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 2015  maggio 27 Mercoledì calendario

CERCATORI D’ACQUA


Ottenere un appuntamento con Sharron Hope è un po’ come provare a prenotare David Guetta per una serata. Devi metterti in fila. In questo lato di mondo dove le facce dei dj ricoprono le pareti dei palazzi su Sunset Boulevard, Sharron non sbancherà mai le discoteche di Las Vegas, ma in fatto di popolarità non è seconda a nessuno. Le foto la raffigurano con un cappellino da baseball e l’espressione truce. Quando le parlo al telefono, la voce rauca coincide con l’immagine ruvida che mi ero fatto.
«Vuole incontrarmi? Mi richiami fra un mese. Vedremo».
Sharron Hope fa la rabdomante. La water witcher, come dicono da queste parti. La strega dell’acqua. Avrà sì e no 60 anni, cammina ogni giorno per ore in mezzo a distese pelate e polverose, finché una vibrazione divina le suggerisce il luogo della provvidenza. Le basta impugnare il ramo stecchito di una pianta morta nelle vicinanze per beccare la falda nascosta magari a venti metri sotto terra. Sharron emette regolare fattura. Quando è ispirata, anche 30 mila dollari a botta, dicono. È una corsa all’oro, solo che di mezzo c’è la sopravvivenza di milioni di persone.

California, anno 2015, il quarto di fila alle prese con una siccità così grave come non si vedeva da almeno 1.200 anni. Basta guidare un paio d’ore a nord rispetto alle colline di Hollywood per accorgersi che l’apocalisse ha imbrogliato i colori di una terra tra le più ricche del pianeta. Una steppa arida e senza ambizione ha rimpiazzato intere praterie che stavano lì a stuzzicare la fantasia e l’ingegno di milioni di agricoltori. Ciliegie, mandorle, arance, pistacchi, mele, pomodori, carote. Il paradiso è perduto. O quasi. Si chiama Central Valley, una fetta di California grande come l’Italia del Nord, e per molti ora è zona di guerra. Avenal, Stratford e Porterville sono il fronte, la linea immaginaria lungo cui si combatte una battaglia quotidiana contro un nemico sfuggente. La stagione delle piogge si è conclusa da poco, con risultati demoralizzanti. Se ne riparla fra otto mesi. Intanto gli «stregoni» come Sharron fanno fortuna.
Incontro Bob Cusak nel centro di Stratford, una cittadina che evoca un passato florido di pub aperti all’ora di pranzo e spacci pieni di gente che compra granaglie assieme al tiramisù. Bob è in pensione, ha provato anche lui una breve carriera da rabdomante, ma non sembra sfiorato dal dono sublime.
Mi mostra piuttosto le assi di legno che sbarrano i vecchi esercizi commerciali andati in malora, scuote la testa convinto di conoscere la ragione di tutto.
«La siccità c’entra ma fino a un certo punto. Sono i politici i veri colpevoli. Vada più a ovest, se ne accorgerà».
Funziona così a ogni latitudine: quando Dio non è più perseguibile, il responsabile lo cerchi tra chi governa. E nelle parole di Bob c’è anche una parte di verità. Il fatto è che la California non è mai stata ricca di acqua. Tutt’altro. La San Joaquin Valley qui a lato, per esempio, era un deserto secco e inospitale. Poi, all’inizio del secolo scorso e ancora negli anni ’40, una serie di meraviglie tecnologiche – dighe, riserve acquifere... – ha creato un sistema di irrigazione che gli ingegneri di tutto il mondo venivano a studiare a bocca aperta. Acqua che partiva dal Colorado per arrivare fino ai giardinetti ben curati di San Francisco. Peccato che quel sistema fosse pensato per una società con un quinto della popolazione, un decimo delle auto in circolazione e certo non un’industria agricola chiamata a esportare in ogni angolo di mondo. Nonostante le preoccupazioni crescenti negli anni – e pure qualche siccità – il sistema ha retto e la politica ha guardato altrove. Con l’arrivo della «tempesta perfetta» al contrario, ora si essiccano anche le alternative.
Pochi mesi fa Jerry Brown, il governatore dello Stato, quantomeno ha ammesso pubblicamente la malattia. Con un decreto eccezionale ha imposto ai californiani un taglio nell’uso dell’acqua del 25%. Già negli alberghi di Beverly Hills un cartello ti esorta a docce «brevi».

