 26 Venerdì calendario

SONO FOLLE DUNQUE SCRIVO

Lo studio dove lavora Antonio Moresco, il più visionario degli scrittori italiani e uno dei pochi se non l’unico protagonista della nostra Repubblica delle Lettere che sistematicamente evade dalle anguste regole del realismo, inteso come amputazione di fantasia, assomiglia alla cella di un monaco. O forse di un recluso. Siamo a Milano, in un edificio zona Porta Romana, in due stanzette in un sottotetto dal soffitto basso («sono in affitto e temo che mi vogliano sfrattare») in cui trascorre le sue giornate l’autore della impegnativa trilogia composta da “Gli esordi”, “I canti del caos” nonché dell’ultimo “Gli increati” (Mondadori), un’opera che ha per ambizione ridefinire le leggi che governano l’universo. Oltre a quei tre romanzi, dove accanto ai vivi, morti e immortali incontriamo anche gli “increati”, oltre tremila pagine di prosa trascinante, scioccante, comprese le descrizioni di incontri amorosi, vendite all’asta del globo terrestre e narrazioni di campi di sterminio, intense come raramente riesce ai letterati, oltre a tutto questo Moresco è autore di struggenti fiabe. Insomma, uno scrittore grande, apprezzato dai critici, amato all’estero, ma che non frequenta i talk show né pontifica dalle prime pagine dei giornali.
Seduto dunque su una rigida sedia, accanto a un piccolo tavolino, Moresco racconta la sua vita e spiega quanto per lui la scrittura, anzi la letteratura significhi “la salvezza”. Alla lettera. Senza scrivere, dice, finirebbe probabilmente i suoi giorni in un manicomio. Nato nel 1947 a Mantova, «mia madre veniva da una famiglia poverissima di contadini e da ragazza è andata a fare la servetta in una villa di signori; io in quella villa sono cresciuto e per questo nei miei libri spesso racconto luoghi simili; mio padre invece, da giovanissimo, a 17 anni si arruolò, andò a combattere per il Duce, in Libia, fatto prigioniero dagli inglesi, dopo sei anni in India tornò in Italia, distrutto e alcolizzato»; nato dunque a Mantova, e dopo un breve periodo in un seminario, Moresco, appena 18enne si dà alla politica. Il passaggio è fondamentale perché da quell’errore («l’illusione che si potesse cambiare la vita solo con mutamenti storico-politici») nasce la sua passione per la letteratura. Dopo insomma una militanza in Servire il popolo («mi hanno arruolato mentre vivevo solo al tredicesimo piano di un palazzo di periferia vicino a Cinisello Balsamo»), poi nelle file dell’Autonomia operaia («comprese esperienze carcerarie»), all’età di trent’anni «mi sono trovato a Milano, senza laurea, senza istruzione, senza lavoro», dice. Confessa: «Nell’imbuto più nero della vita ho cominciato a scrivere: non era una delle possibilità, era l’unico modo per potere continuare a stare al mondo». Come in certe biografie di certi scrittori per una quindicina di anni Moresco non trova un editore. Ma, come detto, non si scoraggia, l’alternativa alla scrittura è solo follia.
Raccontare, per sommi capi, la sua biografia non significa violare la privacy di Moresco, perché pezzi della sua vita sono finiti nei romanzi, trasfigurati in omaggio alla visionarietà radicale dei suoi scritti (che, a loro volta, non ha senso riassumere, vanno letti e goduti proprio perché ipotizzano un cosmo diverso rispeto a quello che conosciamo). Ma, dopo aver appunto confermato come la vita si confonda con la produzione letteraria, riflette: «Per favore, non usiamo il termine in voga, come l’autofiction, perché implica che il romanzo sia una finzione». E invece: «Invenzione non equivale alla finzione. Invenzione non significa menzogna. L’invenzione è la verità nella letteratura». Cita Melville, Dickens e Conrad, Balzac e London per dire che «anche nella stagione più proficua del romanzo come pura invenzione, gli elementi biografici erano parte della scrittura».
Insomma, letteratura come missione. E la vita di Moresco che ricorda una vocazione religiosa. E del resto, ha appena detto che per tre anni ha studiato in un seminario. Nei suoi libri tratta poi Gesù Cristo come un suo intimo. A questo punto la domanda è inevitabile: che rapporto ha con la fede?
