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 2015  giugno 26 Venerdì calendario

LA VACANZA STANDO FERMI


«Che hai fatto quest’estate?». «Sono stato un mese in Val Gardena». Così rispondeva uno studente universitario a Bologna a chi gli chiedeva delle vacanze. Precisando poi che era di Ortisei e di fatto aveva passato agosto a casa dai genitori. Nel suo caso per risparmiare, come capita a tanti studenti. Per molti però non è questione di soldi: c’è chi da casa non si schioda per liberissima scelta. Oppure chi torna immancabilmente, anno dopo anno, sempre nello stesso posto, eletto a seconda casa dove rifare sempre le stesse cose. O ancora c’è chi prende l’aereo e scavalca confini e oceani verso le mete più esotiche solo per ricercare a migliaia di chilometri quel che ha già tutti i giorni, gli spaghetti nel classico stereotipo di noi italiani. Magari immobile e isolato da tutto ciò che gli scorre intorno, nel comfort standardizzato di un villaggio turistico.
«La gente dice che bisogna viaggiare per conoscere il mondo. A volte penso che se resti in un posto e tieni gli occhi aperti vedrai più o meno tutto quello che puoi incontrare», ha affermato lo scrittore e cineasta statunitense Paul Auster. Che condivida questa visione, o che lo faccia per scarsa curiosità, ritrosia verso il nuovo, attaccamento alle radici domestiche, o per un semplice desiderio di riposo dopo un anno estenuante, il turista abitudinario, o pigro, è una tipologia che resiste al mutare delle mode e dei costumi del fenomeno turistico e della fisionomia dei viaggiatori. Ma non è un fenomeno univoco: come ogni tipo di scelta turistica, alla base può esserci una varietà di impulsi, personali e sociali. Antonio Pascale, scrittore che alle sue idiosincrasie di viaggiatore ha dedicato uno dei suoi libri (Non è per cattiveria. Confessioni di un viaggiatore pigro, Laterza, 2006), esemplifica bene quanto soggettive possano essere le ragioni: «Tutto credo derivi dal mio lavoro: come ispettore ministeriale mi tocca stimare i danni prodotti dalle calamità naturali. Lavoro da 26 anni e viaggio su e giù per l’Italia, spesso mi sono svegliato nel cuore della notte chiedendomi chi sono io e soprattutto dove mi trovo. Poi vedo solo danni e instabilità del territorio e frane imminenti, questo non fa bene all’umore».

Questione di personalità
Un aspetto influente è senz’altro la personalità del viaggiatore, oggi più protagonista che in passato nelle scelte della meta e del tipo di viaggio grazie all’autorganizzazione permessa dal Web, che ha ridimensionato il ruolo delle proposte d’agenzia, come spiega Francesca di Pietro, psicologa turistica e autrice di siti e blog di viaggio.
Con un’indagine on line su 740 viaggiatori di decine di nazionalità, pubblicata su «Turismo e psicologia», Di Pietro ha iniziato a esplorare come la personalità del viaggiatore influenza il modo di organizzare e di vivere la vacanza, in aspetti come le motivazioni, le aspettative, l’immagine di sé in viaggio, la compagnia scelta o il bilancio tra itinerario pianificato e impulso del momento. La personalità è stata valutata non con i classici cinque tratti, ma con i sette fattori dell’Inventario italiano di personalità ITAPI-G: dinamicità, vulnerabilità, empatia, coscienziosità, immaginazione, difensività e introversione.
«Si è visto che certi tratti sono più importanti nel portare a un certo modo di viaggiare. L’empatia e la capacità di immaginazione hanno per esempio il maggior peso sulle aspettative: chi è empatico e socievole, creativo e fantasioso, si aspetta di stringere nuove amicizie e di conoscere una nuova cultura, mentre è meno interessato al relax e solo in parte al divertimento», spiega Di Pietro.
«Una persona molto difensiva, che tende a diffidare dell’altro e a comportarsi con rigidità, sarà tipicamente quella che tende a tenere le situazioni sotto controllo, a non fidarsi, a mantenersi distaccata dal contesto, cercando per esempio un hotel o un ristorante di stile europeo, o preferendo l’auto ai mezzi pubblici, magari con autista. Sarà quindi candidata a divenire il “turista pigro” che cerca di fare sempre le stesse cose, avendo tendenzialmente un’angoscia del cambiamento e una scarsa tolleranza allo stress: ogni esperienza deve confermare la sua aspettativa. L’aspettativa è un concetto centrale nell’esperienza di viaggio, dato che dalla rispondenza dell’esperienza all’aspettativa dipende la soddisfazione».
L’approccio di marketing classico, spiega Di Pietro, è stato finora quello di costruire il sogno di una vita migliore della quotidianità: «Nella vita normale sei l’italiano medio, con il lavoro dalle otto alla cinque, i figli, la routine. Nelle due settimane di vacanza vuoi sentire di esserti meritato un’esperienza di lusso, di livello superiore, che in realtà è quel che meriteresti anche nella vita».