Nella piccola Avenal, 14 mila abitanti nella graticola della Central Valley, la doccia per molti è un lusso settimanale.
Lo storico sindaco Harlin Casida ha istituito la water police, una pattuglia di agenti che va casa per casa a controllare se per caso stai annaffiando il giardino. Seth, proprietario del grande spaccio locale, mi rivela: «Quelli che hanno un prato verde qui sono visti molto male». Questa località ha vissuto due boom, il primo negli anni ’80 con l’apertura di una moderna prigione, il secondo dopo il 2000 con lo sviluppo dell’agricoltura, mandorle e pistacchi esportati ovunque. Oggi gli unici che guardano al futuro con cauta fiducia sono quelli che vendono depuratori. Già. perché l’acqua che esce dai rubinetti oltre a essere poca, spesso è di pessima qualità. E la gente scava dove può. Non resta che la speranza di trovare una vena sotterranea.
A Porterville mi dicono che c’è la situazione peggiore. Il tasso di disoccupazione è al 25%, la gente è nervosa, si è registrato un picco di divorzi senza precedenti, chi aveva un pezzo di famiglia da qualche parte in America l’ha raggiunta per ripartire da zero. E da una lunga doccia ristoratrice.
In città mi accoglie un tipo di nome Andy Vidak, agricoltore che sta su tutti i giornali, una voce storica della zona.
Mi chiede subito se ho qualcosa a che fare con gli ambientalisti, e il tono che utilizza non trasmette di sicuro calore umano. Non sono una categoria molto popolare.
«Hanno a cuore il destino e la ripopolazione dei salmoni», digrigna i denti Andy, «e molto meno il futuro di milioni di persone».
Qui a Porterville, scopro che la politica non era solo un facile bersaglio. «Le campagne sono dei conservatori, di gente che lavora e paga le tasse. Le città invece sono dei liberali che fanno le leggi senza sapere di cosa parlano. Venissero qui i politici e gli ambientalisti a rendersi conto della situazione. Invece no, ci fanno morire piano».

A complicare il quadro adesso è arrivato anche il disastro ambientale di Gaviota, una delle cinque riserve ambientali più preziose al mondo, devastata da una fuoriuscita di greggio. Una vecchia condotta degli anni ’80, che correva sottoterra forse troppo vicino a quel paradiso. Che si spera non vada perduto. Ancora una volta, a finire nel mirino sono la politica e i suoi rapporti con i grandi affari.
Insomma, le azioni di chi governerà nei prossimi anni – se la siccità non mollerà la presa – dovranno essere drastiche. Ci sarà da scegliere tra i campi da golf e le mandorle. La sensazione è che la California sia comunque in ritardo. Negli ultimi cinque anni nella Silicon Valley si sono investiti 70 milioni di dollari nella ricerca tesa a sviluppare nuove energie. Per risolvere il problema dell’acqua appena 1,5 milioni. Eppure parliamo di uno dei luoghi con il più alto reddito pro capite al mondo, e forse questo conferma l’ineluttabilità di ciò che sta avvenendo. Per decenni i californiani hanno vissuto del loro benessere come se fosse un diritto divino inalienabile. Ne hanno goduto pienamente, e oggi non riescono a concepire ciò che vedono. In parecchie contee attorno a Fresno hanno proibito di lavare le auto per strada, un passatempo americano da sabato mattina. Per ora, solo pochi hanno rinunciato. Si cercano soluzioni estemporanee, tra cui andare a sbirciare sotto terra, ma forse sarebbe il momento di guardarsi negli occhi. Gli impianti di desalinizzazione, per esempio, sono appena duemila in tutto lo Stato, e per uso quasi privato. Costruirne altri di grandi dimensioni avrebbe costi energetici improponibili.
Alfonso, un messicano diventato cittadino statunitense, lavoratore della terra disoccupato a Stratford, dice che al resto del mondo della frutta e della verdura della California non frega un accidente. «Se la andranno a prendere da qualche altra parte, è solo una questione di concorrenza. La siccità ci ha colpito duramente e altri ne approfitteranno.
È una legge di mercato».
Nel vicino emporio, dove mezzo litro d’acqua potabile viaggia già sopra i 3 dollari, una donna mi dice che chi resiste ancora in città si sta adeguando al cambio, vive con parsimonia, si lava con meno frequenza. Però c’è più spirito di gruppo, si fanno tante cose tutti assieme, il che non è necessariamente un male.
Poi dice di confidare nella costruzione di un acquedotto che parte dall’Alaska, una storia di cui i giornali hanno parlato ma che rischia di trasformarsi in una leggenda.
Infine sconsolata mi mostra lo scaffale con la rassegna di verdure in scatola. Made in China.