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 2015  giugno 26 Venerdì calendario

Notizie tratte da: Carlo Ferrucci, La mina tedesca. Il vero romanzo di Giaime Pintor, Tra le righe libri 2015, pp

Notizie tratte da: Carlo Ferrucci, La mina tedesca. Il vero romanzo di Giaime Pintor, Tra le righe libri 2015, pp. 230, 12,75 euro.

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Il tenente Giaime Pintor nato alla fine di ottobre del 1919 da padre musicista e da madre scrittrice in un palazzo umbertino di Via Alessandria 26 a Roma, a poche decine di metri dalla breccia di Porta Pia.

Congedato col grado di Sottotenente dal corso per Allievi Ufficiali seguito a Salerno nell’estate del 1938.

Non ancora ventunenne e fresco di laurea era stato richiamato in servizio nell’estate del 1940 subito dopo lo scoppio della guerra. I primi sei mesi li trascorse tra una caserma a Perugia e un accampamento in Liguria, al confine con la Francia.

Suo zio Pietro Pintor, generale di Corpo d’Armata, morì in quei giorni in un incidente aereo nei pressi di Aqui.

Il Ministero della Guerra ritenne dunque giusto risarcire la famiglia Pintor della perdita del generale, destinando Giaime non più alla Iugoslavia dove si accingeva ad andare con il suo reggimento di Cacciatori delle Alpi, bensì a Torino, all’Ufficio Cifra della Commissione Italiana di Armistizio con la Francia, di cui suo zio era stato presidente.

A Torino Giaime, già traduttore di poeti tedeschi e critico letterario preparato, divenne consulente dell’editore Giulio Einaudi.

All’inizio del 1943 Giaime Pintor venne trasferito presso la missione militare italiana a Vichy, la capitale francese filotedesca.

Giaime era quasi completamente calvo. Aveva un’aria da adulto sicuro di sé. Nessuno gli avrebbe dato i suoi ventitré anni.

Rientrò dalla Francia nelle stesse ore in cui Mussolini veniva arrestato. Cominciavano i 45 giorni del Governo Badoglio, seguiti dall’armistizio con gli angloamericani, la fuga del re e del suo primo ministro.

Il generale Carboni, uno dei più alti ufficiali meno fascisti di tutto l’esercito. Nominato comandante del Corpo d’Armata speciale responsabile della difesa di Roma.

Nella notte tra l’8 e il 9 settembre 1943 il generale Carboni aveva ordinato di distribuire ai cittadini delle pistole per difendere Roma dall’attacco dei tedeschi, diventati da alleati nemici.

Nel tardo pomeriggio del 10 settembre 1943 Giaime si trovava a Piazza Colonna, in una mano il tricolore e nell’altra una grossa pistola. Aspettava i capi dei partiti antifascisti che dovevano tenere un discorso ai romani.

Giaime seppe poco dopo che il maresciallo Caviglia aveva firmato a Frascati nelle prime ore del pomeriggio la resa nella sede del Comando tedesco.

Mancanza di ordini chiari, inettitudine e boicottaggio di troppi alti ufficiali italiani.

Il capo della polizia fece sequestrare una parte delle armi che il generale Carboni aveva messo a disposizione dei civili romani.

Badoglio aveva fatto sapere che gli angloamericani sarebbero presto arrivati vicino a Roma, paracadutati sull’aeroporto del Littorio o sbarcati ad Ostia. Correva invece voce che stessero sbarcando in forze a Salerno.

Quello che la gente si chiedeva era come il re Vittorio Emanuele e il primo ministro Badoglio, con il loro seguito visibilissimo di macchine reali, fossero riusciti ad uscire da Roma indisturbati percorrendo la via Tiburtina e dirigendosi verso l’Adriatico, senza essere fermati dai tedeschi. Si trattava forse di un accordo?

Giaime Pintor aveva due sorelle e un fratello, tutti più piccoli di lui. La più giovane Antonietta e la più grande Silvia, amante dei bambini, altruista e molto generosa. Giaime l’aveva soprannominata Carlotta come la protagonista dei Dolori del giovane Werther e “la santa”. Il fratello Luigi aveva quasi diciotto anni. La madre di Giaime portava i segni di una tubercolosi da cui tardava a guarire. Aveva lo stesso naso aquilino, lo sguardo brillante e la passione per la letteratura del suo primogenito. Il fratello della mamma, lo zio Valentino, era un funzionario dell’Istituto Internazionale dell’Agricoltura, fascista da sempre.

