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 2015  giugno 26 Venerdì calendario

RAI, VA IN ONDA LA FAIDA

Il TRono della Rai non ha mai avuto tanti pretendenti. Tutti l’un contro l’altro armati, guerrieri solitari o esponenti di fazioni, i cavalieri che si sfidano nel torneo per guadagnarsi i favori di Matteo Renzi sono più di una dozzina. A volte supportati da bande interne che non vogliono mollare posizioni e prebende, altre volte da eserciti stranieri desiderosi di conquistare Viale Mazzini: è un fatto che, se passasse la riforma voluta dal premier in tempi brevi, il nuovo amministratore delegato avrebbe un potere mai visto prima e potrebbe rivoltare la Rai come un calzino.
La battaglia è difficile, ma la ricompensa ghiotta. Così nella maggioranza (cioè nel Pd) in tanti stanno spingendo i loro campioni. Se Luca Lotti e altri membri del giglio magico martellano Renzi da mesi narrandogli le gesta di Vincenzino Novari di “3”, il gruppo dei “gentiloniani” e altri ex della Margherita gli ricordano «le grandi capacita e l’esperienza» dell’ex membro del cda Nino Rizzo Nervo, mentre il sottosegretario Antonello Giacomelli, tra i principali autori del disegno di legge depositato in Senato, appoggia nell’ombra la scalata di Marinella Soldi. Ex McKinsey diventata da poco gran capo di Discovery, la damigella può dire la sua: le quote rosa, per Matteo, hanno da sempre un profumo irresistibile.
Se la riforma non passasse entro l’estate, però, bookmakers e strateghi dovrebbero rifare tutti i calcoli. Daccapo. Il nuovo cda non sarebbe infatti eletto con le nuove regole, ma con la vecchia legge Gasparri. Nessun ad, ma il solito, fragile direttore generale, senza alcuna supremazia sul consiglio e in balia della politica. È quello che sperano Forza Italia, la Lega di Matteo Salvini e pure i Cinque Stelle, che con la Gasparri avrebbero più peso nella scelta finale del management. È quello che sognano, senza dirlo ad alta voce, i papaveri della Rai. Con ogni probabilità sarebbe infatti uno di loro a prendere il posto di Luigi Gubitosi. Al settimo piano, intenti a organizzare lobby per salire sul piedistallo (per un interregno che potrebbe essere più lungo del previsto, in Italia non si sa mai...) sono in tanti. Ma solo tre dirigenti hanno davvero qualche probabilità di vittoria: il sempiterno Giancarlo Leone, numero uno della prima rete, Eleonora “Tinny” Andreatta e Valerio Fiorespino, l’unico senza nobili natali (Giancarlo è figlio dell’ex presidente della Repubblica Giovanni, Eleonora dell’economista Beniamino) ma influente capo del personale e “rappresentante” di un plotone di potenti burocrati preoccupati che la riforma li metta all’angolo.
Renzi farà di tutto per evitare l’impasse, ma è difficile riesca a forzare la mano al parlamento. Descrivendo le linee guida della riforma che verrà, il premier è però stato chiaro. Vuole per la Rai, innanzitutto, un modello che separi nettamente la gestione dal controllo. La tv di Stato è controllata al 99,56 per cento dal ministero dell’Economia, ma di fatto verrebbe amministrata come una spa, con amministratore delegato con pieni poteri (anche di spesa) e regole del codice civile: «La prima industria culturale italiana non può sottostare a procedure cavillose chilometriche o avere l’incubo della Corte dei conti», ha spiegato il governo, che vorrebbe pure «una rete generalista, una per l’innovazione e un’altra (Rai Tre?) dedicata alla cultura», preferibilmente senza pubblicità. Di certo, non sarà più la Commissione di Vigilanza lottizzata dai partiti a nominare il cda: il ddl prevede che quattro membri vengano eletti da Camera e Senato, due dall’azionista (il governo, sarà il Mef a proporli) e uno dall’assemblea dei dipendenti della Rai.
