Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  giugno 26 Venerdì calendario

ECCO LA REGINA CHE DA UN’OASI SFIDÒ L’IMPERO

Si chiamava Zenobia. Era la regina di Palmira, città e oasi del deserto siriano, oggi putroppo nota per gli eccidi compiuti dall’Isis e le minacce ai monumenti del locale sito archeologico, uno dei più importanti, più belli e più sorprendenti del mondo. Un tempo infatti Palmira era una grande città che faceva parte dell’Impero romano. A metà strada tra la costa del Mediterraneo e il fiume Eufrate, al confine con la Persia, il tradizionale nemico di Roma, Palmira occupava una posizione politicamente strategica e commercialmente straordinariamente felice: era una delle città carovaniere, da cui passavano, dirette verso Roma, merci preziose come la mirra, il pepe, l’avorio, le perle, le sete indiane e cinesi di gran moda nella capitale. Ma non era solamente ricca. Era anche una città colta e cosmopolita: i suoi abitanti parlavano l’aramaico ma conoscevano anche il greco, la lingua franca dell’epoca. Dei vicini persiani, con i quali avevano continui contatti anche culturali, avevano adottato tra l’altro la foggia degli abiti, come svelano alcuni sorprendenti bellissimi bassorilievi. Cosa, questa, che insospettiva non poco i romani, che ritenevano i suoi abitanti troppo simili ai “barbari” per potersi fidare completamente di loro. E in effetti sulla metà del terzo secolo Palmira cominciò a creare problemi. Nel 267 era stato ucciso in un attentato Settimio Odenate, nominato dall’imperatore Galliano suo rappresentante personale nella zona, come resh, vale a dire esarca della città: l’estensione dell’impero era tale che Roma non poteva governarlo senza ricorrere ai potentati locali, che di regola, come fece Odenate, assecondavano la sua politica. Senonchè, alla morte di Odenate, sulla scena politica fece il suo ingresso la sua vedova, Zenobia (in arabo al-Zabba). E le cose cambiarono: rapidamente Zenobia divenne, di fatto, la regina di Palmira. La sua prima mossa fu quella di chiedere che a suo figlio Wahballath (“dono di Allah”) venisse riconosciuto il titolo che era stato di suo padre, e dopo averlo ottenuto, governando di fatto al posto di lui, mostrò immediatamente che sul suo territorio intendeva avere totale libertà d’azione. Approfittando della instabilità politica romana estese il suo dominio sui territori arabi attorno a Palmira, nonché sull’Egitto e le città dell’Asia Minore. E in un primo momento Roma avallò la sua politica, arrivando nel 270, con l’imperatore Aureliano, a riconoscere le sue conquiste.

Intelletto e dialogo. A quel punto, Zenobia, che tra l’altro amava indossare il mantello riservato ai capi militari (paludamentum), era già una leggenda. Alle sue truppe, che comandava personalmente, si presentava — racconta la Historia Augusta — con il capo coperto dal casco, avvolta in una sciarpa di porpora dalle frange ornate da pietre preziose, impartendo ordini con voce ferma e virile. Quando i suoi soldati si spostavano, compiva con loro marce a cavallo di giorni e giorni nel deserto. Donna di straordinaria cultura, valorizzò il contributo degli intellettuali come strumento di governo e promosse la tolleranza religiosa, incentivando il dialogo sia con il paganesimo greco-romano che con il cristianesimo: nella città giungevano gli intellettuali più in vista dell’epoca, tra cui Cassio Longino, grammatico e retore notissimo, professore di filosofia ad Atene. Palmira era diventata una sorta di Atene ai suoi tempi d’oro nel mezzo del deserto siriano.
Ma ben presto Zenobia commise un errore. Nel 272 prese a battere moneta in nome suo e del figlio, con il titolo, che si era attribuito, di Augusta, e con quello di Imperator Augustus per suo figlio Wahballath: un gesto che significava indipendenza politica. Roma non poteva accettarlo. Al comando di Aureliano, l’esercito romano riconquistò rapidamente i territori conquistati dalla regina. Zenobia, secondo Zosimo, radunò un esercito di 70.000 soldati, ma al termine di un durissimo scontro fu sconfitta e catturata mentre tentava di raggiungere la Persia. In riconoscimento del suo straordinario coraggio Aureliano le risparmiò la vita, e a partire da quel momento si perdono le sue tracce: secondo alcuni morì durante il viaggio verso Roma; secondo altri vi giunse, seguì il trionfo di Aureliano incatenata al carro del vincitore, come era consuetudine per i nemici sconfitti, ma in segno di rispetto le sarebbe stato consentito di indossare tutti i suoi gioielli. E poi sarebbe stata condotta a Tivoli, dove avrebbe terminato i suoi giorni.

In panni svedesi. Nessuna meraviglia, insomma, che sia entrata nella leggenda, ispirando letterati come Petrarca, Boccaccio, Chaucer e Calderón de la Barca, musicisti come Paisiello e Rossini, pittori come Tiepolo, che le dedicò in una delle sale della Cà Zenobio a Venezia. Sulla metà del secolo scorso, nel 1959, comparve sullo schermo, con le forme giunoniche di Anita Ekberg, alta, bionda e gelidamente altera, in un film peplum intitolato Nel segno di Roma di Guido Brignone, al quale — dicono le storie del cinema — collaborò come assistente alla regia un giovane Michelangelo Antonioni.
Che altro dire di lei? Oggi, io direi che la sua immagine colpisce soprattutto per la capacità di rompere ogni stereotipo nella tipizzazione dei sessi: quasi due millenni or sono, nel cuore del mondo arabo, Zenobia riuscì a realizzare imprese politiche e militari che non hanno pari nella storia delle donne occidentali. Come dimenticarla?
1- continua