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 2015  maggio 28 Giovedì calendario

IL ROMANZO VINCENTE DEL DOTTORE

Quando varco l’ingresso di uno dei circuiti del campionato del mondo della MotoGP, la classe regina del motociclismo dove si dà battaglia gente come Valentino Rossi e Marc Marquéz, noto sempre un piccolo ma significativo particolare. È una scritta impressa sui pass di plastica che ciondola al collo degli addetti ai lavori, sovrastata da un triangolo rosso, con un punto esclamativo al centro: in lingua inglese recita «Warning, motorsport can be dangerous». In italiano: «Attenzione, le corse possono essere pericolose».
È un concetto riduttivo, ovviamente. Chiunque sia entrato in una pista del Mondiale, sa di cosa sto parlando. La MotoGP è uno sport violento, dove i motori urlano, i telai si torcono, le gomme bruciano e i piloti in gara spingono al massimo, fino ad arrivare a pericolosi corpo a corpo. Nulla a che vedere con quello che si percepisce in televisione, dove tutto pare morbido, vellutato, fin facile.
Osservate dal vero, le gare della MotoGP rappresentano qualcosa di estremo e brutale. Il paddock, l’area dietro ai box dove sonnecchiano le «motorhome», le case viaggianti che ospitano piloti, meccanici e addetti ai lavori, è una fitta giungla popolata da maschi-alfa con un solo obiettivo: vincere. È in questo habitat feroce, con i suoi riti e le sue leggi, che da quasi 20 anni svetta la figura di un biondino smilzo e dinoccolato, con fosforescenti sneaker ai piedi e il tic di giocherellare con l’orecchino d’argento che porta infilato nel lobo sinistro: si chiama Valentino Rossi, è nove volte campione del mondo e questa è la sua storia.
Non è completa, certo: qui ne troviamo sprazzi, frutto degli appunti trovati nei miei taccuini: anni di viaggi, corse, voli in aereo (un Cessna in affitto, Valentino non ne ha mai posseduto uno suo), compressi in decine e decine di pagine più qualche intervista registrata. Mi piaceva, ai tempi, osservare la parabola di un peso massimo come lui, seppur fisicamente leggero e longilineo. Meglio prendere nota, pensai allora. Feci bene.
Ci siamo conosciuti in un imprecisato giorno del 2001 negli studi di Mtv, quando ero autore della trasmissione Kitchen condotta da Andrea Pezzi e lui, Vale, era un
americani, in sella alla Honda, nel campionato del mondo della classe 500. Quei mezzi, a differenza di oggi, erano mostri privi di elettronica. La 500 cc. due tempi era una moto alla quale, per dirla con il linguaggio dei piloti, «bisognava dare del Lei, se non del Voi». Era pericolosa, cattiva, scorbutica e senza paracadute. Scaricava a terra i cavalli in maniera violenta e ti sbatteva a terra senza preavviso. Facile andare ko. Erano sempre dolori. Valentino fu tra i pochi, al debutto, a guardare dritto negli occhi una moto come quella, permettendosi di darle del Tu. Un altro che lo fece fu Max Biaggi.
Ma torniamo a quel giorno del 2001. Era un bel programma, Kitchen: gli ospiti arrivavano e cucinavano. In quell’occasione, Vale preparò una ricetta rubata dalle tasche di uno dei suoi meccanici giapponesi della Honda. Per uno come lui, che non sapeva cucinare bene, era il piatto perfetto: scampi in tempura. In un attimo Vale trasformò la pastella alla birra in una nuvola croccante e dorata. Fu uno dei piatti migliori di tutta la stagione televisiva.
A quei tempi, Valentino era ancora abbastanza timido per sentirsi inferiore all’ospite della puntata che lo precedeva, Gualtiero Marchesi. A Mtv registravamo tutte le puntate della settimana in un solo pomeriggio: mentre Marchesi preparava i suoi ravioli sottili come veline, Valentino se ne stava rannicchiato in un angolo, seduto per terra, aspettando il suo turno con le braccia strette attorno alle ginocchia. Cominciammo a parlare. Nonostante avesse ancora un’ombra di timidezza negli occhi, era chiaro: talento puro e classe cristallina.
La registrazione finì all’ora di cena, decidemmo per una pizza, lo portai da Penny in viale Bligny, a Milano. Io, lui e Gibo, il suo manager di allora. La nostra amicizia iniziò quella sera: avevo una vecchia Saab Turbo e lui sparò: «Sembra l’auto dell’ispettore Derrick». Non era vero, ma aveva colto lo spirito. È sempre stato un ottimo osservatore, Valentino. Per quello ci capimmo.
