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 2015  giugno 26 Venerdì calendario

MALATI DI SPORT

Il vostro vicino di casa va a correre ogni giorno. Diversi colleghi trascorrono quasi sempre la pausa pranzo in palestra. E una cara amica fa triathlon due volte a mese. Voi penserete: ma è normale? Forse il vicino, il collega o l’amica potrebbero addirittura rispondervi di no. Molti tra coloro che praticano sport di resistenza si definiscono loro stessi dipendenti, come ha riferito già alla fine degli anni ottanta lo specialista in educazione allo sport Edgar Rümmele. Oltre la metà dei maratoneti da lui interpellati si riteneva «dipendente dalla corsa», e alcuni ammettevano addirittura di non sopportare l’idea di non poter più correre.
Secondo lo psicologo Heiko Ziemainz, dell’Università di Erlangen-Norimberga, un allenamento, per quanto intensivo, non rappresenterebbe un rischio per la salute. «Quando facciamo molta attività fisica, che sia cinque o sette volte la settimana, di norma otteniamo enormi vantaggi in termini di salute». L’impulso al movimento e alla competizione, nella stragrande maggioranza dei casi, non è patologico, ma si basa su un rapporto positivo con la sfida che lo sport ci lancia.
Ecco che l’equivoco sembrerebbe chiarito: chi pratica molto sport non avrà alcun problema. Anche se agli occhi di una persona «normale» le fatiche di un ironman che, nell’ordine, nuota per 3800 metri, percorre 180 chilometri in bicicletta e corre anche una maratona appaiono una tortura. Sono moltissimi gli studi che documentano i vantaggi dell’allenamento di resistenza: un’intensa attività sportiva ci rende più soddisfatti ed equilibrati, oltre a mitigare l’ansia e lo stress.

I primi segnali
Un gruppo di ricercatori guidato da Huseyin Naci, dell’Università di Londra, esperto in ricerche sulla salute, ha scoperto nel 2013 che l’attività fisica può avere, per alcune patologie, un effetto terapeutico addirittura più potente di quello dei farmaci, per esempio nella fase di riabilitazione che segue un ictus cerebrale. Lo sport diventa un problema solo quando il soggetto avverte una spinta compulsiva a praticare attività fisica, relegando in secondo piano tutto il resto della sua vita.
I primi segnali il più delle volte sembrano innocui: «Ero un po’ irritabile quando non riuscivo ad allenarmi come volevo», racconta Peter W., un uomo di 51 anni che dice di essere sempre stato uno sportivo. Quando aveva poco più di trent’anni correva in bicicletta e giocava a calcio. Considerandosi un po’ troppo esile, a un certo punto aveva cominciato a praticare il sollevamento pesi in palestra e a sostenere il suo allenamento con un’alimentazione ricca di proteine. Il risultato non si era fatto attendere: nel giro di sei mesi aveva messo su 10 chili di massa muscolare. «La febbre dell’allenamento si era impadronita di me», ricorda Peter. All’inizio aveva ancora tempo e voglia di vedere gli amici o di andare al cinema, ma a poco a poco i contatti personali erano diventati sempre meno importanti. «Dovevo sempre andare a tutta birra. Avevo perso il senso della misura».

