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 2015  giugno 26 Venerdì calendario

L’OSTILITÀ DEI FILOSOFI HA COLPITO I PROFUMI RENDENDOLI IMMORTALI

A Platone i profumi non piacevano proprio. La cosa non ci interesserebbe granché se non avesse generato uno dei più grossi pregiudizi del pensiero occidentale, creando un’immaginaria gerarchia dei sensi che in qualche modo dura ancora e che vede il naso all’ultimo posto, inaffidabile e traditore. Si tramanda che il filosofo cinico Diogene, addirittura, disse: «Bada che il profumo della tua testa non apporti cattivo odore alla tua vita». Mentre tempo dopo, spingendo ancora di più sullo stesso concetto, Marziale sosteneva che «Non ha un buon odore chi ha sempre un buon odore». Possiamo tranquillamente dire che gli albori della filosofia sono stati, anche, una sorta di rivolta concettuale contro i profumi e la loro eccessiva capacità di suggestione. Ancora Platone, ne La Repubblica, arriva addirittura a concepire l’idea che la città giusta dovrebbe vietare «unguenti, profumi e etere» perché considerati piaceri superflui colpevoli di corrompere gli animi dei più giovani. Ma se tutto questo accadde, è stato perché la civiltà greca era in realtà completamente sommersa dai profumi, e l’incanto delle fragranze, dalle più semplici alle più ricercate, portava a eccessi che negli scritti dei filosofi hanno trovato il loro contraltare. Con lo sviluppo delle città greche e con il consolidarsi delle pratiche sociali urbane, i profumi entrano prepotentemente nell’uso quotidiano, passando dal mito ai mercati, sempre più ricchi di nuove essenze, di inedite miscele profumate, custodite in ampolle più o meno lussuose. Nella Grecia antica, il profumo era la caratteristica degli Dei che, in quanto immortali, sottratti alla vita biologica, si nutrivano di esalazioni profumate, quintessenza di una purezza negata all’uomo. Come ci racconta Omero, l’arrivo di una divinità è preannunciato da un odore delizioso. Ma sempre Omero, nell’Iliade, ci ricorda che la dea Afrodite, per salvare il cadavere di Ettore, «ungeva il corpo di olio divino, profumato di rose, perché Achille nel trascinarlo non gli lacerasse la pelle». Il profumo (quello concesso agli uomini) come fuga dalla propria condizione di inferiorità rispetto a quella degli dei. Un artificio, dunque, di cui non si conoscono le origini, o almeno così afferma Plinio il Vecchio che, nella sua monumentale Storia naturale, scrive che «Il nome dell’inventore dei profumi non è stato tramandato. Ai tempi della guerra di Troia essi non esistevano e nelle suppliche non si usava l’incenso. Perfino nelle cerimonie religiose si conosceva solo il sentore del fumo, più che l’odore, che si levava dalle piante del luogo bruciate, la cedrus e la tuia: era nondimeno già conosciuta l’acqua di rose, anch’essa infatti viene ricordata nell’Iliade e lodata come olio». In realtà, Plinio, come la maggior parte degli scrittori antichi che si occuparono di profumeria, fa parecchia confusione. Erodoto ci narra, nelle Storie, che l’uso dell’incenso in Grecia avrebbe attecchito nel VI secolo avanti Cristo. In un curioso racconto fantastico, sempre Erodoto ci descrive come gli uomini fossero costretti a bruciare gli arbusti di storace affinché il fumo così prodotto tenesse lontani i serpenti alati a guardia degli alberi che producono l’incenso. Ovidio, nelle Metamorfosi, ci racconta poi dell’amore del Sole per Leucotoe, giovane vergine nata «nella terra dei profumi» e figlia del re di Persia. Il Dio abbandona il giardino delle Esperidi, dove i suoi cavalli pascolano cibandosi di ambrosia, e scende sulla terra per sedurre la fanciulla. Non era certo la prima volta che una divinità si innamorava di una creatura umana, ed in ogni caso, quasi a voler tenere separati in modo fatale mondo umano e mondi superiori, ogni volta ne derivano guai. In questa vicenda, le cose prendono una brutta piega quando il padre di lei, venuto a conoscenza delle intenzioni del Sole, decide di punire la figlia seppellendola viva. La ragazza, ovviamente, muore, e il Sole, giunto troppo tardi, non può fare altro che piangerne la scomparsa. Ma, se non può ridarle la vita, ungendole il corpo di nettare profumato può far sì che nonostante la sua morte giungerà fino al cielo. Il corpo imbevuto di nettare di Leucotoe si trasforma così in un liquido profumato che irrora la terra e fa germogliare una pianta d’incenso i cui effluvi giungono alla sommità dei cieli, raggiungendo il Sole. Profumo dunque come “anima”, spirito insufflato dal divino nel corpo mortale.

