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 2015  giugno 26 Venerdì calendario

L’ULTMO EREDE DEL DOTTOR SIGMUND FREUD


[Oliver Sacks]

SAN FRANCISCO. Per cinquant’anni – prima e dopo i famosi risvegli – si è sdraiato sul lettino, ma non l’aveva mai detto prima. Chissà perché. Ha scritto gli «aneddoti clinici» più famosi della seconda metà del Novecento, prendendo ispirazione proprio da lui, Sigmund Freud; ma non l’ha mai nominato. E anche questo è strano. Era noto per essere un saggio neurologo, un filosofo e un poeta, dai cui scritti l’umanità ha tratto sollievo per le proprie sofferenze; ebbene, quest’uomo, in pochi mesi, prima ha annunciato che sta per morire per le metastasi al fegato di un tumore che lui aveva sperato scomparso; e poi ha dato alle stampe la biografia dei suoi anni giovanili, in cui si narra adolescente inglese oppresso da un’omosessualità allora considerata alla stregua del crimine; ragazzo disprezzato dalla madre; fuggiasco in California alla ricerca di grandi quantità di sesso anonimo, in preda al senso di colpa, vagante in motocicletta tra paesaggi psichedelici e infine facente voto di astinenza sessuale, durato trentacinque anni e sostituito dalla terapia freudiana.
La foto di copertina del suo On the Move. A Life mostra un tenebroso ragazzone che sfoggia la giacca di pelle da motociclista, quella che qualche volta si indossa con l’igiene della T shirt bianca del Marlon Brando più selvaggio, e qualche volta senza, a contatto diretto con il vello nero del petto.
Perché l’ha fatto, professor Oliver Sacks? Che cosa ha voluto dirci? Come vorrà essere ricordato? Come il terapeuta grosso e burbero dai capelli candidi e dalla modesta casa piena di libri e dischi di musica classica; o come l’omosessuale che non trovò mai la forza di uscire dall’armadio, che non volle dare il suo contributo alla tolleranza e alla scienza ai tempi della grande epidemia di Aids; l’epidemia che cominciò proprio su quelle strade e in quei bagni pubblici della California, le mete verso cui sfrecciava, anonimo biker gay, sulla mitica Bmw 500 a cilindri contrapposti?
I misteri e gli indizi che Oliver Sacks ci mette davanti sono troppi. Coinvolgono la creatività, la colpa, il narcisismo, la depressione, il potere salvifico della parola, che altri chiamano della confessione. Sembra però che solo lui sia in grado di risolverli; resti da vedere se lo farà prima di morire.
Sacks nacque nel 1933 nel North West di Londra. I suoi genitori erano ambedue medici e facenti parte di una grande famiglia ebrea, in cui si trovavano economisti, scrittori, musicisti, politici come Abba Eban (che diventò ministro degli Esteri di Israele); o Albie Sachs, compagno di lotta di Nelson Mandela che divenne il presidente della Corte Costituzionale del Sudafrica liberato dall’apartheid. Cresciuto in un ambiente intellettuale e stimolante, ora – solo ora – Sacks ci racconta che la sua omosessualità, intuita e disprezzata in famiglia e condannato nella società, fu la sua più grande pena.
