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 2015  giugno 26 Venerdì calendario

IL PRESIDE SERVE ASSOLUTAMENTE

[Intervista a Paola Mastrocola] –
«Sì, mi piacerebbe avere un capo, come in tutti i lavori. Le pare un’idea così strampalata?». Parlare di scuola con Paola Mastrocola, scrittrice di successo, ma insegnante autentica in quel di Chieri (Torino), nella sezione scientifica del liceo Augusto Monti, parlare di scuola, dicevamo, con questa torinese, classe 1956, significa rifuggire il politicamente, anzi il sindacalmente corretto, e stare sulla concretezza dei problemi.
Domanda.
Professoressa, non si è ancora spenta l’eco dell’indignazione contro il preside-sceriffo, previsto nella riforma della scuola, e lei invoca il «capo»?
Risposta. A me pare impossibile il contrario.
D. Vale a dire?
R. Insomma in tutti gli ambienti di lavoro c’è questa figura del capo. Prenda un ospedale: c’è un primario che guida medici e infermieri, che gli sono sottoposti, perché tutto funzioni.
D. L’ho sentita parlare con nostalgia di quei presidi che, a sorpresa, entravano in classe e ascoltavano la sua lezione. Quando tutta la scuola si ribella agli esorbitanti poteri del capo di istituto. Sarebbero limitativi della libertà di insegnamento.
R. Ma quella non c’è più, da tempo.
D. Prego?
R. Ma sì, non siamo più liberi ma non certo a causa dei presidi. Ci sono direttive europee, neanche più italiane, che impongono alla scuola verifiche di competenze, test a cui nessun insegnante, singolarmente, è in grado di opporsi. Insegniamo ciò che serve a raggiungere gli obiettivi dei test.
D. Addio libertà?
R. No, poi la libertà di insegnamento ognuno se la prende, e fa solo bene, una volta chiusa la porta di classe. E ci mancherebbe. Semmai la vera libertà che nessuno dovrebbe potersi prendere è un’altra.
D. Quale?
R. Quella di non svolgere il programma, di non insegnare bene.
D. Qual è il problema, professoressa?
R. Che nessuno ha un ritorno di quello che fa, che faccia bene o male, che faccia Dante o no, che legga i giornali o spieghi letteratura.
D. Con quali conseguenze?
R. Qualsiasi scelta compia un insegnante, non è senza conseguenze, può causare danni irreparabili agli studenti. Le faccio un esempio.
D. Meglio.
R. Insegno al biennio dello scientifico e, ogni anno, quando arriva una nuova prima classe, incontro ragazzi che non sanno parlare, non sanno scrivere, non sanno capire quello che leggono. E hanno già otto anni di studio alle spalle. A quel punto facciamo i corsi di metodo di studio, per imparare a studiare. Ma le pare? Non si poteva insegnarglielo prima, a studiare, semplicemente facendoli studiare?
D. Torno, se permette, sulla parola «capo», da lei usata. Si rende conto che è indicibile, vero?
R. Lo so. Eppure un capo che fosse tale, farebbe una cosa importante, come distinguere fra chi lavora meglio e chi lavora peggio.
D. Oggi non accade.
R. No, e non mi chieda perché. Forse perché dobbiamo essere tutti tenuti a bagno in questa palude piatta, in cui, emergendo qualcuno, l’altro potrebbe sentirsi affondato.
D. Scusi ma lei, con queste idee, non ha mai avuto problemi nelle scuole in cui ha insegnato e insegna?
R. Be’, nel 2004, quando uscì La scuola raccontata al mio cane (Guanda), alcuni colleghi la presero malissimo, ci fu una mezza sollevazione nella mia scuola. Adesso va un po’ meglio, forse si sono abituati. E comunque, sa, non sono sola, almeno il 20-30% dei docenti in Italia la pensa così.
D. Una minoranza robusta...
R. Sì, non saremmo pochi alla fine. È che non scioperiamo mai e, quindi, non facciamo testo. La nostra è una ribellione molto silenziosa...
D. Torno al preside, anzi al dirigente scolastico, come si vuole che si dica...
R. Anche questa è una cosa curiosa: si vuole un dirigente ma che non diriga. O meglio...
D. O meglio?
R. Che diriga nelle pulizie, nell’edilizia, nella burocrazia, lì ci va bene. Ma che non diriga altrove, per carità!
D. Lei in passato l’ha detto apertis verbis: un pensiero che è figlio di una certa deriva sindacale.
R. Sì e credo che non sia finita. Il sindacato non demorderà perché il posto fisso, garantito per tutti, è il mantra ricorrente. Ma così, davvero, non ne verremo fuori. Non si vuole vedere.
