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 2015  giugno 26 Venerdì calendario

PER FARE PIÙ BAMBINI CI VUOLE UN BEL FISCO

PER FARE PIÙ BAMBINI CI VUOLE UN BEL FISCO –
La fotografia più nitida DEL DECLINO italiano è contenuta in un dato elaborato nei giorni scorsi dai ricercatori dell’Istat. Dice che nel 2014 la popolazione è diminuita di 95 mila e 768 unità, a causa di una mortalità sostanzialmente stazionaria e di un forte calo delle nascite (meno 2,3 per cento rispetto all’anno precedente). Per trovare un saldo negativo più elevato si deve tornare indietro di quasi un secolo. Per la precisione, al 1917-1918, cioè all’ultimo biennio della Grande Guerra.
I figli costano. E quando la crisi morde come in questi anni diventano un lusso che molti non si possono permettere. Anche perché se l’economia non marcia, il dazio più salato lo pagano le fasce più deboli della popolazione, come appunto i giovani. Che faticano a trovare lavoro (la disoccupazione giovanile italiana, pari al 43,1 per cento a marzo 2015, secondo Eurostat è la quarta più alta d’Europa). E quando ci riescono devono quasi sempre accontentarsi di un’occupazione precaria o comunque con una retribuzione ridotta all’osso. Sul sito “Lavoce.info” l’economista Filippo Teoldi ha calcolato che chi ha compiuto trenta anni nel 1977 aveva un reddito superiore del 3 per cento rispetto a quello medio nazionale; chi li ha festeggiati nel 2010 si è trovato 12 punti sotto la media. Una tendenza che si è accentuata in questi ultimi anni. Secondo un’elaborazione di Datagiovani su statistiche del ministero dell’Economia, tra il 2008 e il 2012 il numero dei contribuenti si è ridotto del 17,8 per cento nella fascia di età fino ai 24 anni e del 9,3 in quella tra i 25 e i 44 anni. Nello stesso arco di tempo i redditi medi reali dei primi sono scesi del 12,9 per cento e quelli dei secondi dell’8,6 per cento.