I tedeschi avevano pensato di avere il diritto di occupare Roma per il fatto che l’Italia, bombardata e invasa, aveva firmato un armistizio con gli anglo-americani.

«Il tuo Mussolini, sì. Il tuo grand’uomo, che ha trascinato gli italiani in una disastrosa guerra di aggressione che loro non sentivano e per la quale non erano militarmente attrezzati, come lui ben sapeva perché fior di generali, compreso il generale Pintor, a cui né lui né tantomeno te sareste stati degni di pulire le scarpe, glielo avevano detto in faccia», disse Giaime allo zio Valentino. «Se non è stato tradimento questo, anzi, mi correggo, se non sei d’accordo con tutti noi di questa casa che la decisione di Mussolini di gettarci in una guerra che potevamo solo perdere è stato il primo e il più tragico dei tradimenti, allora guarda, la strada la conosci» concluse in tono gelido, indicando verso l’ingresso «di là c’è la porta».

La radio tedesca continuava ad annunciare che a Salerno gli angloamericani erano stati ricacciati in mare.

A Cagliari Giaime Pintor aveva trascorso parte della sua infanzia e adolescenza.

A Tripoli era stato ospitato alla fine dell’estate del 1937 dallo zio generale.

Il Ministro della Guerra, il generale Sorice, era stato l’unico ministro militare italiano a non scappare insieme al re e a Badoglio. Si diceva che dovesse la sua nomina recente alla raccomandazione dell’amante di Mussolini. Era molto amico anche della principessa Colonna.

Giaime al ministero della Guerra prestava servizio nell’ufficio addetto al collegamento con i Comandi tedeschi dislocati in Italia.

Il comunicato emanato dal generale Caviglia e da Kesselring riportava i termini della resa: le truppe tedesche sarebbero rimaste fuori dalla città libera di Roma, limitandosi ad occupare la sede della loro ambasciata, la stazione di Roma I e la loro centrale telefonica. Comandante della città aperta di Roma era nominato Calvi di Bergolo, che avrebbe dovuto garantire l’ordine pubblico con una divisione di fanteria la “Piave”. Tutti i ministri del governo Badoglio sarebbero rimasti in carica.

Per Giaime questo comunicato era assolutamente inverosimile. La “Piave” tra l’altro era ridotta a soli quattro battaglioni. Più probabilmente i tedeschi avrebbero puntato ad assumere al più presto il controllo totale di Roma.

Roma era nella sostanza già completamente in mano ai tedeschi che facevano scoppiare ovunque bombe a scopo intimidatorio. Cinque divisioni italiane erano sopraffatte da due sole divisioni tedesche.

A Via Nazionale venne ucciso dai tedeschi un carabiniere che non voleva farsi disarmare. Poco dopo in Via del Gazometro erano stati ammazzati dai tedeschi altri carabinieri che si erano rifiutati di consegnare le armi.

Kesselring aveva cominciato a spostare i suoi carri armati verso Sud per contrastare l’avanzata degli Alleati.

I battaglioni della “Piave” sfilarono in pieno assetto di guerra per via Nomentana e corso d’Italia diretti a Villa Borghese, applauditi dai romani che speravano nella loro protezione.

Il 19 luglio 1943 un bombardamento alleato sui quartieri Tiburtino e San Lorenzo aveva provocato la morte di migliaia di romani.

Sotto i portici di Piazza Esedra seduto al tavolino di un bar con l’amica Filomena, Giaime assistette all’assassinio di un uomo che, avvistati tre militari tedeschi, decise di fuggire e di non fermarsi. «Se fosse riuscito a inoltrarsi nel portico e a proseguire la sua fuga mescolandosi ai passanti che vi si erano fermati a osservare la scena, forse l’avrebbe fatta franca; solo, non aveva previsto che fra l’“Alt!” intimatogli dal maggiore, che ora sì l’aveva sentito e si era girato, e la raffica partita dall’arma di uno dei due soldati, potesse passare un tempo così maledettamente breve, non più di un paio di secondi».

Giaime Pintor era convinto che al contrario degli italiani, i tedeschi erano molto sicuri di sé quando si trovavano in gruppo, ma completamente persi nel momento in cui dovevano prendere delle decisioni da soli.