Di fatto, come hanno segnalato costituzionalisti come Roberto Zaccaria e Fulvio Lanchester, anche con la riforma targata Matteo il pallino resterà saldamente nelle mani della politica. Sarà il governo, e quindi Renzi, a scegliere il successore di Luigi Gubitosi. Il direttore generale e tutto il cda sono in prorogatio da un mese, ma l’ex capo di Wind ha avvertito Renzi già lo scorso gennaio (in un primo incontro a quattro organizzato dal suo portavoce Filippo Sensi e da Alessandro Picardi, capo delle relazioni istituzionali della Rai) che a settembre andrà via. Non solo perché, come borbotta qualcuno, non è bene che manager scaduti gestiscano troppo a lungo 2,3 miliardi di euro (tra canone e pubblicità), ma anche perché Gubitosi ha offerte da aziende importanti e vuole sciogliere la riserva al più presto.
Con ogni probabilità, però, sarà ancora il governo il suo datore di lavoro prossimo venturo. Dopo il risanamento di Viale Mazzini (con indebitamento ridotto a meno della metà e utili in crescita a 57,9 milioni) Matteo gli avrebbe proposto infatti di fare l’ad delle Ferrovie. Le scelte manageriali di Michele Elia, l’attuale numero uno nominato appena un anno fa, finora non hanno convinto l’esecutivo: sia il premier sia il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan hanno in agenda una privatizzazione in tempi rapidi che comporta, conditio sine qua non, una cura da cavallo dei conti aziendali. La specialità di casa Gubitosi.
Alla Rai, al contrario, dopo i professori della finanza il governo vorrebbe ora un esperto capace di rivoluzionare palinsesto e programmi. Ecco perché in pole position resta saldo Andrea Scrosati, 42enne vicepresidente di Sky e uomo dei contenuti di Rupert Murdoch: dietro il rilancio di “X Factor” e serie tv come “Gomorra”, dietro il boom di “Cielo” e la scommessa Sky Arte c’è lui, considerato dagli addetti ai lavori la persona giusta per svecchiare i programmi della Rai in modo da competere sul mercato internazionale con i grandi broadcaster inglesi e americani. I due finora non si sono mai incontrati, ma sono mesi che gli estimatori del manager romano lavorano per l’happy end. I critici non mancano: se da un lato alcuni evidenziano che di conti e finanza il vicepresidente Sky sa poco o nulla (e Palazzo Chigi potrebbe infatti affiancargli un direttore finanziario, mentre in ticket con lui potrebbe diventare presidente la numero due di Confindustria Antonella Mansi), i burocrati nati e cresciuti in azienda vedono Scrosati come il fumo negli occhi: il manager, un tempo braccio destro di Leoluca Orlando e fondatore dell’agenzia di comunicazione Media Network, non è tipo che sul lavoro ami le mediazioni. Chi oggi si occupa di contenuti e palinsesti rischia di doversi trovare altri hobby.
Tra gli esterni anche Antonio Campo Dall’Orto ha qualche carta da giocarsi. Stimatissimo da Renzi (i due si conoscono bene, alla Leopolda Campo Dall’Orto è di casa), è un amministratore che fonde la passione per i contenuti editoriali con l’esperienza finanziaria. Non sempre gli è andata bene: ha “inventato” Mtv Italia e gestito il lancio de “La7” chiamando nomi importanti come Gad Lerner, Daria Bignardi e Piero Chiambretti, ma è stato fatto fuori dopo un solo anno da Franco Bernabè, che gli ha preferito Giovanni Stella detto “er canaro”, specializzato nel contenimento dei costi. Un master con Publitalia, ottimi rapporti con Giorgio Gori di Magnolia, Antonio sogna da mesi di tornare in sella in un posto di rilievo. A sorpresa Renzi un anno fa lo nominò membro del cda di Poste, ma è un incarico vissuto, più che come un riconoscimento, come un parcheggio. Ora, liberandosi il trono della Rai, Campo Dall’Orto pensa in cuor suo che ci si dovrebbe sedere di diritto. Come tutti gli altri cavalieri, invece, dovrà combattere.