A quei tempi era sempre insieme al suo manager, Gibo Badioli. Osservandoli insieme, nessuna coppia poteva risultare peggio assortita: lui, Valentino, era una saetta longilinea, nervosa, scattante. Gibo fisicamente era un «gatto di marmo», come scherzava lui e come dicono in Romagna. Se poi è vero che i cani assomigliano ai propri padroni, in questo caso eravamo decisamente fuoristrada: Gibo possedeva un levriero, mentre Valentino un immobile bulldog.
«Beh, nemmeno a Fedro sarebbe venuto in mente di raccontare la favola del bradipo che fa da manager a un ghepardo» mi confessò un giorno Badioli, ridendo. I due hanno sempre avuto tutta l’esplosiva ironia che solo i romagnoli sanno esprimere. La coppia, ai tempi, formava un cocktail micidiale. Il propulsore era il talento di Valentino, unito alla scaltrezza di Gibo, uno che rivoluzionò il concetto di professionismo nell’ambiente, stipulando contratti che per la prima volta separavano l’immagine personale dall’immagine sportiva dei piloti.
Fu questo il motivo dello scontro durante il rinnovo del contratto con la Honda, agli inizi del 2003, quando Rossi minacciò di non scendere in pista alla prima gara della stagione. Un affronto impensabile, per i giapponesi. Il suo manager era un duro.
L’anno successivo, prima di decidere di passare alla Yamaha, la sua domanda alla casa di Iwata fu netta: «In Honda hanno 100 ingegneri. Voi quanti ne avete? Quattro? Non bastano. Devono essere 20». E così prepararono le basi per una vittoria storica, quella al debutto con la Yamaha a Welkom, nel 2004.
La benzina per quello strano motore di nome Rossi, che negli anni si rivelò versata in un serbatoio inesauribile, tanto che dopo 20 anni siamo ancora qui a scriverne, inzuppava l’immenso talento di Vale. Bastava una scintilla per scatenare l’incendio. Sono stati anni emozionanti come la discesa su un ottovolante. E me li sono bevuti tutti, osservando e annotando, consapevole di assistere al gioco leggero di un talento immenso. Parliamoci chiaro: Valentino è già entrato nel perimetro entro il quale alloggiano i grandi dello sport mondiale: non sono poi molti. Lui, Muhammad Alì, Pelé, Diego Armando Maradona, pochi altri.
Scartabellando ancora tra le mie note, ecco affiorare le confessioni fatte da lui della sua prima volta con la Ferrari di F1. Eravamo in volo verso Brno, sull’aereo privato che Vale affittava per gli spostamenti in Europa. Arrivammo nel piccolo aeroporto militare cecoslovacco esattamente nel momento in cui atterrava anche Max Biaggi, con il suo più modesto aereo Piaggio. Parcheggiammo uno di fianco all’altro e ricordo Vale, scaltro, scrutare dai finestrini prima dell’apertura delle porte per capire chi sarebbe sceso prima. Ci ritrovammo al controllo passaporti tutti insieme, gli uni ignorando consapevolmente gli altri.
Per mesi, il fatto che il «Dottor Rossi» potesse debuttare nell’automobilismo fu ipotesi concreta. Andò a Fiorano, nel 2006, sulla pista della Ferrari. I primi tentativi furono faticosi, le partenze dai box erano difficili a causa di quella strana frizione manuale piazzata sotto il volante: faceva molti testa-coda perché, all’inizio, non riusciva a mandare in temperatura le gomme. Nel secondo «installation lap» gli montarono quindi le «rain», le gomme da pioggia, anche se l’asfalto era asciutto: un trucco per permettergli di scaldarle più facilmente.
Ci prese la mano, si adattò e al secondo test lasciò tutti a bocca aperta (e non era gente di primo pelo). Nel tratto della pista più difficile, perché cieco, nella curva a destra dopo il cavalcavia, solo in quel settore, fece meglio di Michael Schumacher. Non penso si sappia. Fu un piccolo record, da custodire eventualmente per i nipoti. «Difficile, però mi sono divertito» confessò. «Valentino è il pilota di oggetti che possiedono un motore forse più forte di sempre», disse qualcuno dei presenti in pista allora.