Chi può alza le tende
Secondo l’Istat tra il 2008 e il 2013 c’è stato un deflusso netto (il saldo tra gli italiani usciti dal Paese e quelli rientrati) di 150 mila unità: solo nel 2012 sono stati 14 mila i laureati che hanno spostato la loro residenza all’estero. E il motivo è semplice: se si mettono insieme i dati di Istat, Eurostat, Bocconi e Ocse si ricava che a un anno dalla laurea in Italia si guadagnano in media 1.024 euro al mese e all’estero 1.378. Un divario che si accentua con il passare del tempo: a cinque anni dalla conquista del titolo di dottore, il reddito è pari a 1.586 euro per chi è rimasto a casa e a 2.324 per chi ha fatto le valige. Coloro che non se la sentono di emigrare sempre più spesso trovano rifugio sotto l’ombrello familiare. Quello dei cosiddetti “bamboccioni” (secondo la discussa definizione dell’allora ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa) è ormai diventato un esercito. Un’indagine condotta da Eurostat dice che l’80 per cento degli italiani tra i 20 e i 29 anni vive con i genitori. Una percentuale che scende al 50,8 per cento nella media Ue a 28, al 19,5 nel Regno Unito, al 17,9 in Francia e al 17 in Germania. Ma il fenomeno interessa anche fasce di età più avanzata, se è vero che la quota di giovani tra i 25 e i 34 anni che dorme sotto lo stesso tetto di mamma e papà è salita dal 30 per cento degli anni Novanta all’attuale 40 per cento.
Per il “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo le coppie partono dall’idea di fare due figli. Poi le difficoltà economiche li inducono a più miti consigli (oggi la media nazionale è a 1,4). Risultato: i dati dell’United States Census Bureau, basati sull’incidenza della popolazione under 30 rispetto a quella complessiva, dicono che l’Italia è il Paese più vecchio d’Europa e che nel mondo è secondo solo al Giappone.
Il declino non è un destino ineluttabile, ha scritto Alessandro Rosina, docente di Demografia alla Cattolica di Milano. A dare ragione al professore è uno studio dell’Institut national études démografiques, che certifica come la Francia sia l’unico Paese al mondo ad avere un tasso di fecondità costante da oltre quattro decenni. Crisi o non crisi, a partire dal 1973 le donne francesi mettono al mondo, in media, due figli. E la spiegazione è semplice. Il governo di Parigi investe nel sostegno alla maternità il 5 per cento del prodotto nazionale lordo. È stato calcolato che un nucleo familiare del ceto medio con un neonato e un figlio all’asilo nido può incassare in un anno qualcosa come 7.000 euro di contributi e sovvenzioni. L’Italia è invece il fanalino di coda in Europa nella spesa per la protezione sociale: 1,4 per cento del Pil, contro una media Ue del 2,3.
Ci sono, sulla carta, molti sistemi per aiutare i giovani che vogliono mettere su famiglia o avviare un’attività. Alcuni di questi sono alla portata e il loro costo potrebbe essere facilmente finanziato con i risultati di un’efficace lotta all’evasione fiscale (vedere l’articolo nella pagina a fianco). Con l’aiuto di Gilberto Turati e Simone Pellegrino, docenti di Scienza delle finanze all’Università di Torino (ed entrambi collaboratori de Lavoce.info), “l’Espresso” ha provato a verificare come, attraverso l’utilizzo della leva fiscale, si potrebbe anche in Italia intervenire a favore dei giovani. Con un’avvertenza: chi è fuori dal mondo del lavoro o ha una remunerazione molto bassa, non può trarre giovamento da questo tipo di interventi, non avendo un reddito e quindi un’imposta da abbattere o potendolo fare solo in piccola parte. Per ogni proposta sono stati stimati la platea dei beneficiari, l’incremento del loro reddito spendibile e il costo per l’Erario.
LE FORBICI SULL’AFFITTO
L’ipotesi prende in considerazione un contribuente single, di età compresa tra i 20 e i 30 anni, con un reddito pari a 10 mila euro senza oneri deducibili e detraibili e che paghi un affitto per l’immobile di residenza a partire dal 2014. Attualmente, con una detrazione-affitto di 992 euro, oltre a non pagare l’Irpef, riceve un sussidio pari a 482 euro. Se l’agevolazione venisse portata da 992 a 2.000 euro, il contribuente vedrebbe salire il suo beneficio a quota 1.490 euro. Il costo dell’operazione per l’Erario dipende da quanto l’aumento della detrazione stimolerebbe i giovani a prendere case in affitto. Se si ipotizza che la platea dei beneficiari aumenti del 40 per cento circa, passando dagli attuali 86 mila a 120 mila unità, l’onere a carico del fisco salirebbe da 85 a 240 milioni.
FIGLI AGEVOLATI
Fino all’anno di imposta 2012, se i figli erano al massimo tre la detrazione potenziale era pari a 900 euro per i minori di tre anni e a 800 per quelli di età superiore. Lo stesso meccanismo, con una maggiorazione delle detrazioni di 200 euro, veniva applicato alle famiglie con almeno quattro pargoli. Le detrazioni effettive sono decrescenti all’aumentare del reddito (si azzerano quando questo raggiunge i 95 mila euro con un solo figlio e tale limite si incrementa di 15 mila euro per ogni ulteriore creatura a carico).
A partire dal 2013 tutte le cifre sono state riviste al rialzo. La detrazione da 800 è passata a 950 euro, quella da 900 a 1.220, quella da 1.000 a 1.150 e quella da 1.100 a 1.420. Sono poi previste maggiorazioni per i disabili e una detrazione da 1.200 euro per i nuclei con almeno quattro minori. Se le cifre attualmente in vigore venissero tutte raddoppiate, un contribuente con un reddito di 20 mila euro vedrebbe passare la sua detrazione da 750 a 1.500 euro; uno con un reddito da 40 mila avrebbe un sussidio che sale da 550 a 1.100. Attualmente la platea dei beneficiari comprende 12,8 milioni di contribuenti e il costo per il fisco è di circa 11,5 miliardi. Con il raddoppio delle detrazioni, aumenterebbe di circa il 50 per cento.