Laureato in medicina a Oxford, lo ritroviamo medico neurologo a New York negli anni Sessanta. Non ha fatto una gran carriera; l’ospedale che l’ha assunto è il modesto Beth Abraham Hospital, nel Bronx, un grande cronicario, in cui al giovane medico viene richiesto essenzialmente di seguire l’ordinaria amministrazione dei decessi e svolgere i turni di guardia. Il Beth Abraham ha un vasto reparto, con decine di letti, che ospita malati senza speranza. Sono, addirittura, un residuo dei tempi della Grande guerra del ‘14-18. Finita l’ecatombe nelle trincee, un virus attecchì in Europa, provocando l’influenza detta «Spagnola» che uccise tra il 1918 e il 1920 circa 50 milioni di persone. (In Italia, le vittime furono superiori alle vittime in divisa della guerra, che pure furono altissime. Le stime variano tra le 350 mila e le 600 mila persone). Ultimo strascico della Spagnola fu la Schlafkrankenheit, la malattia del sonno, un’encefalite letargica, così battezzato dal grande clinico tedesco Konstantin Von Economo. L’epidemia cominciò a svilupparsi dopo il 1920 e ne vennero colpite cinque milioni di persone. I malati che non morivano, passavano «in una torbida marea di malinconia, catatonia, stato di trance, passività, immobilità, frigidità, apatia». Alcuni di loro «passarono addirittura in una condizione atemporale, una stasi priva di eventi che tolse loro il senso della storia e del succedersi degli avvenimenti». Può sembrare incredibile, ma nel cronicario per vecchi ebrei nel Bronx, a metà degli anni Sessanta erano ancora in vita, nel loro lungo sonno – rotto solo, per pochi minuti, dal suono del gong per il pranzo, da un rumore inatteso, dalla visita di un parente – decine di pazienti della Schlafkrankenheit di Von Economo, il lascito di un’epoca ormai remota, dei sopravvissuti non della Seconda, ma della Prima guerra mondiale.
Gli anni Sessanta erano tempi convulsi e innovativi per le scienze neurologiche e psichiatriche, in cui Oliver Sacks si era specializzato. Tempi di nuove medicine, di psicoanalisi, di teorie organicistiche e di loro negazione, di ridefinizione della malattia mentale, di elettroshock e terapie coatte. In Italia, Franco Basaglia contestava la definizione stessa di malattia mentale e denunciò l’inumanità dei manicomi, in Francia Deleuze e Guattari coniugarono Marx con Freud, in Inghilterra Donald Laing provò un approccio rivoluzionario alla schizofrenia.
La mente tutta veniva messa in discussione, dalla filosofia e dall’indagine farmacologica. Uno dei più diffusi e letali disturbi cerebrali, il morbo di Parkinson, trovò in quegli anni una possibile spiegazione: il tremore che la malattia provocava non era dovuto, come si era sempre pensato, a un eccesso di eccitazione, bensì al suo contrario: una zona della corteccia cerebrale reagiva «al di sotto della soglia» e un farmaco, la L dopamina, conosciuto poi come L Dopa, era in grado di ristabilire la soglia necessaria e, perlomeno, attenuare fortemente i sintomi del Parkinson.
Il dottor Sacks, allora un seguace della neurologia romantica del professore sovietico Alexandr Lurjia, nella periferia scientifica del Beth Abraham Hospital del Bronx, si prese la responsabilità inaudita di sperimentare sui suoi pazienti addormentati dosi sempre più massicce di L Dopa: dieci, cento, mille volte quelle consigliate per il Parkinson. E i suoi pazienti – un lungo sonno che per molti di loro durava da decenni – si svegliarono. Tornarono a vivere, a parlare, a ballare, ad avere emozioni, a leggere, scrivere, amare, odiare, ad avere pulsioni sessuali, odi, amori, dolori, passioni.
Si trattò, a tutti gli effetti, di una «resurrezione laica» senza precedenti. Magnifica nella sua manifestazione; dolorosa, sofferente nel suo sviluppo. Tornare alla vita quasi per nessuno dei malati fu semplicemente un miracolo, piuttosto una fonte di sofferenze, ansie che alla fine, in breve tempo, li portarono alla morte. Le controindicazioni della L Dopa, che i malati presero a chiamare Hell Dopa, furono spesso terribili; nessun altro ripeté l’esperimento. Ma Sacks (con pochi collaboratori) aveva tenuto diari accurati del «ritorno in vita» dei suoi pazienti e, nel 1973, diede alle stampe Risvegli, con i ritratti di venti pazienti passati dal sonno, alla vita e alla morte. Nessuno seppe mai cosa successe a Lazzaro dopo che il Cristo ordinò al Morto di alzarsi e camminare; duemila anni dopo Oliver Sacks, sotto forma di un nuovo Dio del Ventesimo Secolo documentò – in una forma letteraria asciutta e nello stesso tempo strabiliante, per poesia e umanità – l’osservazione della zona oscura tra la vita e la molte, le tribolazioni dell’oscurità e le meraviglie del risveglio. E soprattutto raccontò come ogni persona è diversa, ma sempre diversamente umana, fragile e forte, artefice e vittima del suo destino.