Fu lo stesso Rossi a decidere di non continuare quell’avventura: durante una cena al ristorante «Il Circolino», uno splendido posto coi tavoli affacciati sul mare di Gabicce che ora non c’è più, alla presenza del suo manager Badioli, dell’ingegner Ross Brawn con la moglie e di Stefano Domenicali, allora «team principal» della Ferrari, prese per il braccio quest’ultimo e in un angolo gli confessò: «Non se ne fa nulla, mi spiace. Continuo con le moto». Avrebbe potuto fare bene anche in F1? Probabilmente sì.
Tutti pensano che Valentino sia un buono, sempre allegro e gioviale. In realtà è piuttosto cattivo. È un duro. È uno che ha bisogno, sempre, di crearsi un nemico, un obiettivo: con Sete Gibernau, che in fondo era un gentile, educato e simpatico ragazzo, Rossi ha avuto bisogno di arrivare a odiarlo, per batterlo. Quindi trovò la maniera di accusarlo di un’offesa personale e cominciò a soprannominarlo «Hollywood», per via del ciuffo biondo e di quei modi un po’ affettati.
Da nemico, odiando i nemici, li mette nel mirino. Poi li distrugge. Con ciascuno dei suoi rivali, anche quelli che si dimostrano i più amichevoli, arriva sempre allo scontro. Lo aspetto, oggi, al varco con Marc Marquéz. In questo, Rossi è un pescecane, uno dei piloti più cattivi di sempre. E, come tutti i grandi, riconosce la grandezza degli altri. È lo stesso Rossi ad avermi raccontato che, ai tempi duri della Ducati, consultava con curiosità i dati di telemetria di Casey Stoner dell’anno precedente: «Davvero non ho ancora capito come facesse Stoner ad andare così forte. In molti pensano che Casey fosse molto veloce ma non molto furbo, e che fosse quello il motivo per cui faceva tanti incidenti. La verità è che, per andare così forte con quella moto, Casey era costretto a superare costantemente i limiti, in ogni curva. Se guidi così, fai un sacco di incidenti. È inevitabile».
Dotato del talento di un Re Mida (ovunque andasse, tutto si trasformava in oro), Valentino Rossi ha conosciuto in Ducati anni davvero duri. Quando un campione come lui entra in crisi, va in caduta libera. Piloti medi come Nicky Hayden, per esempio, galleggiano sempre a metà classifica: sia che le cose vadano bene, sia che vadano male. Ma quelli come Valentino, quando cadono e cadono dall’alto, rischiano di farsi male. Vanno giù, in profondità, negli abissi, dove tutto è buio.
Ho cercato di capire da lui quanto gli abbiano bruciato nell’anima quegli anni alla Ducati, ma la sua risposta non ha fatto impennare più di tanto il sismografo delle emozioni: «La gente in giro dice che quando affronti periodi duri, e poi li superi, diventi più forte. Quello che non ti ammazza, ti fortifica, per capirci. Non penso sia vero. Purtroppo diventi solo più vecchio».
Una volta sola l’ho visto davvero tradire un’emozione, una delusione cocente: fu sul circuito di Valencia nel 2006, quando cadde al primo giro lasciando il Mondiale nelle mani di uno decisamente più debole di lui, l’americano Nicky Hayden. Eravamo insieme quella mattina di fine ottobre 2006 e, prima della partenza, c’era un’atmosfera strana. È stata davvero l’unica volta in cui l’ho visto titubante a poche ore dal via. Penso non si fidasse delle gomme che gli avevano dato. Per lui, che è un perfezionista, fu uno sgarbo atroce. Fatto sta che cadde. Fino a poche ore prima era come al solito felice, allegro, spiritoso. C’era anche Elio di Elio e Le Storie Tese con noi. La sera prima ci eravamo divertiti molto. Elio si era prestato a fare da juke-box vivente: gli chiedevamo una canzone, lui la eseguiva.
Parlando di musica e serate, viene da chiedersi: che cosa succede dopo, alla sera, una volta parcheggiata la moto nei box?
Rossi va a letto tardi, anche prima delle gare. «Se questo è funzionale al mio benessere e al mio equlibrio, non vedo perché dovrei andare a letto alle 8 mangiando uno yogurt. Faccio ciò che mi fa star bene. E, semplicemente, questo mi permette di andar forte».
Sulle questioni politiche o etiche, mi viene in mente una battaglia che portò avanti all’insaputa di tutti: sin dall’inizio della carriera, fino a quando gli è stato possibile, Rossi ha sempre rifiutato sponsor del tabacco. Capitolò solo nel 2004, quando la Gauloises aveva un contratto con la Yamaha già prima che firmasse lui. Alla firma, tramite il suo manager, Rossi pretese la costituzione di un fondo per la lotta al tabagismo.