Rose insanguinate. Il mito greco che forse più approfondisce le valenze del profumo nella sua complessa valenza antropologica è quello di Adone, tramandato in innumerevoli fonti e sempre rivisitato nei secoli. R. Graves, ne I miti greci, riassume la leggenda più o meno così: Mirra, giovane figlia del re di Cipro, è devota della dea Artemide. Lo è a un punto tale da offrirle, in segno di sottomissione, la sua castità. Afrodite (detta anche “Ciprigna”, da Cipro, appunto), invidiosa della venerazione di Mirra per l’altra Dea, decide di vendicarsi in un modo molto crudele: accende Mirra di una passione incestuosa per il padre. Mirra non può che sottostare alla potenza dell’incantesimo della Dea e agisce, ubriaca il padre e lo seduce, restandone incinta. Dopo l’ubriacatura, il padre, tornato in sé e resosi conto dell’accaduto, decide di uccidere la figlia, ma proprio mentre la scure si abbatte sulla ragazza interviene Afrodite che, impietositasi, la trasforma in un albero (esattamente come fece il Sole con Leucotoe). Il tronco dell’albero squarciato rivela al suo interno un neonato dalla bellezza straordinaria, che Afrodite prende con sé. È Adone. Secondo alcune fonti, Afrodite consegna Adone a Persefone, regina degli Inferi, che se ne innamora. Di nuovo, Afrodite si ingelosisce e chiede l’intervento di Zeus, che divise l’anno in tre parti: due per ciascuna delle due dee, una per il riposo. Altre fonti riportano invece che Persefone si confidò con il focoso Ares, dio della guerra, dell’eccessiva cura con cui Afrodite si dedicava ad Adone e così Ares, trasformatosi in cinghiale inferocito, dilaniò il bambino. Dal corpo dilaniato di Adone germogliarono gli anemoni. Rose bianche divennero rosse dopo essere state macchiate dal sangue versato dai graffi che Afrodite si procurava alle caviglie vagando per la Grecia alla ricerca del suo amato bambino. Quando seppe che Adone era morto, la dea implorò Zeus di restituirglielo e Zeus, salomonicamente, decise che Adone trascorresse sei mesi sottoterra, negli inferi, e sei mesi con Afrodite alla luce del sole. Fino a qui il celeberrimo mito. Connesso ai tempi e ai riti dell’agricoltura, ma anche a quei legami sottili che il mito, ci insegna Freud, caratterizzano la mente umana. Legami che ci raccontano degli inestricabili intrecci tra profumi e sessualità, tra tabù e liberazione delle passioni. Adone, il “bambino profumato” ci rivela anche che il profumo, simbolo d’immortalità, se usato in modo eccessivo rischia di causare l’ira degli dei. O, più laicamente, la disapprovazione dei filosofi. Ma torniamo alla vita quotidiana.

La scia lasciata dalla prostituta. In Grecia, alle giovani spose era consentito profumarsi solo il giorno delle nozze, ma veniva loro consigliato di astenersi dal farlo nelle altre occasioni per non sviare il matrimonio dalla sua vera finalità che era la procreazione e non l’erotismo. Sappiamo come nel mondo greco (quanto in quello romano) matrimonio e erotismo fossero considerate cose distinte. Il matrimonio è il luogo del vincolo sacro tra uomo e donna (come poi nella religione cristiana) mentre l’erotismo è un piacere sublime che avvicina agli dei ma alla fine fa sprofondare l’uomo nella bestialità del puro desiderio (Demostene, senza mezzi termini, scrive nel suo Contro Neera che «ci si rivolge alle cortigiane per il piacere e alle spose per la prole e la cura del focolare»). Ed ecco allora che le prostitute, al margine della vita sociale ma in realtà marginalmente ben integrate, possono fare abbondante uso di profumi e anzi lo usano proprio come indicatore della loro condizione. In una polis greca, la scia di profumo lasciata da una donna era un segnale esplicito del suo improbo quanto ricercato mestiere. E per sventare questo simbolismo si ricorreva, in certe circostanze, all’opposto del profumo, ossia alla puzza.

Rinasce la passione. Secondo Filocoro l’Ateniese, durante le Sciroforie, le feste dei parasoli celebrate nel periodo corrispondente ai mesi di giugno e luglio in onore di Atena, la dea vergine, le donne erano solite mangiare dell’aglio per scoraggiare le eventuali pretese amorose dei loro sposi. Ma c’è ancora un altro mito che nella sua ambivalenza può dirci molto della mentalità greca rispetto al profumo. Le donne di Lemno, per avere trascurato il culto di Afrodite, furono condannate a puzzare a un punto tale da respingere tutti gli uomini dell’isola. Offese e adirate, le donne di Lemno uccisero tutti i maschi, bambini inclusi. Tempo dopo, quando gli Argonauti sbarcarono sull’isola che ormai, per mancanza di riproduzioni, stava diventando deserta, le donne si unirono carnalmente ai visitatori in un’orgia di corpi dopo essersi completamente cosparse di unguenti e balsami preziosi. Dal profumo, dopo il delitto, rinasceva la vita.

3- continua