D. Che cosa?
R. Basta spostare il punto di vista sulla cosiddetta utenza, cioè le famiglie: è evidente che un insegnante che insegni male o non insegni affatto produca un danno irreversibile nella vita di un ragazzo. Perché quello che non impara ora, quel giovane, non lo impara più. E avrà quindi una vita lavorativa peggiore, a seconda di quali insegnanti abbia incontrato nella sua carriera scolastica. Possibile che i sindacalisti non abbiano figli? Possibile che non si rendano conto che l’idea di professori inamovibili, palesemente, non funziona?
D. A una famiglia che incappi in docenti così, non resta che cambiare scuola...
R. Sì, singolarmente ci si arrangia, certo. Ma rimane un disastro per tutti gli altri.
D. Un’obiezione insistita al potenziamento del ruolo dei presidi è quella del vizio italico del clientelismo. Si dice che un dirigente con la libertà di assumere, seppure da un albo di abilitati, sarebbe un disastro.
R. Appunto, da un albo di abilitati; ci sarebbe un concorso, prima, che accerta le competenze. E io comunque non credo a questa obiezione, che varrebbe per qualsiasi ambito professionale: il preside che mettesse a lavorare persone che non funzionano per il solo fatto che sono amiche o parenti, la pagherebbe. Studenti e famiglie si ribellerebbero, cambierebbero scuola: c’è sempre e comunque un controllo sociale.
D. Meglio adesso, col terno a lotto: a insegnare arriva chi arriva?
R. Qui si è per il lavoro garantito per tutti. Capisco, per carità. Ma allora cambiamoglielo questo lavoro: se uno non sa insegnare, potremmo trovargli altre occupazioni all’interno della scuola, altrettanto importanti e utili, in Italia siamo abilissimi a inventarci funzioni. No, il punto è un altro.
D. Quale, professoressa?
R. È che ci si oppone a che gli insegnanti siano rivalutati culturalmente e non solo per via burocratica. Anzi sa cosa le dico?
D. Dica.
R. Tutto questo ragionamento sul ruolo del preside mi spaventerebbe un po’ se il dirigente rimanesse quello che è oggi, ossia un burocrate.
D. Ieri, non era così?
R. Nella mia lunghissima carriera ho conosciuto presidi che erano intellettuali veri, studiosi, ognuno nell’ambito della propria disciplina, alcuni scrivevano anche libri o articoli. Insomma, erano personalità di rilievo. Perché vede, essendo la scuola un luogo di cultura, io credo che dovrebbe essere affidata a persone di cultura.
D. E invece?
R. E invece le scuole sono sempre più parcheggi, zone di intrattenimento, e di aiuto psicologico.
D. Welfare per gli insegnanti....
R. Certo. Soprattutto c’è l’idea che ai ragazzi debbano essere offerte più ore, più materie, più opzioni extracurricolari e personalizzate, tutta roba che non ha niente a che fare con la cultura in senso stretto. Importa sempre meno una istruzione profonda, seria, elevata: di base. Ecco, io temo una cosa.
D. Vale a dire?
R. Che oggi il preside di cui sopra, quello che potesse scegliere i docenti, finirebbe per orientarsi non sui più bravi, ma su quelli disposti a fare più ore, a partecipare a più commissioni, ad assisterlo nella pratiche funzionali. Ma, insomma, questo di cui discorriamo, lei ed io, è un puro esercizio accademico.
D. In che senso?
R. Tutto questo non ci sarà. Il governo ha fatto marcia indietro sul potere ai presidi.
D. Sì, ha annunciato un ripensamento ma forse, nel frattempo, ci sarà un ripensamento del ripensamento.
R. Si parla di un comitato composto da genitori, studenti e altri docenti che lo affiancherà.
D. Un pasticcio...
R. Sì, ma è grave. Ecco, vede, lo scriva: io l’ultima cosa che vorrei è essere giudicata dai colleghi. Magari mi valutano proprio i tre colleghi a cui sto più antipatica....
D. O dai genitori...
R. Genitori di altre classi, già: che cosa ne saprebbero di come insegno?
D. La valutazione dovrebbe essere terza per definizione.
R. La valutazione è il problema: su questo cadono i ministri e anche i governi, talvolta. Come debba essere fatta nessuno lo sa. Io credo che istituire un ispettorato vero, con funzionari che girino le scuole, potrebbe essere un’idea. Perché non crederà mica che sia difficile capire se si insegna bene o no, vero?