Sulla sua gara più bella ci sarebbe da discutere: molti dicono la Welkom del 2004, in Sud Africa, quando vinse al debutto con la Yamaha. Ma quella più indicativa del suo furore agonistico penso sia quella australiana di Phillip Island nel 2003, con la Honda. Ecco le sue parole: «Mentre vincere a Welkom era un obiettivo che ci eravamo posti dall’inizio l’avevamo tenuto nascosto, ma sapevamo bene il nostro vero potenziale Phillip Island fu un godimento assoluto».
È vero: non c’era bisogno di vincere quella gara, aveva il Mondiale già in tasca. In regime di bandiere gialle fece un sorpasso, cosa vietata. Lo penalizzarono di 10 secondi. Passò dai box, cominciò a risalire. Era una gara quasi impossibile da vincere. Soprattutto, non ne aveva bisogno ai fini del campionato. Invece una classe straordinaria gli permise di abbassare il suo limite, giro dopo giro. A dieci tornate dalla fine aveva 12 secondi di distacco da Loris Capirossi. Dai box erano tentati di segnalargli: «Vai piano, non rischiare» ma lui, puntò l’obiettivo su Capirex, lo superò e vinse. Fece paura. È questo che contraddistingue il pilota Rossi: puntare sempre alla vittoria, anche se fine a se stessa.
Insomma, il motivo di questa storia è chiaro: alla vigilia del Gran Premio d’Italia 2015 che si corre al Mugello questo weekend, nessuno si sarebbe aspettato un Valentino Rossi in testa alla classifica del campionato del mondo, con 15 punti di vantaggio sull’altro pilota della Yamaha, il suo compagno di scuderia Jorge Lorenzo. Il che conferma un sospetto che nutro da tempo: Rossi non è mai andato forte come adesso, anche confrontando i suoi cronologici con gli anni d’oro, in cui vinceva contro tutti e contro tutto. Forse è un’esagerazione. Ma sicuramente non va più piano di allora. Un pilota della sua esperienza, a 36 anni, se è in forma fisicamente e si allena come sta facendo lui oggi, è potenzialmente al massimo. Il segreto sta tutto nella dedizione maniacale con cui prepara la caccia all’unico obiettivo che conta per lui: vincere. Non sono più le corse alle quali erano abituati i piloti di una volta, dove per battere gli altri bastavano manciate di talento, un gran coraggio e una buona moto. Oggi le cose stanno diversamente: per eccellere in uno sport come questo, dove tutto corre sul filo del rasoio, ogni cosa va preparata al limite dell’impossibile. Negli anni, Valentino ha demolito chiunque si sia messo sulla sua strada. Facciamo una lista: Kenny Roberts Jr., Loris Capirossi, Alex Barros, Max Biaggi, Sete Gibernau, Dani Pedrosa, Casey Stoner, Nicky Hayden, lo stesso Jorge Lorenzo, a fasi alterne. E oggi, incredibilmente, è ancora lì a combattere corpo a corpo con un impressionante missile di 22 anni, Marc Marquéz, forse il più micidiale talento del motociclismo moderno. Ci sono 14 anni di differenza tra i due. Eppure è Rossi, oggi, in testa nel Mondiale.
È difficile stabilire una classifica che indichi chi sia stato il più grande in assoluto, ma se dovessi citare i piloti più forti della storia ci metterei John Surtees, Mike Hailwood, Jarno Saarinen, Giacomo Agostini, Valentino Rossi e le due «young guns» di ultima generazione, Casey Stoner e Marc Marquéz. Aldo Grasso, nei giorni del declino di Rossi alla Ducati, il 16 giugno 2013 scriveva in prima pagina sul Corriere della Sera un articolo intitolato «Il mito ammaccato di Valentino, il re che non sa ritirarsi». Sosteneva Grasso che il Dottore era vecchio e che ormai c’era in giro gente più forte, motivata e spericolata di lui.
Sarà, ma i fatti gli stanno dando torto. Di tutti questi anni passati a osservare da vicino la parabola di Valentino, anche se non ci si incontra più tanto come un tempo, m’è rimasta impressa una frase, detta da qualcuno del suo entourage, proprio ai tempi della crisi con la Ducati: «Ricordati, caro: mai, mai dare per vinto uno come Valentino Rossi».