Risvegli fu un successo mondiale, che cambiò il modo di raccontare la medicina, la psiche, la malattia, con una forza analoga ai testi di Sigmund Freud sull’interpretazione dei sogni, sull’ipnosi e sui primi «casi clinici» di pazienti che raccontavano a lui i loro tormenti segreti. I Leonard L, le Martha N, le Lucy K di Sacks sono i fratelli minori delle Anna O., delle Dora, dei piccoli Hans di Freud.
La pratica psicoanalitica di Freud conserva tutt’ora privacy, segretezza, regole esoteriche, ma la sua narrazione della psiche umana, la capacità del terapeuta di stabilire un transfert con il paziente, la facilità con cui mescola sintomi, musica, inconscio e storia hanno segnato il secolo. Nata in Europa, la psicoanalisi venne completamente trasformata dagli americani, che ne colsero subito il carattere spettacolare. Resterà famoso l’episodio del grande produttore di Hollywood Samuel Goldwyn che convocò la stampa per annunciare, nel 1925, la sua partenza da New York per Vienna con un assegno da centomila dollari per assumere Freud come sceneggiatore delle più grandi storie d’amore per il cinema. «È l’uomo che conosce di più l’animo umano e le sue passioni, voglio che scriva per me! E voglio che cominci con la storia di Antonio e Cleopatra». (Freud ricevette Goldwyn a Vienna, ma rifiutò, sdegnato, la proposta).
Il successo di Oliver Sacks un po’ ripete quell’episodio; è figlio del metodo freudiano, ma anche della voglia americana di trovare qualcosa di facile, comprensibile, per spiegare le proprie pene. La narrazione della malattia diventa essa stessa la terapia, e la terapia è la consapevolezza della fragilità. Non esiste una guarigione, e men che meno affidata alla chimica e alla farmacologia, quanto piuttosto una continua presa di coscienza. I libri di Oliver Sacks sono, al solo prezzo di copertina, altrettante sedute psicoanalitiche, in cui si parla della piccola psicopatologia della vita quotidiana, dei lapsus, delle emicranie, della prosopagnosia, della malinconia, dei sogni che ci hanno tormentato o che abbiamo vissuto come premonitori, della musica e della pittura. Da Risvegli fu immediatamente tratto un grande film, con uno splendido Robin Williams nella parte di Oliver Sacks e Robert De Niro nella parte di un torvo risvegliato. I successivi libri di Sacks mantennero alta l’idea di una neurologia gentile, di una malattia con cui si può convivere. Sacks diede poi una nuova visione del medico, e anche lo spigoloso (ma umanissimo) dottor House televisivo può considerarsi un figlio suo.
Oliver Sacks, benché sia diventato un cattedratico di neurologia, non è mai stato preso troppo sul serio dalla scienza «tradizionale», che piuttosto si è orientata verso la farmacologia spinta. Il suo famoso esperimento con la L Dopa viene oggi considerato – quando va bene – «non ripetibile». Lui stesso, autore del bellissimo L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, sulle divertenti avventure quotidiane della prosopagnosia, venne considerato dai suoi colleghi invidiosi del suo successo come «il medico che scambiò i suoi pazienti per dei casi letterari».
Cosa che in realtà è stata anche vera. Compreso il fatto che il più importante caso clinico che gli fosse capitato era lui stesso. Ma era molto difficile da raccontare, anche a un caro amico come il dottor Sacks.

Enrico Deaglio