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 2015  maggio 28 Giovedì calendario

IMPRESE DI FAMIGLIA

È una buona idea mettere insieme affari e affetti? Almeno in teoria sembra di sì, visto che le imprese familiari sono storicamente alla base dell’economia. Le saghe delle grandi famiglie vanno di pari passo con la storia e l’immaginario della società industriale, dai Buddenbrook a Dallas. Ma in realtà si definisce familiare qualunque impresa in cui una o più famiglie possiedono la maggioranza del capitale, si tratti di un grande stabilimento o di un piccolo laboratorio, o anche di un’azienda agricola o di un ristorante.
Se le imprese di famiglia sono così importanti, in Italia forse più che altrove, non c’è da stupirsi che siano oggetto di studio, per individuarne le caratteristiche, i punti di forza e quelli di debolezza. Soprattutto questi ultimi, visto che la maggior parte di queste aziende non arriva alla terza generazione.
«È fisiologico che ci siano cicli che si aprono e si chiudono, succede da sempre», osserva Matteo Togni, docente di psicologia dell’organizzazione all’Università di Bergamo. Ma in questo caso è un grosso spreco di potenzialità economiche e umane, oltre che causa di sofferenza: «Il fatto che l’economia sia in gran parte retta da aziende familiari è positivo, purché sappia dotarsi di strumenti per sopravvivere», aggiunge Francesco Bruni, psicologo e psicoterapeuta relazionale, direttore dell’Istituto Emmeci di Torino.
E quando si parla di strumenti non parliamo solo di economia ma anche, e forse soprattutto, del fattore umano. Della difficoltà di mantenere un equilibrio tra obiettivi individuali ed esigenze di mercato, di far evolvere in parallelo due sistemi in movimento – la famiglia e l’azienda – anche quando sono in conflitto. «Essere figli di un imprenditore, in particolare di un grande imprenditore, è difficile, soprattutto per i maschi», prosegue Togni. «Si crea spesso un ambiente che non favorisce una vita equilibrata, serena, e anche il passaggio di generazione è faticoso».
«Spesso oggi troviamo anche tre generazioni a gestire un’azienda», spiega Carlo Silvio Ripamonti, psicologo e ricercatore presso l’Università Cattolica di Milano. «Con atteggiamenti diversi nei confronti dell’innovazione, della ricerca di nuovi mercati, della propensione al rischio: a volte le vecchie generazioni fanno troppo affidamento sull’esperienza e poco sugli strumenti razionali dell’economia».
Affetti e affari
La convivenza poi genera competizione, anche tra genitori e figli, e se questo può essere interessante dal punto di vista imprenditoriale, non favorisce la serenità delle relazioni. «La famiglia e l’azienda sono sistemi dinamici; succede spesso di vedere che l’azienda funziona bene a scapito della famiglia, a volte il contrario», spiega Alfredo Canevaro, psichiatra e psicoterapeuta relazionale di origine argentina, una lunga esperienza con problemi legati alla gestione delle imprese. Una situazione ottimale è meno frequente. E succede che questi problemi arrivino in terapia, anche se di solito indirettamente.
Quando con il lavoro terapeutico emerge che il problema da affrontare nasce da quello che Bruni definisce «una commistione tra affetti e affari». «Tutti conosciamo storie in cui a un’immagine aziendale prestigiosa fanno da contraltare drammi familiari o figli problematici», osserva Canevaro. «Ma è difficile che i problemi legati all’azienda emergano nelle consulenze in cui si affrontano i problemi di gestione: la vulnerabilità è in contrasto con l’immagine positiva, vincente, dell’azienda, e in genere le aziende preferiscono ignorare l’aspetto più oscuro delle relazioni familiari».
Di solito questi problemi emergono quando uno dei soggetti si rivolge a un terapeuta, e poi ci si rende conto che alla base c’è una relazione aziendale e familiare disfunzionale. «Oggi – prosegue Canevaro – sappiamo che un processo terapeutico ben riuscito può aiutare non solo i singoli ma anche il processo imprenditoriale». Ovviamente c’è azienda e azienda, «e anche il ruolo della famiglia può essere vario», spiega Daniela Montemerlo, docente della SDA Bocconi School of Management e dell’Università dell’Insubria. «Ci sono situazioni, soprattutto nelle grandi imprese, in cui la famiglia fa parte del consiglio di amministrazione ma senza incarichi dirigenziali, altre in cui partecipa alla gestione, da sola o con il supporto di dirigenti esterni». Così come nelle aziende più grandi è più frequente che il consiglio di amministrazione abbia un ruolo non solo formale, e che sia aperto anche a non familiari.