Un’idea fissa
Come Peter, i «drogati» dell’attività fisica trascurano sempre più amici e famiglia, e a volte arrivano persino a separarsi dal partner. I loro pensieri ruotano attorno allo sport e al programma di allenamento da portare a termine ogni giorno. Inoltre la dose di attività fisica deve aumentare sempre più, se si vuole raggiungere lo stesso livello di appagamento. Alcuni finiscono addirittura per sopportare gli infortuni, anche gravi. «Il caso peggiore che ho sentito descrivere è quello di un ultra-maratoneta che si è consumato il tallone fino all’osso», racconta Heiko Ziemainz.
Se il soggetto non può fare attività fisica, subentrano sintomi di astinenza; diventa irrequieto, irritabile, lunatico, aggressivo. «Saltare un allenamento, per me, era quasi una catastrofe», ricorda Peter W. «Avevo paura di perdere forza e massa muscolare».
Il fenomeno della dipendenza da sport è noto alla scienza da tempo. Lo psichiatra Frederick Baekeland vi si imbatté più o meno per caso nel 1970, nel corso di uno studio sulla qualità del sonno alla State University of New York. I partecipanti dovevano rinunciare per un mese a qualsiasi attività fisica. Baekeland voleva capire in che modo l’astinenza si ripercuoteva sulle loro condizioni psichiche. Nonostante le cifre elevate offerte loro come risarcimento per la «sedentarietà», molti non avevano voluto nemmeno prendere parte all’esperimento, affermando di non voler rinunciare all’attività sportiva. Baekeland si chiese se questo atteggiamento non fosse già espressione di una dipendenza.
Oggi la dipendenza da sport viene annoverata tra le cosiddette condotte compulsive, come le dipendenze dal gioco d’azzardo, da Internet e dal sesso. Come la dipendenza da lavoro o da shopping, però, quella da sport non è riconosciuta come un disturbo psichico a se stante, e non ce n’è traccia nei manuali di diagnosi psichiatrica ICD-10 e DSM-5. Perché? Spesso questo tipo di dipendenza non rappresenta la patologia clinica vera e propria, ma cela un’altra patologia, per esempio un disturbo alimentare. L’allenamento eccessivo, in questo caso, funge da mezzo per sbarazzarsi di quelli che vengono percepiti come chili di troppo e per avere un’immagine ideale del proprio fisico. Non stupisce nemmeno il fatto che, nella maggioranza dei casi, la dipendenza da sport si presenti come sintomo «secondario» legato all’anoressia.
Un disturbo che rimane nell’ombra

La dipendenza da sport «primaria» è un fenomeno che rimane nell’ombra: viene diagnosticata raramente, e finora, in pratica, non ci sono studi o ricerche che se ne occupino. Non per questo è meno pericolosa.
Non abbiamo dati affidabili sul numero di persone affette da dipendenza da sport. Probabilmente parliamo di una percentuale inferiore all’uno per cento della popolazione che pratica attività fisica. Nel 2013 è stato pubblicato uno studio effettuato su 1089 atleti di sport di resistenza, tra cui triatleti, podisti e ciclisti. Heiko Ziemainz e i suoi colleghi delle Università di Erlangen-Norimberga e Halle-Wittenberg avevano ideato, in un primo momento, una versione tedesca dell’Exercise Addiction Inventory (EAI), un questionario diffuso soprattutto negli Stati Uniti che aiuta a individuare i soggetti con maggiore rischio di sviluppare una dipendenza da sport.
I partecipanti dovevano indicare in che misura condividevano affermazioni come «allenarmi è la cosa più importante della mia vita» oppure «quando devo saltare un allenamento sono lunatico e irritabile». Per valutare il pericolo di dipendenza, i ricercatori hanno affiancato ai risultati dei questionari anche approfonditi colloqui clinici. È emerso così che il 4,5 per cento dei partecipanti risultava a rischio dipendenza e, tra questi, uno su dieci presentava un quadro di dipendenza da sport acuta: parliamo quindi di meno dello 0,5 per cento di chi si allena regolarmente.
I soggetti che praticavano attività «tranquille» correvano lo stesso rischio di chi prediligeva sport estremi, uomini o donne che fossero. Ma gli atleti giovani sembravano più a rischio rispetto ai più anziani. Come previsto, chi si allenava con più intensità degli altri, o da più tempo, otteneva valori più elevati, così come accadeva ai triatleti, che praticano tre diverse attività sportive.
Come dimostra il caso di Peter W., la dipendenza da sport non riguarda soltanto chi pratica attività che puntano alla resistenza. «Il fenomeno interessa tutti i tipi di attività, anche fitness e body building», spiega Ziemainz. Infatti lo psichiatra Michel Lejoyeux, dell’Ospedale Bichat-Claude-Bernard a Parigi, ha analizzato circa 300 frequentatori di palestre, scoprendo che il 40 per cento di loro manifestava almeno un tratto tipico della dipendenza.