«Non siamo tanto più poveri quanto più siamo al sicuro, tanto più ricchi quanto più siamo esposti al pericolo? Non ci si deve esporre sempre di nuovo?» [Hugo von Hoffmannsthal, Pazzo e la morte].

Giaime Pintor aveva deciso di partire per la Campania dove gli angloamericani stavano effettuando un grosso sbarco e andare più giù, fino a raggiungere il re e Badoglio. Le ultime notizie li davano a Brindisi. Il piano era di non viaggiare sulla linea diretta Roma-Napoli probabilmente più battuta dalle truppe tedesche e anche più bombardata dagli Alleati, ma di passare dall’interno attraverso l’Abruzzo per poi scendere fino ad Avellino e da lì più a Sud.

«Perché se i tedeschi, nelle loro divise mimetiche di un marrone tendente al rossiccio, fronteggiavano la folla che si accalcava agli ingressi della stazione con la tranquilla sicurezza dei padroni di casa, come se in quelle divise e in quel convulso via vai di centinaia di persone ci fossero nati e cresciuti, gli italiani, al contrario, giravano qua e là nel loro più dimesso grigioverde con l’aria umiliata, confusa e provvisoria di ospiti poco graditi, messi lì a far numero e incapaci di trovare il proprio posto».

Nelle stazioni le uniche divise italiane che si vedevano erano quelle dei ferrovieri.

Manifesti della Kommandantur appesi in giro per Roma avvertivano ufficiali e soldati italiani che se si fossero opposti “agli ordini germanici”, sarebbero stati “fucilati senza pietà come franchi tiratori”.

Sul treno, due tabaccaie di Tagliacozzo cantavano con malinconia i primi versi dell’inno fascista: Salve, o popolo di eroi, / salve, o patria immortale! / Son rinati i figli tuoi / con la fé nell’ideale. / Il valor dei tuoi guerrieri, / la virtù dei pionieri, / la vision dell’Alighieri / oggi brilla in tutti i cuor.

Sul treno, un sergente di Sulmona che tornava a casa, dopo aver visto molti suoi compagni morire il 9 e il 10 settembre, dopo l’armistizio: «Ma anche prima, a luglio, quando è finito il fascismo, che crede, signor tenente mio, che lì per lì non l’abbiamo pensato, in tanti che avevamo combattuto, e perso, quasi sempre, per tre anni filati, che sarebbe stato logico che anche la guerra, con tutte le sue morti, finisse, pure lei male, ormai, ma finisse, porco demonio? Visto che si era capito fin dall’inizio che si trattava di una guerra per la guerra, fatta per non restare indietro ai tedeschi, che tutto il resto, la demoplutocrazia, le catene inglesi nel Mediterraneo, il bolscevismo, insomma tutta quella roba lì, erano solo spauracchi buoni per i fessi, e che la Francia, l’Inghilterra, la Grecia e la Russia, non c’erano davvero motivi per combatterci contro?». «Tanto che alla fine di giugno del Quaranta, a meno di venti giorni dalla dichiarazione di guerra, con i francesi a bloccarci sulle Alpi, erano già morti quasi quattromila dei nostri, una bazzecola, non è vero, ma tu questo sicuramente non lo sai perché i capi sono stati bene attenti a nascondertelo…».

I morti italiani durante la guerra erano stati di media 250 al giorno.

«Noi abbiamo fatto lo stesso del nostro meglio sin dall’inizio, e abbiam proseguito per trentasette mesi. Ce lo ordinarono e noi ubbidimmo agli ordini. Punto. Ma che abbiano continuato a ordinarci di combattere e morire anche dopo che chi aveva voluto la guerra per la guerra, per tener fede ai suoi paroloni, il signor Duce, il capoccione dei capoccioni, era stati fatto fuori, sparito, kaputt, bè, questo proprio non siamo riusciti a capirlo, ed è stato un brutto rospo da mandar giù».

«Anche se a luglio, mi ricordo, non eravamo stati a pensarci tanto su, all’ordine di non smettere di combattere a fianco dei tedeschi, se fosse giusto o ingiusto, voglio dire, ma lo avevamo subito come un atto di violenza pura, fisica, bestiale un po’ come…come se ci avessero ributtato a calci in culo, mi scusino le signore, in fondo a una galleria simile a quella che abbiamo appena passato ma invasa dal puzzo di montagne di cadaveri invece che dal fumo di una locomotiva, e dopo che noi ci eravamo sentiti già fuori, a respirare finalmente un’aria diversa. Ecco perché, un mese e mezzo dopo, tanti di noi hanno vissuto l’armistizio come lo scatto di una molla troppo a lungo compressa, che quando parte non la può più fermare ness…».

