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 2015  giugno 25 Giovedì calendario

L’ERA DEGLI UOMINI CHE SUSSURRAVANO AI CAVALLI

«Nano, malformato, brutta carogna». Insulti sibilati all’orecchio del fantino. Gli camminava al fianco, diretto alla pesa. Ogni volta così, il Calvi. Professione: commerciante di alimentari. Elegante, col cappotto blu, la martingala, i guanti di cinghiale. Arrivava all’ippodromo con la sua bella teoria in mente. Puntava i soldi, tanti, sempre, quote basse, da favoriti. Poi aspettava il fantino destinato al cavallo sul quale aveva scommesso e lo insultava senza ritegno: «Così, se perdo, sono già a posto. Io mi sfogo prima della corsa».
Ombre, eccole lì. Quella del Calvi, di chi come lui, si dava all’ippica a tempo quasi pieno. Compaiono ancora oggi tra le sculture, le colonne di San Siro, un monumento liberty, Paolo Vietti Violi il progettista, inaugurazione 1920, l’unico ippodromo del mondo dichiarato monumento nazionale. Una fauna maschile innamorata e spesso perduta, ormai scomparsa. C’è gente lungo gli steccati, oggi, ancora: famiglie, curiosi, bambini divertiti, signore che scimmiottano. Ascott come luogo comune, grandi cappelli neanche fossimo a corte. Il galoppo resiste, il trotto sta tornando dopo un buio pesto lungo tre anni che ha portato alla chiusura dell’impianto appoggiato allo stadio di San Siro. Silenzio, malinconie, e poi un nuovo progetto a due passi, nello spazio occupato da una pista di allenamento. Trenno. Come dire la patria dei cavalli milanesi. Investimenti e speranze per un rinascimento a rischio. Perché, forse, non è più tempo, quel tempo là, sprovvisto di alternative, distrazioni, weekend fuori porta. Totip come le schedine del totocalcio, indizi di una storia che pare preistoria. Polvere, segatura, l’odore delle bestie sudate, il suono dei sedili ribaltabili, un gergo tipico, unico, da setta. Un cinismo che ha preso e dato battute a un’intera generazione di comici, coinvolti comunque in una sciambola equestre permanente.
Non è questione di guardare indietro cercando il buono. Macché. Eppure i muri, i pavimenti, a un sistema di segni e figure del passato fanno riferimento comunque. Perché l’ippodromo, trotto o galoppo non importa, ha avuto una lunga stagione fastosa e questa stagione è finita. Ne verrà un’altra, figuriamoci, sarà diversa, variopinta, chissà. Ma attraversare San Siro, intesa come area metropolitana, significa avere a che fare con i suoi fantasmi. Figure mandate a memoria oppure viste da altri. Evocate, citate come eroiche, mitiche, straordinarie.
Ribot che vinse 16 corse su 16, anno di nascita 1952, anno di morte 1972, allevalo da Federico Tesio – un genio conclamato – montato da Enrico Camici per la Dormello Olgiata. Purosangue. Baio. Imbattuto. Tornese e quel suo trotto diagonale perfetto, nato a Grandate, stesso anno, 1952, Sergio Brighenti alla guida. E poi, beh, Varenne, classe 1995, da Copparo, Ferrara: 62 vittorie su 73 corse, l’ultimo campione assoluto. Cavalli come esseri umani ai quali dedicare cure, sogni, ragionamenti, con i quali parlare a bassa voce o urlando. «Quelle sono stalle?», chiese l’ex presidente del Milan, Giuseppe Farina, al celebre driver William Casoli, detto Il professore. Risposta: «No, guardi, quelle che sta indicando si chiamano scuderie e contengono campioni. Le stalle si trovano all’interno dello Stadio di San Siro e dentro ci stanno i somari».
Aneddoti. Una miniera. Alessandro Finn era un mago del trotto, fuggito dalla Russia portandosi dietro dieci cavalli, arrivato a Milano nel 1921 per rimanere in via definitiva. Guidava, vinceva come nessuno. Sei Grand Prix d’Amerique tra il 1924 e il ’51, il cronometro in mano, da far scattare ogni quarto di miglio, una rivoluzione tecnica nell’allenamento dei trottatori. Piccolo, i baffetti a incudine, un cuore grande così. Le sue gesta hanno percorso i viali di San Siro per decenni, c’era chi giurava tenesse da qualche parte un sacchetto pieno di diamanti sottratti alla Rivoluzione.