Un legame affettivo
Che si tratti di corsa o di allenamento con gli attrezzi, la dipendenza ha alla base un «legame affettivo» molto stretto nei confronti dello sport. Secondo i ricercatori questo elemento potrebbe essere riconducibile, tra l’altro, allo stato di «ebbrezza» provocato dall’attività fisica. Chi pratica sport di resistenza, per esempio, percepisce il cosiddetto Runner’s High, un senso di leggerezza, accompagnato dalla convinzione di disporre di riserve di forza inesauribili. Si è creduto a lungo che in quei momenti il cervello producesse una quantità maggiore di alcuni neurotrasmettitori, tra cui l’oppioide endogeno beta-endorfina, sostanza dall’effetto analgesico ed euforizzante. Durante le attività sportive prolungate, la concentrazione del neurotrasmettitore effettivamente sale; la sua azione si manifesta dopo uno sforzo fisico di almeno un’ora. Negli sportivi la concentrazione della beta-endorfina, tuttavia, è rilevabile nelle zone periferiche del corpo. Non sapendo ancora con precisione se e come il neurotrasmettitore superi la barriera ematoencefalica, è difficile stabilire quali possano essere i suoi livelli di concentrazione nel cervello.
Una seconda impostazione spiega la piacevole sensazione di «flusso» (flow) in altro modo: secondo la «teoria dell’ipofrontalità transitoria» – che ipotizza una riduzione temporanea nell’attività del cervello frontale – il movimento mette davvero il «turbo» alle regioni cerebrali che controllano le funzioni motorie, sensoriali e vegetative del corpo. Allo stesso tempo, però, le aree la cui attività non è necessaria entrano in una sorta di «stato di riposo», soprattutto la corteccia prefrontale, coinvolta nei processi coscienti del pensiero. Quando il cervello frontale «frena» in questo modo, si determina il tipico flow, ossia lo stato in cui l’atleta viene completamente assorbito dalla sua attività.
In due diversi esperimenti lo psicologo Arne Dietrich, dell’American University di Beirut, in Libano, ha dimostrato come l’attività sportiva influisca sulle capacità cognitive. Il ricercatore ha chiesto ad alcuni partecipanti maschi di sottoporsi a un test d’intelligenza e a un esercizio in cui veniva chiesto loro di ordinare delle carte da gioco in base a una determinata regola. Il gruppo svolgeva questi compiti correndo su un tapis roulant oppure pedalando su un ergometro. I soggetti del gruppo di controllo erano invece in piedi o seduti sulle macchine, senza muoversi, e un proiettore mostrava gli esercizi ai partecipanti.
A quanto è emerso, i soggetti che praticavano un’attività fisica ottenevano risultati peggiori nel test in cui dovevano riordinare le carte, ma non nel test d’intelligenza generale. In questi individui apparivano infatti temporaneamente ridotte le «funzioni esecutive» controllate dal cervello frontale.
In un esperimento successivo i ricercatori hanno testato ancora i soggetti su un tapis roulant, da fermi o in movimento. I partecipanti eseguivano, tra l’altro, esercizi di calcolo e un test linguistico. Chi correva commetteva molti più errori nel calcolo, ma non nel test verbale. In generale la loro performance durante l’esercizio fisico peggiorava solo durante le attività che impegnavano la corteccia prefrontale – una regione molto importante per la memoria di lavoro e per la capacità di concentrazione. L’atto di correre o di pedalare non influiva, al contrario, sull’intelligenza generale o su quella verbale, meno dipendenti dall’attività della corteccia prefrontale.