La sera del 26 luglio la gente sventolava per le strade la bandiera italiana, cantava e ballava.

Avezzano, in Abruzzo, era un nodo stradale e ferroviario molto importante. Per questo si era riempito presto di truppe tedesche, un reparto corazzato si era insediato fuori dall’abitato la notte tra l’8 e il 9 settembre.

Alle ore quattordici del 12 settembre Mussolini era stato prelevato dalla sua prigione sul Gran Sasso da un gruppo d’assalto tedesco, con evidente complicità dei militari italiani che lo custodivano.

Giuseppe Pintor, il padre di Giaime, si era trasferito tra il 1919 e il 1920 con la moglie e il bambino di pochi mesi nella cittadina di Sora, dopo essere stato promosso capoufficio di una sezione del Ministeri dei Lavori Pubblici addetta alla ricostruzione dei centri danneggiati dal terremoto del 1915. Nell’estate del 1922 i Pintor erano tornati a Roma.

I tre fratelli di Giuseppe Pintor: un generale del Corpo d’Armata, un altro capo di gabinetto di due ministri e segretario della Cirenaica nel Ministero delle Colonie, e il terzo direttore della biblioteca del Senato.

Giaime Pintor ad un vecchio amico di famiglia, un preside: «Il vecchio stato in cui lei ha fatto i capelli bianchi e io sono cresciuto, la monarchia che ha aperto la strada alla dittatura e accettato la guerra, l’apparato legislativo e la magistratura asserviti al regime, sono ormai talmente screditati agli occhi della maggioranza degli italiani, che è come se non esistessero già più. Al loro posto, avvertiamo solo un odore di morte e un grande vuoto, certificato dalla precipitosa fuga notturna, metà diserzione e metà operetta, del re, del suo primo ministro, di quasi tutti i membri del governo e di tutti, dico tutti, i capi di Stato Maggiore».

I bombardamenti degli angloamericani prendevano di mira le ferrovie, le strade e i ponti per ostacolare l’avvicinamento delle divisioni tedesche verso Salerno e il loro deflusso dalla Calabria. Finivano così per provocare più morti tra i civili italiani che tra i soldati tedeschi.

I tedeschi minavano le ferrovie, le strade e i ponti rimasti in piedi per rallentare gli Alleati, distruggevano depositi di combustibile e riserve alimentari per ridurre al minimo i mezzi di sussistenza del nemico, fucilavano e impiccavano uomini, donne e bambini italiani senza esitazione.

Anche Avellino fu colpita da un bombardamento alleato in quei giorni, inaspettatamente.

Due i tipi di ruberie di quei tempi: la prima, perpetrata solo dai tedeschi, riguardava la razzia di bestiame, soprattutto maiali, e granaglie. La seconda, tedeschi e italiani colpevoli in ugual misura, riguardava i beni non di prima necessità.

Leopardi nel suo Zibaldone scrive che i soldati di ogni esercito dovrebbero unirsi e combattere contro gli ufficiali che li sfruttano quando c’è la pace e li fanno massacrare quando c’è la guerra.

Giaime Pintor arrivò a Brindisi dove prese servizio tra gli Ufficiali addetti al Comando Supremo, nel Castello. Tra costoro era opinione diffusa che gli angloamericani sarebbero arrivati a Roma in breve tempo e da soli. La massima autorità militare italiana in loco, il generale Ambrosio, sosteneva addirittura che la riconquista di Roma sarebbe avvenuta entro Natale.

Badoglio aveva cominciato a lanciare attraverso Radio Bari proclami agli italiani delle zone occupate dai tedeschi, esortandoli ad opporsi con ogni mezzo agli invasori.

Qualche giorno prima, però, i capi della missione militare alleata avevano avvisato Badoglio che i preparativi per la partecipazione delle sue truppe ad operazioni dei guerra in territorio italiano dovevano essere considerate sospese fino a nuovo ordine.

Il ritornello preferito dei militari americani sugli italiani era: italian no better workers than soldiers.

La Puglia era stata ribattezzata “Provincie del Re”. A Bari i partiti antifascisti avevano costituito un Fronte Nazionale d’Azione, ma le autorità italiane si erano opposte all’arruolamento di un corpo di volontari per fare la guerra ai tedeschi.