D. Assolutamente no. Un tempo i presidi esercitavano una certa moral suasion.
R. Ah certo. Se un docente non funzionava, un buon preside qualche modo lo trovava per persuaderli ad andarsene. Giustamente, aggiungo, perché un capo d’istituto deve tenere alla qualità di una scuola. Prima, infatti, il preside cercava anche di valorizzare i docenti più bravi; magari, chessò, li incaricava di tenere conferenze, o di introdurre lo scrittore che veniva a presentare un libro. C’era un sistema, insomma, per far emergere la qualità. C’era, soprattutto, una qualità culturale cui si teneva molto.
D. Professoressa, diciamolo, tutto questa allergia al capo, sarà pure una resistenza corporativa, ma ha dentro molta di quell’ideologia respirata da un generazione, che oggi è in cattedra. Ed è quella che ha contestato storicamente il principio di autorità.
R. Sì, questa ideologia, che nasce dal Sessantotto, ha permeato tutti gli ambiti della società, inclusa la famiglia. Oggi il concetto stesso di autorità non si può neppure evocare: si viene fucilati a vista.
D. Diceva anche nella famiglia...
R. Coi figli succede la stessa cosa che con gli allievi. Non si deve più ordinare niente, e se il ragazzo non fa, pazienza. Il problema è che non abbiamo la convinzione di quello che richiediamo. Fatichiamo a imporre qualcosa. C’è una debolezza della volontà. Eppure ci sarebbero imposizioni giuste, educative, di cui i ragazzi hanno grande bisogno. Noi adulti dovremmo indicare una strada, anche perché qualcuno poi decida di non percorrerla, di deviare. Ma senza indicazioni, come si può fare?
D. Lei ringrazia la severità dei suoi genitori e dei suoi insegnanti?
R. Moltissimo. Ai miei bastava un’occhiata, un tono di voce, non c’era bisogno di andare oltre. La severità degli insegnati poi è preziosa. Invece prevale questa idea strampalata che siamo tutti uguali, tutti alla stessa altezza e, peggio, tutti della stessa età. È grottesco che un insegnante o un genitore si metta alla pari di un ragazzino di otto anni! La maestra che si fa dare del tu, che si fa chiamare Roberta, ma via...! Eppure a fare questi discorsi si viene bollati come retrogradi, fuori tempo.
D. Professoressa, quando la intervistai, alcuni mesi fa, lei ricordò che l’allora sindaco Matteo Renzi presentò a Firenze, con entusiasmo, il suo libro Togliamo il disturbo, e aggiunse che ora gli sembrava, da premier, di non riconoscerlo. Sulla scuola l’aveva convinta?
R. Certo che mi aveva convinta. Mi era parso che avessimo le stesse idee. Ma forse mi ero sbagliata. Sinceramente sulla scuola oggi non vedo nulla dei discorsi di Renzi del 2011. Spero che sia solo un inizio, che per il momento si sia dedicato solo agli aspetti gestionali e occupazionali della scuola. Lo aspetto sui temi culturali.
D. Sui contenuti, lei dice.
R. La vera riforma dovrà pronunciarsi su che cosa insegnare. Teniamo tutto o qualcosa cade? Il latino nei licei: lo aboliamo o fingiamo di insegnarlo ancora, visto che ne è stato ridotto l’orario e che dobbiamo fronteggiare la sfida di Internet, per cui i ragazzi trovano tutto già fatto e copiano?
D. Quella del latino obbligatorio è una sua antica battaglia.
R. Vorrei che si facesse davvero, senza finzioni. Vorrei che il latino fosse obbligatorio per tutti, fino a sedici anni. Significherebbe dare un aiuto vero ai ragazzi delle famiglie più svantaggiate: non sarebbe affatto un’operazione elitaria, anzi, tutt’altro!
D. Non solo per dare un’istruzione solida, ma perché è propedeutico allo studio delle lingue, tema che tutti intenderebbero benissimo...
R. Ma certo. Il latino è propedeutico a qualsiasi studio, perché è, in generale, un fantastico aiuto alla logica, al pensiero, al ragionamento. Quindi anche alle lingue, ovviamente. Dovrebbe essere la base costruttiva di ogni tipo di istruzione, anche tecnica, anche manuale.
D. Anche per fare il falegname?
R. Un ragazzo poi può andare a fare l’ingegnere o il falegname, ma almeno ha le basi logiche per sempre, per capire, per leggere i libri e il mondo, per esprimere con proprietà le sue idee. Ma ci vorrebbe coraggio a dire questo, in una riforma. Il coraggio delle idee magari controcorrente. Renzi, che vuol cambiare verso, potrebbe averlo questo coraggio. O no?
Goffredo Pistelli, ItaliaOggi 26/6/2015