Turisti in carriera
In realtà già in passato le cose non erano così semplici e le esigenze erano più variegate. Ma oggi la società è cambiata, le esperienze di vita sono diverse e cambia più che mai anche quel che si cerca in vacanza. «Specie negli ultimi anni è cresciuta la domanda di qualcosa che ci riporti “alle origini”, a un’esperienza “vera”. Persone anche ricche vogliono andare in una capanna su una spiaggia deserta, o fare trekking in tenda, pur di recuperare il rapporto con quel che abbiamo perso, la natura, lo stupore, il contatto con una realtà differente e “autentica”. Anche nelle città la proposta è “ti faccio fare una cosa come i locali, vivere Barcellona come i catalani, non dall’hotel con vista sulla Rambla”».
«Il turismo è in continua trasformazione», conferma Roberta Maeran, docente di psicologia del turismo all’Università di Padova e autrice del libro Psicologia e turismo (Laterza, 2009). «Quando ho iniziato a studiarlo negli anni ottanta era un fenomeno più stabile, in crescita quantitativa ma con modelli ben definiti. Oggi cambia in continuazione, diventa più complesso. Le persone stanno acquisendo la cosiddetta competenza turistica, una specie di carriera turistica: in passato molti non avevano mai fatto vacanze fino a una certa età, mentre oggi i giovani iniziano presto, quindi le aspettative sono cambiate. Prima inoltre si consideravano le categorie di turisti legate a variabili demografiche e socioeconomiche, soprattutto alla classe sociale, ma oggi queste distinzioni reggono poco. L’aspetto che più conta è lo stile di vita, che è trasversale. Il reddito conta meno come fattore distintivo: uno magari risparmia tutto l’anno per avere quelle due settimane di vacanza simile a quella di chi ha un reddito più alto».
Anche perché in passato la vacanza era prima di tutto relax, recupero delle energie, ed era del tutto legittimo farla restando a casa; e comunque la soddisfazione era in primo luogo un fatto personale, che scaturiva dal confronto fra l’aspettativa e il vissuto: «riesco a ottenere quel che mi gratifica per come sono io». Oggi invece la vacanza è diventata, molto più di quanto già non fosse, uno status symbol da ostentare, e la soddisfazione dipende in modo cruciale dal confronto con gli altri. «La faccio perché la fa il gruppo di pari in cui voglio sentirmi integrato, e mi gratifica se ho ottenuto quanto o più del mio amico. Anche se io spendo 100 e lui ha fatto lo stesso viaggio con 80 sono meno soddisfatto, non solo per i soldi, ma perché lui ha dimostrato più abilità organizzativa», dice Maeran.
Questa trasformazione non risparmia nemmeno il turista riluttante o il non turista, fino ai casi clamorosi dei cosiddetti turisti-talpa: «Quelli che dicono “parto per otto giorni” e in realtà non si muovono da casa. Ma la casa è chiusa, ermetica, e loro fingono di essere andati chissà dove. Chiaramente non sono molti, ma ci sono. E oggi con Internet è molto più facile: possono tranquillamente mostrare la stanza d’albergo dove sarebbero stati», spiega Maeran.