Prendeva il tram a piazzale Lotto. Al bigliettaio lasciava una mancia pari al costo di 10 biglietti. Pari al costo di 70 biglietti. Pari al costo del tram. Le cifre variavano in relazione al narratore. Il tram, invece, sempre quello. Pieno di gente, alle 13.30, con il giornale, inteso come Trotto Sportsman, sotto il braccio, già letto e studiato per ore al bar. Diretti, tutti, all’ippodromo, per vedere sgambare i cavalli, prima di “mettere su”, completata l’ultima verifica. “Mettere su la rebonza”, il malloppo, tutti i soldi “compresi i bambini”. Durante la guerra il tragitto rischiava di diventare più lento. Suono delle sirene, un allarme inconfondibile. Il tram si fermava. Minuti, quarti d’ora, in una frenesia crescente. Sino a quando qualcuno si rivolgeva in dialetto al conducente: «Andiamo, tanto non bombardano». Mica detto, ma intanto, dai! Buttare un occhio sul garrese era una priorità assoluta, anche di fronte ad un rischio supremo.
«Chi ci piace in questa corsa, dottore?». La domanda, posta dall’allibratore, alludeva a una complicità rodata. Il “clanda”. Allibratore clandestino. Ciascuno con la propria corte di scommettitori abituali, ai quali fornire quote personalizzate, date per eccellenti, impregnate di una qualche menzogna. «Guardi, è una giocata da padre di famiglia». Seeee, ciao. «Questo cavallo viene giù dai Carpazi: velocissimo, vincente “matematico”». Una coppia di “clanda” divenne celebre, tra il tondino e la retta. Composta da tale Dino e dal suo partner “Furbin”, così chiamato per lo scarso comprendonio. Il soprannome gli venne appioppato, secondo racconto di Beppe Viola – assiduo e prontissimo a registrare ogni carattere – durante l’Olimpiade di Città del Messico, 1968. Bob Beamon, strepitoso saltatore in lungo americano, stabilì un leggendario primato del mondo: 8 metri e 90. L’impresa avvenne mentre una pattuglia scelta di teste fini era emigrata dall’ippodromo al Bar Gattullo, punto di ritrovo per clanda, gli allibratori clandestini, scommettitori, saltimbanchi e altri soggetti curiosi. Tutti dentro a guardare il Beamon, tranne il Furbin, preso a mangiare un gelato nel giardinetto prospiciente. Dino lo chiama, in tempo per il replay: «Vieni dentro a vedere cosa ha fatto quel negro lì». Furbin entra, osserva al rallentatore ed esclama: «Bella forza, ha preso la rincorsa!» Furbin, appunto. Le vittime di questa coppia (scomparsa dalla circolazione dopo aver quotato 12 a 1 l’Italia di Bearzot vincente al Mundial dell’82), erano personaggi da commedia all’italiana. Il Tavazzani, che teneva a casa la copia esatta del proprio letto materasso, cuscino, testata, rete, eccetera da inviare con la Gondrand ovunque si trasferisse, anche per un solo giorno. Il Mattioli che, dopo la puntata, si chiudeva nel bagno dell’ippodromo per l’intera durata della corsa. «Sai come, il dottore mi ha vietato emozioni forti». Usciva, non aveva il coraggio di guardare il risultato sul tabellone e si aggirava orecchiando per capire come era andata. Morto di infarto, povero sacramento. Al Derby Club, il terzo polo del “Triangolo delle Bermude” (Ippodromo-Gattullo-Derby), tenne banco a lungo la storia romantica e comica di tale Oscar, detto “Slungatti”. Era da tempo alla canna del gas ma aveva ricevuto una dritta garantita al limone da chissà quale stalliere. Così puntò veramente tutto, per rifarsi e vivere in santa pace. Tutto. Ma proprio tutto, tutto, tutto. Parte la corsa. Il cavallo in questione vola, è in testa, irraggiungibile, montato da Villorio Guzzinati. Quando un trottatore è in netto vantaggio può accadere una sola tragedia: “rottura” all’arrivo. Due battute al galoppo e arriva la squalifica. Per questo motivo un altro scommettitore, dalla tribuna affollata, urla «Fermalo, Vittorio!». Voce del verbo “fermare”. Trattenere, mantenere il trotto riducendo l’andatura, data per certa ormai la vittoria. Il cavallo, a pochi metri dal traguardo, improvvisamente sbanda, si accascia di schianto. Aneurisma. Morto. Oscar osserva e stramazza pure lui, preso da una specie di crisi epilettica. Si dimena, stravolto tra i sedioli. Un passante lo guarda e lo battezza, «Và come si slunga questo qui». Slungatti, appunto, per tutti e per sempre.
Tre settimane e lo Slungatti si ripresenta in pista. Non scommette più. Si aggira in tribuna, con una pistola in tasca. Cerca disperatamente di individuare l’uomo corrispondente a quella voce che aveva urlato «Fermalo, Vittorio!». L’impresa è, ovviamente, impossibile. Lui, ogni tanto pare certo di aver risolto il rebus. «Mi pare quello lì», sussurra con l’arma in pugno, nascosta nel paltò. Per fortuna lo tenevano d’occhio. «Lo ammazzo», ripeteva.
«Dai Oscar. Lascia stare, che ti offro un bianco spruzzato».