In principio era il flusso
Il fenomeno del flow, o flusso, è stato descritto per la prima volta nel 1975 dallo psicologo statunitense Mihály Csikszentmihályi. Oggi questo concetto si applica anche ad altre attività, non solo di tipo sportivo. Questa condizione si determina con maggiore facilità nell’esecuzione di esercizi che presentano un livello di difficoltà medio, né troppo basso né troppo elevato. Già Csikszentmihályi definiva il flow come uno stato di «dipendenza positiva» che tuttavia porta con sé il rischio di superare la giusta misura. Molti sportivi percepiscono questo stato come una condizione talmente piacevole che tentano di raggiungerlo sempre, durante l’attività fisica, tanto da essere disposti a superarsi ogni volta.
Dal punto di vista della psicologia dell’apprendimento, la dipendenza da sport si può spiegare, come tutte le altre dipendenze, grazie alla teoria del condizionamento operante. Il soggetto si rende conto ogni volta che lo sport – grazie al flow e al rilassamento piacevole che ne deriva – scaccia le emozioni negative e favorisce il buonumore. Quando, al contrario, si manifestano sintomi di astinenza, i comportamenti derivanti dalle dipendenze vengono mantenuti a causa del cosiddetto rinforzo negativo: la percezione spiacevole scompare non appena si torna a praticare l’attività fisica e il soggetto si sente meglio.
Dilettanti o professionisti, quasi tutti gli sportivi vivono questa esperienza che in sé, naturalmente, non crea alcun problema. Ma quando, di preciso, questa condizione si trasforma in dipendenza E perché quest’ultima si sviluppa solo in pochi individui?
«Nessuno sa dirlo con precisione», risponde Heiko Ziemainz. Molti esperti pensano che, affinché vi sia dipendenza, si dovrebbero riscontrare determinati tratti della personalità. La psicologa Heather Hausenblas, dell’Università della Florida, ha esaminato circa 100 studi sull’argomento, senza però individuare una personalità che predisponga alla dipendenza da sport. Heather Hausenblas sottolinea anche che tutti gli studi sono abbastanza carenti dal punto di vista metodologico. Molti ricercatori, infatti, ipotizzano che la personalità sia uno dei fattori che accrescono il rischio di dipendenza.

Il primo intervento
Spesso occorre tempo prima che si prenda coscienza del proprio problema. E anche a quel punto non si può pensare di modificare da soli il proprio comportamento. Spesso sono solo i problemi fisici a far sì che la dipendenza da sport venga riconosciuta e trattata. «Appena il medico scopre traumi o ferite gravi, dovrebbe subito inviare il paziente in una clinica», consiglia Ziemainz.
Anche Peter W. ha continuato ad allenarsi nonostante il moltiplicarsi degli infortuni e la stanchezza sempre maggiore. Fino a quando non è sprofondato nella depressione. «Una mattina mi sono ritrovato seduto a tavola, a colazione, con le mani che tremavano. E vedevo tutto grigio». Solo allora ha chiesto aiuto. Il suo medico di famiglia lo ha inviato da uno psicologo. Dopo la prima seduta il sospetto era chiaro: dipendenza da sport.
«La mia prima reazione è stata un misto di frustrazione e rabbia – ricorda Peter – ma anche di sollievo. Sapevo che non avrei potuto andare avanti in quel modo ancora per molto». Come in tutti i soggetti affetti da dipendenza da sport, il primo intervento terapeutico prevede il divieto assoluto di praticare attività fisica. «Spesso questo divieto dura circa dodici settimane», spiega Ziemainz. «Ma dipende dal caso individuale».
A poco a poco Peter W. è riuscito a rimettere in ordine la propria vita. «Le persone che mi sono state vicine mi hanno aiutato molto», ricorda. Durante quell’anno e mezzo di terapia, la famiglia e gli amici gli hanno sempre fornito un prezioso supporto. Oggi continua a praticare sport più volte la settimana, ma adegua ogni allenamento alle sue condizioni fisiche e psichiche. «Ho imparato a considerare lo sport per quello che in realtà dovrebbe essere: una sana distrazione».