Solide abitudini
Duro a cambiare è però il turista abitudinario: una persona per cui la questione del dove andare è meno importante rispetto ad aspetti come la possibilità di rilassarsi in un certo modo, con certe sicurezze, che in età avanzata includono magari anche la disponibilità di servizi sociosanitari come ospedali
e farmacie. «Ma non bisogna pensare che siano tutti anziani: ce ne sono anche di giovani. E in generale prenotano sempre lo stesso posto, magari ogni anno nello stesso periodo, così da incontrare le stesse persone, e a volte addirittura chiedono la stessa camera dove sanno che il letto è in quella posizione; si arriva a vere esasperazioni. Si cerca una stabilità con un minimo di cambiamento: è importante non restare a casa, passare magari dall’afa della città all’aria di montagna, ma fuori da questo evitare altre novità. E c’è davvero poco contatto con l’ambiente, lo scenario è di scarso interesse», dice Maeran.
Aggiunge Di Pietro: «Il turista abitudinario è una persona seriale che non cerca esperienze ma conferme e rassicurazioni. Se tutti gli anni prende lo stesso hotel a Ischia e trova sempre le stesse attività, questo lo rassicura. E lo tiene ancorato a esperienze positive del passato: spesso incontro persone che mi dicono “sono stato troppo bene, ci torno l’anno prossimo”. Ma anche questo è un rischio: magari la seconda volta va male, perché ti sei creato un’aspettativa molto alta, e nel ricordo hai idealizzato quel che avevi vissuto».
C’è poi chi l’abitudine la ricerca non nel luogo in sé ma nell’esperienza, inseguendo in qualsiasi angolo del mondo le stesse cose che ha a casa. «Fino a un certo punto è stata un’offerta vincente, con i classici villaggi turistici che in capo al mondo ti davano il caffè espresso e gli spaghetti. Oggi nei giovani e nelle persone di mezza età la cosa va meno, perché si vogliono sperimentare novità, piatti locali e via dicendo, un po’ per gusto e un po’ per moda», spiega Maeran.

La scala dei bisogni
Ma questa apertura alla novità si può leggere anche in ottica meno lusinghiera. La cucina etnica che un tempo bisognava andarsi a cercare nei paesi d’origine, o perlomeno a Londra, adesso si trova senza sforzo in tante città; è meno esotica, meno nuova. L’apertura al nuovo potrebbe anche dipendere, in parte, dall’omologazione che lo rende di fatto più familiare: «Vado in capo al mondo a mangiare il kebab che ho sotto casa».
Il progredire nella carriera turistica si può leggere anche secondo la classica gerarchia dei bisogni di Maslow, la piramide che illustra i cinque livelli successivi di bisogni che una persona deve soddisfare per realizzarsi, passando dai più basilari, necessari alla sopravvivenza, ai più sofisticati, legati alla soddisfazione sociale. «Alle prime esperienze si vogliono gratificare i bisogni fisiologici e di sicurezza: è vacanza se c’è tanto da mangiare. Nelle prime vacanze per anziani organizzate dai Comuni non importava dove fossero, ma che ci fosse tanto cibo, e il relax. Che fossero soddisfatte insomma le esigenze di base. Ora il cibo resta importante, ma non nella quantità: conta invece che sia cibo esotico, con certe caratteristiche, che diventi un momento di integrazione (soddisfacendo quindi il bisogno di appartenenza), di ostentazione e di autorealizzazione», spiega Maeran.
Naturalmente non tutti percorrono questa gerarchia. C’è chi resta legato ai primi bisogni: anche se ha alle spalle vent’anni di una stessa esperienza, comunque è questa che lo gratifica. «Ma se prima questo era il modello dominante, ora diventa una fascia sempre più ristretta. Oggi è vacanza se è piena di attività. Non mi riposo per recuperare le energie, anzi, devo tornare più stanco di prima, devo fare di tutto. Tutto quello che durante l’anno faccio poco o saltuariamente. Fino a pochi anni fa uno rientrava dalle vacanze e ricominciava semplicemente la solita vita. Oggi a settembre il problema all’ordine del giorno è come gestire il rientro dalle ferie, non si parla d’altro. Sembra che la vacanza sia un’esperienza traumatica da cui riprendersi con i consigli del TG, cosa che non ci sognavamo minimamente qualche anno fa: è un chiaro bisogno indotto», denuncia Maeran.