La maggior parte delle ricerche disponibili, in ogni caso, riguarda piccole imprese manifatturiere del nord: «Nella mia esperienza il modello più diffuso è quello di un uomo che lavora, in genere in un’impresa metalmeccanica o in un mobilificio, e a un certo punto si mette in proprio», spiega Simone Ghezzi, docente di antropologia sociale all’Università di Milano-Bicocca. «Oggi la situazione è più complessa, e c’è più attenzione alle regole, ma fino all’inizio degli anni ottanta c’era un tessuto di imprese informali, nate spesso grazie all’impegno sia finanziario che umano di una famiglia». E il cambiamento non riguarda solo la situazione economica.
Immagine sociale
«Semplificando possiamo dire che per la prima generazione di imprenditori al centro dell’attività c’è il piacere: c’è qualcuno che crea un business a propria immagine e somiglianza, e in quel lavoro si realizza», spiega Togni. «Mentre per la seconda generazione l’impegno imprenditoriale è spesso vissuto più come un dovere che come una scelta». E leggendo le testimonianze dei diretti interessati, spesso le motivazioni dei figli, ma anche le loro frustrazioni, sono legate al desiderio di rispondere alle aspettative del padre. «La componente della realizzazione professionale ha una matrice paterna molto forte: siamo portati a fare qualcosa di cui nostro padre possa essere fiero», osserva Togni. «Ma se il padre è troppo presente rischio di non emergere con la mia identità personale».
Per fare l’imprenditore, poi, bisogna avere carattere, e in genere gli imprenditori non sono genitori facili. «Per questo le collaborazioni tra padri e figli sono spesso faticose», spiega Canevaro. «Può succedere che il figlio che ha più problemi sia quello che somiglia di più al padre imprenditore, più autonomo e intraprendente». Mentre la relazione funziona meglio con un figlio con un atteggiamento complementare, meno determinato, che però proprio per questo rischia di essere meno apprezzato dal padre. «Non è un caso che spesso i figli che hanno maggior successo come imprenditori siano quelli che entrano in azienda tardi, dopo un distacco che li ha portati a fare esperienza in realtà diverse», spiega Togni.
«La situazione è diversa per le figlie – prosegue – che in genere riescono a subentrare in modo non conflittuale. Perché il padre non le vive come rivali e perché sanno gestire meglio il conflitto. E spesso si allontanano dall’azienda per un periodo, quando hanno figli piccoli, proprio nella fascia di età in cui i conflitti sono al massimo». Il che non vuol dire che per le figlie il percorso sia semplice. Al contrario: «L’azienda familiare è l’ultimo bunker del sistema patriarcale, in cui anche nei casi in cui l’imprenditore è donna è radicata una cultura maschilista», spiega Canevaro. «Ho visto primogenite scavalcate in favore del fratello: ricordo un caso in Argentina in cui una figlia molto capace era stata messa da parte, per volere del padre cui era legatissima, a favore del fratello minore. Creando un conflitto che ha avuto ripercussioni sulla vita dell’azienda».
Molti problemi nascono dal fatto che l’immagine sociale della famiglia si modifica più lentamente rispetto alla realtà esterna. Un dato che emerge da una serie di ricerche realizzate da Simone Ghezzi nelle aziende familiari della Brianza. «Spesso la divisione delle quote di proprietà è imposta dalla leadership, ossia dal padre fondatore dell’azienda – spiega il ricercatore che decide in base ai propri criteri, emarginando le donne». Un’emarginazione che comincia dalla divisione degli incarichi aziendali: mogli e figlie vengono escluse dalla produzione e si occupano della contabilità o dei rapporti con le banche, ruoli che nelle aziende più piccole sono in genere visti come non produttivi e secondari.
Il cuore dell’azienda
«Lo stereotipo dell’homo faber, l’idea che al cuore dell’azienda ci sia la produzione e non la gestione, è duro a morire, e spesso si riflette anche sulle quote proprietarie, provocando conflitti familiari», spiega Ghezzi. «Paradossalmente spesso i maschi frequentano istituti professionali, e hanno una carriera scolastica più breve rispetto alle sorelle, che sono più libere di scegliere e hanno competenze maggiori, ma che non vengono valorizzate».