I militari alleati a Brindisi avevano requisito diversi locali solo per sé.

Quando un militare italiano veniva detenuto in cella di rigore non poteva ricevere visite.

Al Nord si stavano formando dei gruppi operativi collegati via radio con Brindisi. Giaime Pintor chiese invano al Castello di essere inviato in missione al Nord.

«Chi non ha casa adesso non l’avrà. / Chi è solo a lungo solo dovrà stare, / leggere nelle veglie, e lunghi fogli / scrivere, e incerto sulle vie tornare / dove nell’aria fluttuano le foglie» [Rilke, Giorno d’autunno].

Due noti antifascisti erano appena arrivati a Napoli dopo aver incontrato Badoglio. Consegnarono a Giaime un messaggio del filosofo Benedetto Croce, il più autorevole esponente dell’antifascismo meridionale.

Giaime apprese che in due incontri successivi avvenuti a Paestum alla metà di settembre i due emissari e lo stesso Croce avevano prospettato al generale William Donovan, a capo dei servizi speciali dell’esercito americano e amico personale del presidente Roosevelt, l’ipotesi di costituire a Napoli dei reparti di volontari italiani per combattere a fianco degli Alleati. Il generale Donovan aveva poi inviato al generale Clark, comandante della Quinta Armata, un promemoria sull’organizzazione dei gruppi operativi previsti dal progetto.

I promotori dell’iniziativa avevano deciso insieme al Comando americano di affidare al generale Giuseppe Pavone, noto antifascista, il reclutamento dei volontari e la responsabilità del loro impiego in azioni di guerra.

Il 24 settembre a Capri era nato un comitato politico-militare, chiamato Fronte Nazionale della Liberazione.

Croce intanto aveva redatto un appello agli italiani e Pavone ne preparava uno per la chiamata dei combattenti, mentre Napoli insorgeva. Il popolo di Napoli era insorto contro i tedeschi, cacciandoli. La vita politica era poi ripresa in modo vivace.

Croce si era convinto che Badoglio avesse stipulato un accordo con gli Alleati sulla partecipazione italiana alla guerra contro la Germania. Badoglio sembrava aver acconsentito al programma di creare un gruppo di volontari da affiancare all’esercito regolare.

«Il fine è l’unità di interessi, la fratellanza; mezzo, la riforma completa degli ordini sociali, operata con la forza» [Carlo Pisacane, Saggio sulla rivoluzione].

Benedetto Croce aveva a Capri una bella casa.

Giaime Pintor partì dunque per Napoli. Al suo confronto Brindisi sembrava una cittadina svizzera. Napoli aveva combattuto i tedeschi per quattro giorni. Mancavano l’acqua, il gas e la luce. L’unica illuminazione notturna era quella dei fari dei mezzi di trasporto. La rete fognaria non funzionava. Quasi introvabili i generi alimentari di prima necessità. Inesistenti i trasporti pubblici e i collegamenti telefonici e telegrafici. Inoltre, non erano ancora finiti i bombardamenti alleati e in più erano cominciati da terra e dall’aria quelli tedeschi. Il nemico aveva anche disseminato la città di mine. Una era scoppiata nel sottosuolo del Palazzo delle Poste poco prima dell’arrivo di Giaime e aveva fatto decine di morti e centinaia di feriti.

I gruppi di volontari erano stati battezzati Gruppi Combattenti Italiani. In un paio di settimane i volontari erano diventati diverse centinaia ed erano stati alloggiati in alcune caserme della città.

Carlo Pisacane era un socialista rivoluzionario che negli anni ottanta del 1800 sbarcò in Calabria con trecento compagni per aiutare i contadini vittime delle ingiustizie. Repubblicano, non fu capito dalla popolazione che uccise quasi tutti i suoi compagni.

Sant’Agostino ha scritto che il mondo è un libro di cui le persone che non viaggiano leggono solo una pagina.

Il 10 ottobre 1943 le autorità italiane avevano emanato un bando di scioglimento di tutte le formazioni di volontari. Nonostante i Gruppi Combattenti Italia fossero nati da un accordo tra il governo di Brindisi, il Fronte Nazionale della Liberazione di Croce e Pavone e le massima autorità alleate, due giorni dopo il generale Clark aveva dato un segnale vietando la pubblicazione del bando di arruolamento redatto da Pavone. Si temeva infatti che tale notizia avrebbe provocato rappresaglie dei nazifascisti nella parte d’Italia da loro controllata.