NON SOLO ASILI
Oggi è prevista una detrazione di circa 600 euro per gli asili nido. Lo Stato non interviene invece in alcun modo sulle spese per le scuole materne, che possono essere ingenti in assenza di un servizio pubblico o quando quest’ultimo non riesce a soddisfare per intero la domanda. Attualmente le famiglie con bambini di 4 o 5 anni sono 1,15 milioni e il reddito medio dei loro genitori è di 22 mila euro. Immaginando una detrazione massima di 400 euro, che come nel caso dei figli a carico si azzeri quando il reddito raggiunge i 95 mila euro, si dovrebbe stimare per il fisco un costo di 300 milioni. Che invece, secondo le simulazioni, risulta inferiore di un terzo. La spiegazione è semplice: una quota rilevante delle famiglie che potrebbero teoricamente beneficiare della detrazione è incapiente: non ha, cioè, un reddito da abbattere per pagare meno imposte o non ne ha abbastanza per avvalersi per intero dell’agevolazione. Per rendere la misura incisiva si dovrebbe dunque prevedere un’imposta negativa (il meccanismo che consente a chi va in credito di essere parzialmente rimborsato).

CARA BABY-SITTER
Sul fronte della presenza femminile nel mondo del lavoro l’Italia è molto indietro. Nell’Unione europea oggi lavorano in media quasi 59 donne su cento. Da noi siamo (dato 2013) al 46,8 per cento, che sale al 78,7 per le giovani laureate (contro una media Ue dell’87,9). Il 20,3 per cento delle donne è costretto a optare per il part-time (contro il 2,3 degli uomini) e l’8,7 di quelle che lavorano molla tutto quando arriva un figlio. Un’agevolazione fiscale alle famiglie costrette a fare ricorso a qualcuno che, in assenza dei genitori, si occupi dei figli piccoli (il 9,2 per cento delle madri italiane con un attività ricorre alla baby-sitter; Istat) potrebbe contribuire a farci scalare qualche posizione nella classifica della parità tra generi, che oggi ci vede settantaquattresimi su 134 Paesi (World economic forum). Una detrazione massima di 500 euro per la baby-sitter, concessa una sola volta al nucleo familiare indipendentemente dal numero dei bambini, con azzeramento quando il reddito raggiunge i soliti 95 mila euro, costerebbe, secondo i calcoli, un po’ meno di un miliardo di euro.
VIA IL MINIMALE
Il minimale contributivo pensionistico (la cifra minima da versare alla cassa professionale) per i lavoratori autonomi è uno dei maggiori disincentivi che si trova ad affrontare chi decide di mettersi in proprio, aprendo uno studio, un negozio o una bottega artigiana. Per una questione di equità, andrebbe semplicemente abolito: una parte del costo della sua cancellazione verrebbe recuperata dalle attività che nascerebbero in sua assenza (in alternativa, si potrebbe commisurarlo al reddito effettivo).
Prendiamo il caso di un architetto single che dichiara ai fini Irpef un reddito di 4.500 euro. La sua imposta netta, data l’esiguità della cifra, è pari a zero. Ma deve fare i conti con un minimale contributivo pari a 2.280 euro, che finisce per rappresentare un’aliquota superiore al 50 per cento. Lo stesso vale per altre figure professionali. Un imbianchino con un reddito fino a 15.548 euro si ritrova con un minimale contributivo di 3.529 euro e 6 centesimi. Un commerciante che guadagna la stessa cifra deve mettere nel conto un esborso di 3.543 euro e 5 centesimi. Un buon motivo per desistere dall’impresa.