Sia Scrosati sia Campo Dall’Orto, ovviamente, sono abituati a cachet notevoli. Assai superiore ai 240 mila euro l’anno lordi, cifra massima imposta ai manager pubblici da una legge del 2014. L’ostacolo, però, sembra superato: a fine maggio la Rai ha infatti emesso il suo primo bond, circa 350 milioni di obbligazioni andate a ruba. In questo modo anche Viale Mazzini è entrata di diritto nella short-list delle società pubbliche che possono aggirare il tetto degli stipendi. Già: una leggina di due anni fa stabilisce che il tetto agli stipendi dei manager pubblici non possa applicarsi né alle società quotate in Borsa né a quelle che «emettono titoli negoziati su mercati regolamentati». Il prossimo amministratore delegato o direttore generale, fosse reclutato esternamente, potrebbe prendere stipendi a sei zeri come quelli dei colleghi di Poste e Cassa Depositi e Prestiti. Anche molti dirigenti Rai (sono 42 quelli che si sono visti abbassare lo stipendio) hanno festeggiato l’emissione del bond, sperando di vedere reintegrati i tagli imposti dalla legge del maggio 2014. Difficilmente, però, vinceranno i ricorsi piovuti a pioggia sui giudici amministrativi: Viale Mazzini ha infatti spiegato che non ci saranno automatismi né misure retroattive.
Vincenzo Novari, ad del colosso telefonico “3”, è un altro pretendente che costerebbe caro. Di una sua candidatura si parla da mesi, e i suoi fan contano molto. Luca Lotti l’ha invitato alla Leopolda, Marco Carrai stravede per lui, mentre Lucio Presta l’ha portato da Renzi in persona: per incontrarlo a tu per tu i due l’hanno persino atteso in strada, fuori da un ristorante romano in cui Renzi stava finendo di cenare. Se il capo del Pd è inizialmente rimasto colpito dallo charme e dalle entrature cinesi di Novari - plenipotenziario italiano del miliardario Li Ka-Shin, una fidanzata miss Italia che Leone ha piazzato a Rai Uno (si chiama Daniela Ferolla e presenta “Linea Verde”) ed entrature dentro Mediaset e Forza Italia - dopo un’inchiesta de “l’Espresso” sulle perdite mostruose di “3” il presidente del Consiglio sembra aver cambiato idea, e oggi ha qualche dubbio in più sul profilo.
Non pare averne, invece, un altro presunto candidato, l’ex Telecom Franco Bernabè, che dopo i rumors di Palazzo ha deciso di tirarsi fuori dalla corsa spiegando a Giovanni Minoli «di non essere adatto» all’incarico. Se qualcuno sostiene che si tratti di un depistaggio, di sicuro Bernabé - in affari con lo stesso Carrai - al torneo non farà mai il tifo per Novari. Anche se fu lui a chiamarlo in Andala - la società antesignana di “3” - e nonostante sua figlia Lucia abbia lavorato per anni in H3G, il manager è rimasto indispettito dalle dichiarazioni pubbliche di Vincenzo, che ha raccontato di essere stato lui a partire per la Cina e chiedere «five billion dollars» alla multinazionale Hutchison Whampoa. «Figuriamoci» ripete Bernabé agli amici. «Fui io ad andare da Li Ka-Shin e ottenere i soldi per comprare le licenze Umts. Solo dopo decisi di uscire dalla società».