Nelle realtà di questo tipo quello che conta è la capacità tecnica, che è ancora in mano agli uomini, «mentre le cose vanno diversamente in imprese medio grandi, in cui finanza e marketing sono strategiche – ed è più facile vedere donne in ruoli dirigenziali – o nel settore dei servizi». Segno che gli stereotipi sono ancora forti nel mondo imprenditoriale. «Le donne che hanno ruoli di responsabilità nelle aziende della propria famiglia sono sempre di più. Ma è anche vero che tutte trovano ancora oggi maggiori difficoltà nei settori visti come tipicamente maschili», spiega Montemerlo. «Nel tessile, dove anche la mano d’opera è in gran parte femminile, è più facile vedere donne in ruoli dirigenziali», aggiunge Ghezzi. «C’è da notare che spesso nelle piccole imprese gli imprenditori ci tengono a precisare che la scelta di affidare alle figlie incarichi amministrativi serve a tenerle lontane da lavori “sporchi”, anche se di fatto queste mansioni vengono spesso svolte da mano d’opera femminile». A mostrare quanto i vissuti inconsci pesino anche sulle scelte aziendali.
In realtà il nodo centrale delle aziende familiari, la successione del fondatore con tutti i problemi a essa legati, nasce in gran parte dal fatto che a livello inconscio l’idea di transizione porta a fare i conti con l’idea dell’uscita dal mondo produttivo, e quindi della vecchiaia e della morte. Particolarmente ostica per chi, come molti imprenditori di prima generazione, ha collegato la propria identità all’azienda. «Per questo motivo, spesso si tende a rinviare decisioni che in qualche modo mettono l’imprenditore a contatto con la propria mortalità, anche a rischio di danneggiare l’impresa», spiega Ghezzi.
Canevaro parla di percorso intergenerazionale più che di passaggio generazionale: «Non solo così si evita di evocare l’immagine della morte biologica. Ma si prevede per l’anziano un ruolo diverso ma importante, di consigliere, che faccia da riferimento e memoria storica per chi guida l’azienda: come avviene negli ospedali inglesi, dove il primario emerito mantiene uno studio all’interno dell’ospedale, disponibile a consultazioni e pareri».
Oggi poi la crisi ha portato molti piccoli imprenditori a chiedersi se valga davvero la pena di affrontare un percorso di successione generazionale, o piuttosto di cedere l’azienda lasciando ai figli il capitale, ma i conflitti sono tutt’altro che risolti: «Una serie di interviste che abbiamo realizzato sul tema mostra che genitori e figli hanno punti di vista diversi», spiega Silvio Carlo Ripamonti, psicologo e ricercatore all’Università Cattolica di Milano. «Molto dipende da come il fondatore vive l’azienda, che può essere percepita come “fonte di reddito”, o identificata con la famiglia, o addirittura vissuta come fosse un vero e proprio figlio». Connotazioni emotive che possono rendere difficile applicare modelli razionali. «È difficile lasciare spazio alle nuove generazioni quando è l’azienda a essere percepita come il figlio in cui ci si identifica», prosegue lo psicologo.
Giocare d’anticipo
In situazioni come queste possono esserci transizioni apparenti, in cui i padri cedono la leadership ma restano una presenza troppo incombente. E succede spesso che i figli protestino per la difficoltà di accreditarsi con la componente interna all’azienda, o notino che la successione è solo una decisione formale che poco cambia la realtà dei processi decisionali. «Anche chi identifica l’azienda con la famiglia rischia di imporre ai discendenti un mandato – quello di portare avanti il nome della famiglia attraverso l’azienda – quasi impossibile da assolvere in una situazione di mutamenti economici», prosegue lo psicologo. «Mentre chi vive l’azienda come fonte di reddito la considera una realtà in evoluzione per realizzare un progetto imprenditoriale, proprio o del figlio, e spesso desidera trasmettere ai propri discendenti proprio questa mentalità, anziché una realtà statica».