La risposta è netta: «Non sono credente». Ma poi, articolando, il discorso si fa più sfumato: «Ci sono elementi della fede cristiana con cui sono venuto in contatto nei miei anni da seminarista e che continuo a frequentare, come i Salmi, il Genesi, il libro di Giobbe». Chiarisce: «Sono storie, come anche quella di Gesù, che mi affascinano molto». Alla domanda se lo affascina di più il Gesù che ama la verità o il Gesù che predica amore, risponde: «Nei miei libri così come nella vita, verità e amore non sempre vanno insieme. E per quanto mi riguarda, mi interessano ambedue le cose. Non mi interessa una verità intesa come puro esercizio filosofico, mi interessano invece le esperienze verticali di Gesù». Esperienze verticali? «Sì», risponde, «il sentirsi Dio». Aggiunge: «Sono verticali anche le avventure di Don Chisciotte o le esperienze di Van Gogh, simili a quelle di Gesù».
Insomma nella letteratura e nell’arte è indispensabile una dimensione trascendentale, altrimenti non c’è motivo né per scrivere (o dipingere) né per continuare a vivere. Corollario di ogni trascendenza, è però la ribellione. Moresco torna al libro di Giobbe, uno dei più difficili e più frequentati dai più colti esegeti della Bibbia: «Mi affascina la storia di una persona che viene annientata, umiliata, ma non si pente, né accetta le spiegazioni razionalizzanti della sua sventura. Giobbe è un sovversivo, lo sento un mio fratello, un ribelle. Non si piega né si arrende. Finisce, anzi, che Dio si arrende a Giobbe».
La sfida è alta. Certo, Moresco è un rivoltoso, attento all’ecologia del quotidiano, insofferente al consumismo (organizza ogni anno camminate a piedi di centinaia e centinaia di chilometri, un modo per uscire fuori dagli itinerari consueti della vita). Ma sembra che lo scrittore voglia sfidare pure un per quanto ipotetico Dio e sicuramente le regole secondo le quali abbiamo conosciuto la natura. Nella sua trilogia la morte viene prima della vita, la morte tracima nella vita e alla fine si arriva all’increato. Lui lo spiega così: «Noi pensiamo che ci sia una specie di freccia temporale, unica e orizzontale, dal passato verso il futuro, dalla vita alla morte. Ma conosciamo solo il cinque per cento della materia. Il restante 95 per cento lo ignoriamo. Ho voluto capovolgere questo schema. L’ho fatto perché mi ribello all’idea che gli scrittori abbiano accettato di stare dentro quel cinque per cento. Credo invece che la letteratura, come la scienza debba esplorare l’ignoto». Si infervora, e torna ai sacri testi. «La Bibbia racconta la divisione della luce dalla tenebra. A me interessa invece il momento prima, quando la luce e la tenebra erano una cosa sola». Continua: «Una stella è la compresenza di due forze opposte: quella centripeta e quella centrifuga. Se ci fosse solo la forza centripeta la vita della stella durerebbe al massimo un paio di settimane, e non quattro miliardi di anni. Se ci fosse solo la forza centrifuga la stella si spegnerebbe. Noi umani funzioniamo come una stella: siamo fatti da due movimenti opposti, che agiscono insieme, per essere una cosa sola. È questa la vita che mi interessa, che esploro, che racconto. E forse per questo, dico cose giudicate indicibili».
La letteratura è quindi anche uno strumento di emancipazione: «E a volte uno spazio in cui possono vivere linguaggi sovversivi, perché il potere pensa che la letteratura non conti niente, e quindi lascia questa zona poco sorvegliata (non così, certo nei paesi dittatoriali come l’ex Urss)». Riflette sul destino e sulla vita degli scrittori e racconta di aver fatto l’operaio, il facchino, il portiere di notte, di essersi fatto aiutare dalla moglie per poter mangiare, ma che oggi riesce finalmente a vedere un po’ di soldi dalla vendita dei suoi libri. Finisce con l’elogio del silenzio e del buio per essere in grado di esaltare la parola e la luce: «Più c’è buio e più posso vedere la luce. Per vedere la luce bisogna penetrare senza paura il buio. Lo stesso vale per il silenzio e la parola. Talvolta per settimane mi ritiro in un monastero in Francia. Non parlo con nessuno. E grazie al silenzio capisco la forza della parola».
Inutile aggiungere che lo scrittore che più ama è Franz Kafka, da lui giudicato più realista di tutti i realisti.