Alla fine di ottobre il Comando della Quinta Armata dichiarò che avrebbe provveduto a formare per proprio conto piccole unità di sabotatori e informatori che, anche se italiani, sarebbero stati inquadrati nell’esercito inglese. Avrebbe, inoltre, smesso di rifornire di viveri e vestiario i Gruppi Combattenti Italia. Ne aveva così decretato nella sostanza lo scioglimento.

A Napoli quando comincia il mese si dice che si è sotto un nuovo padrone.

Giaime Pintor decise di aderire insieme ad altri pochi volontari all’invito degli Alleati. Si trasferì nella caserma di Ischia per alcune settimane dove venne addestrato duramente. Esercizi fisici pesanti, armi da usare mai viste e l’uso del complicato cifrario con cui i volontari avrebbero dovuto, una volta attraversate le linee, servirsi per comunicare con le postazioni alleate.

A Napoli erano stati riaperti tre cinema e avevano cominciato a distribuire nuovamente il pane.

Dei cinquecento volontari che si erano presentati per arruolarsi con Pavone, ora ne erano rimasti quindici, forse venti.

La mattina del 29 novembre Giaime Pintor partì con un gruppo di cinque uomini da lui capeggiati. Il giorno prima un attacco di aveva colpito il volontario che avrebbe dovuto guidare la spedizione. Dovevano portare armi e istruzioni ai partigiani che si stavano organizzando nei dintorni di Roma. Vennero accompagnati da due capitani inglesi, Cooper e Salvadori.

Il 30 novembre dopo aver camminato a piedi per trenta chilometri raggiunsero Castelnuovo al Volturno, un piccolo paese in provincia di Campobasso, che ospitava l’ultimo avamposto della Quinta Armata.

Secondo gli Alleati qui i tedeschi erano attestati ancora sulle alture ma più a Sud del luogo in cui i cinque partigiani avrebbero tentato di attraversare le linee.

Giaime e i suoi compagni partirono alle quattro e mezza del mattino da Castelnuovo e percorsero solo qualche centinaio di metri della salita, trovando il sentiero sbarrato da un tronco d’albero e dal filo spinato. Decisero di proseguire attraverso i campi di vite, dove la notte prima i tedeschi avevano posato mine ovunque.

Fu lo scoppio di una di queste mine a colpire in pieno Giaime che cadde riverso tra le viti. Era il 1 dicembre, l’inizio del mese.

«La guerra ha distolto materialmente gli uomini dalle loro abitudini, li ha costretti a prendere atto con le mani e con gli occhi dei pericoli che minacciano i presupposti di ogni vita individuale, li ha persuasi che non c’è possibilità di salvezza nella neutralità e nell’isolamento. (…) Gli italiani sono un popolo fiacco, profondamente corrotto dalla sua storia recente, sempre sul punto di cedere a una viltà o a una debolezza. Ma essi continuano a esprimere minoranze rivoluzionarie di prim’ordine: filosofi e operai che sono all’avanguardia d’Europa. (…) Quanto a me, ti assicuro che l’idea di andare a fare il partigiano in questa stagione mi diverte pochissimo; non ho mai apprezzato come ora i privilegi della vita civile e ho coscienza di essere un ottimo traduttore e un buon diplomatico, ma secondo ogni probabilità un mediocre partigiano. Tuttavia è l’unica possibilità aperta e l’accolgo. Se non dovessi tornare non mostratevi inconsolabili. Una delle poche certezze acquistate nella mia esperienza è che non ci sono individui insostituibili e perdite irreparabili. (…)» [Giaime Pintor, Lettera al fratello, Napoli, 28 novembre 1943].

Questa lettera girò dattiloscritta nel periodo dell’occupazione tedesca per mano di amici. Fu pubblicata per la prima volta in un opuscolo commemorativo (In memoria di Giaime Pintor, Torino, Einaudi, 1946). Il 29 novembre prima di partire Giaime vi aggiunse un biglietto affettuoso per la mamma e le sorelle. Ferruccio Parri, capo partigiano e Presidente del Consiglio dei Ministri dal giugno al dicembre 1945, l’ha definita “il documento forse più bello e più alto” della Seconda guerra mondiale.