Se anche Andrea Guerra, protagonista di qualsiasi toto-nomine, sembra in discesa verticale (il suo approdo in Eataly il prossimo ottobre è dato quasi per certo), tra gli esterni chi potrebbe davvero diventare regina del settimo piano di Viale Mazzini è Marinella Soldi. Sconosciuta al grande pubblico, è nata nel 1966 a Figline Valdarno (a 15 chilometri da Rignano, paese natale di Renzi), ma a otto anni s’è trasferita a Londra con la famiglia. Una laurea alla London School, impieghi dirigenziali in McKinsey e Mtv, oggi è capo di Discovery Channel per il Sud Europa, ed è colei che ha lanciato i programmi “real time” con cui ha costruito il successo del network. Nel mezzo, la Soldi è stata pure azionista e ad di una società di coaching, la Glizt srl ora in liquidazione, società specializzata nel preparare psicologicamente uomini e donne a dare il meglio di sé in ufficio. Ecco: se Renzi non chiude con Scrosati, la Soldi ha ottime possibilità di vincere la tenzone.
I manager di grido, ovviamente, arriveranno a condizione che la riforma passi definitivamente entro settembre. In caso contrario il governo userà la Gasparri per eleggere un direttore generale «che sarà» ha spiegato uno dei due relatori del disegno di legge, il socialista Enrico Buemi «necessariamente a tempo: la nuova legge dovrà prevedere che il vertice decada immediatamente all’entrata in vigore delle nuove regole». Il governo ha dunque una fretta del diavolo, ma il disegno di legge è insabbiato da un pezzo, e da settimane galleggia al Senato nella commissione guidata dal forzista Altero Matteoli. Finora sono stati presentati 380 emendamenti, ben 172 solo da Forza Italia: se i grillini hanno già definito la riforma «vergognosa, con 4 consiglieri su 6 matematicamente del blocco maggioranza-governo», i berlusconiani si dicono possibilisti, ma se Renzi non verrà a patti con loro faranno ostruzionismo totale. Una strategia che favorirebbe per forza di cose i dirigenti interni, maggiori indiziati a diventare dg in caso di rielezione con la Gasparri: gli Scrosati e i Campo Dall’Orto non accetterebbero mai incarichi a tempo e le regole d’ingaggio della Gasparri.
Così, compreso che più passa il tempo più c’è speranza, se il potente Giancarlo Leone ha deciso di rimettere in moto le sue relazioni e s’è di fatto auto-candidato (ex capo di RaiCinema, ha l’appoggio di politici come Paolo Romani e Gianni Letta, ottimi uffici con il Quirinale e conosce la macchina aziendale come nessuno), pure Eleonora “Tinny” Andreatta ha deciso di tentare il colpaccio. Attuale capo della fiction (democristiana dentro, in due anni non ha scontentato nessuno: dalla Lux Vide di Bernabei alla Pepito di Agostino Saccà, passando per la Casanova di Luca Barbareschi alla Cattleya di Riccardo Tozzi, tutti i soliti produttori hanno avuto i loro contrattini milionari), la figlia di Beniamino vorrebbe provare a fare il grande salto, e - mentre lei si spende direttamente con l’entourage del presidente Sergio Mattarella - la bravissima Alessandra Zago, numero uno dell’ufficio stampa di Raifiction, si sta dando da fare per procurarle spazio su media e giornali.
Ma non sarà facile raggiungere il trono. Né per lei né per l’ultimo cavaliere in lizza, Valerio Fiorespino, l’uomo su cui ha deciso di puntare forte il gruppo dei tecnocrati. Guidati da Salvatore Lo Giudice, ex avvocato di Luigi Bisignani diventato capo dell’Ufficio legale, la compagine è formata anche dal berlusconissimo Carlo Nardello (redento, ora si dice renziano ed è diventato pure capostaff di Gubitosi) e dal direttore delle risorse televisive Andrea Sassano. L’azzardo Fiorespino sembra una carta disperata, ma la situazione è grave: finora sono stati loro i veri padroni della Rai, ma se passasse la riforma e arrivasse un manager con pieni poteri, la festa - almeno per loro - sarebbe finita.