Combattere l’insicurezza
Non bisogna credere, comunque, che esista un «viaggiatore pigro» tipo, con una sua fisionomia univoca. Lo rimarca Lucia Zanuttini, che ha insegnato psicologia del turismo all’Università di Udine. «Le variabili in gioco sono sempre molte, non si può classificare con nettezza un tipo di viaggiatore o un altro in base alle scelte di viaggio. Una stessa meta o uno stile di viaggio possono essere dettati da esigenze e approcci diversi».
Il villaggio, per esempio, a suo parere non è fondamentalmente per persone pigre o per persone esauste che cercano una pausa, ma per chi sente un bisogno di sicurezza, dettato da fattori culturali ed educativi più che dalla personalità. «Per certi aspetti il villaggio somiglia a una prigione, il cui interno è però uno spazio di libero movimento. Spesso ci sono grossi limiti di uscita; in certi posti o ti portano fuori gli organizzatori o non puoi andare in giro. Ma dentro, al contrario, hai la libertà più totale: puoi andare dove ti pare, mangi e bevi quanto vuoi senza portafogli, tanto è tutto compreso, o comunque è messo in conto senza dover pagare al momento.
Anche se in realtà anche dentro si trovano limiti a volte notevoli di cui non ci si rende conto perché non sono esplicitati. Le stesse strutture architettoniche spesso condizionano i comportamenti: come sono distribuite le stanze, strutturati i luoghi di ritrovo, il numero di persone che possono stare insieme a tavola, condizionano il modo di vivere la vacanza. Quindi il villaggio risponde al bisogno di sicurezza – di non essere scippato o accoltellato e di un certo livello di comfort – di persone che possono essere culturalmente condizionate all’insicurezza e alla paura, per esempio dalle “emergenze sicurezza” fomentate di quando in quando. Questo ovviamente va a scapito delle esperienze umane, che nel villaggio sono artefatte: non incontri la popolazione del luogo se non in eventi che inscenano tradizioni locali in modo falso».

Una nuova identità
Ma il villaggio non è solo vita semplificata. «Certo, chi ha bisogno di emozioni forti non va lì, si organizza una vacanza piena di imprevisti, scala la montagna, va nel deserto. Ma non per questo possiamo dire che chi va nel villaggio è “introverso”, termine tecnico che indica una persona che è eccitata di suo e non ha bisogno di essere stimolata dal di fuori con esperienze forti. Nel villaggio di solito si è invitati a partecipare a un sacco di sport e attività varie, e magari per non essere il tipo strano puoi essere praticamente costretto a “essere animato” a prescindere che tu ne abbia voglia o no. Quindi chi frequenta il villaggio ha bisogno di tranquillità o di eccitazione? Può esserci pigrizia nell’organizzazione, ma non nello svolgimento della vacanza in sé», osserva Zanuttini.
Chi è davvero pigro, a suo parere, sceglie invece la seconda casa o la casa affittata nel luogo tranquillo che si ripete ogni anno. Ma anche qui possono entrare in gioco tanti fattori emotivi. Per esempio i ricordi, propri e altrui, che nella scelta di una vacanza hanno grande rilevanza. C’è un certo ottimismo della memoria, una tendenza a non ricordare i disagi e le cose negative, ma soltanto quelle positive, e si torna nello stesso posto per ritrovarle. Può esserci un legame che dura addirittura dall’infanzia, e magari tornare soddisfa un bisogno di recuperare qualcosa che si è avuto e ora non si ha più; è un modo di salvare i ricordi, tornare a coltivare alcuni aspetti sfioriti della propria identità. Mentre per converso, sottolinea ancora Zanuttini, chi va in luoghi esotici a volte è mosso dall’esigenza di coltivare aspetti della propria identità mai sbocciati, esprimere una parte dell’immagine di sé che possiede e che non è riuscito a sviluppare completamente; in vacanza non siamo più legati alla realtà quotidiana che ci viene in una certa misura imposta, possiamo inventarla noi stessi, creandoci così un’identità nuova.
E poi, a vederla in positivo, un abitudinario può anche essere una persona più in pace con se stessa. In un’era in cui la vacanza non è vacanza se non è zeppa di attività, e non si viaggia per recuperare le energie ma per tornare più stanchi di prima, il turista pigro può apparire quasi come un eroe: impassibile alla corrente dominante e fedele solo alle proprie personali preferenze.