Resta il fatto che a volte ci sono elementi imponderabili, e molte crisi aziendali sono dovute proprio alla scomparsa improvvisa di chi aveva accentrato la proprietà su di sé senza aver preparato il dopo. Tanto che sono sorte anche figure professionali che cercano di accompagnare l’imprenditore a un processo decisionale più meditato. Partendo dalla formazione di chi dovrà succedere al fondatore. «È fondamentale giocare d’anticipo, definendo regole precise su come si entra in azienda e come si fa carriera e pianificando la fase di convivenza con la generazione precedente; regole che vanno stabilite dalla generazione al comando tenendo conto delle caratteristiche del business attuali e prospettiche, nel rispetto della libertà di scelta dei figli. Che non devono essere costretti a entrare in azienda, ma se lo fanno devono rispettarne le logiche e le esigenze», spiega Montemerlo.
«Trovo efficace il sistema anglosassone, in cui i figli vengono mandati per 5-10 anni a lavorare fuori per poi rientrare in azienda con competenze acquisite per assumere un ruolo autorevole. Ma noi latini – in questo argentini e italiani sono molto simili – tendiamo a non farli allontanare», spiega Canevaro. A rischio di rendere più difficile l’integrazione tra l’esperienza maturata dalla vecchia dirigenza e le conoscenze dei figli, «che a volte vengono banalizzate dal padre, mentre le due realtà potrebbero integrarsi molto bene», prosegue lo psicologo.
Una formula prefissata non esiste: le esperienze esterne sono utili, ma rischiano di allontanare i figli, attratti da altre realtà. «E se chi subentra al padre in modo improvvisato, magari per far fronte a un’emergenza, può non essere in grado di ricoprire il ruolo assegnato, gli avvicinamenti graduali di chi ha giocato tra i bulloni vivendo fin da ragazzino la vita dell’azienda, certamente meno traumatici, rischiano di essere carenti sul piano dell’innovazione», aggiunge Ripamonti.
Capitale fraterno
Tutto diventa più complicato quando i figli sono più di uno: «La relazione tra fratelli in azienda è meno studiata che quella genitori-figli, eppure è un nodo fondamentale. Particolarmente oggi che le aziende di seconda generazione gestite da fratelli sono più numerose», spiega Montemerlo. Problemi economici e gestionali complicano relazioni che spesso non sono comunque facili, ma «anche se gli studi tendono ad accentuare gli aspetti conflittuali, nella realtà vediamo che una relazione sana tra fratelli può essere preziosa per il successo di un’azienda», spiega Montemerlo. Che parla di un vero e proprio «capitale fraterno»: una buona relazione tra fratelli, legata a una concezione sana dell’azienda, permette una collaborazione basata su conoscenza e fiducia reciproca e aiuta anche a gestire senza traumi i passaggi generazionali.
Anche se la cultura della primogenitura, derivata dalla tradizione nobiliare, ha ancora un suo peso in molte famiglie. Con qualche differenza: «Spesso le famiglie che vengono dalla tradizione borghese hanno regole rigide per garantire la successione, che per quanto ingiuste permettono di tutelare l’azienda», ricorda Togni. Le cose sono più complesse con famiglie di diversa origine, in cui con il passare delle generazioni si crea un gruppo che spesso tende a lavorare e vivere in simbiosi: «Per mantenere un accordo c’è bisogno della giusta distanza, in cui affettività, identità e valori relazionali ed economici possano trovare un equilibrio», osserva lo psicologo.
In ogni caso un figlio che continua il lavoro del padre, in azienda ma anche in uno studio professionale, deve fare i conti con le aspettative della famiglia, con la paura di non essere all’altezza, anche con la sensazione di non avere alternative, «di dover rispondere a quello che noi chiamiamo il vincolo di lealtà assolvendo all’incarico in cui era o si sentiva destinato», spiega Bruni. «E che ci siano aspettative è normale, l’importante è che non diventino una costrizione, che i figli possano fare le loro esperienze e poi scegliere». Scoprendo magari che l’incarico pensato come un’imposizione era quello che deisideravano effettivamente fare.In questo senso, a volte i figli esclusi dalla successione diretta sono dei privilegiati, «perché ereditano la possibilità di costruire la propria strada, a volte replicando, in realtà diverse, il percorso del padre», spiega Canevaro. «E anche se chi si allontana volontariamente per seguire la propria inclinazione può fare i conti con la difficoltà di sentirsi “traditore”, ho visto casi in cui proprio da una scelta inizialmente conflittuale col padre si è poi sviluppata una relazione solida di affetto e di stima».

Il giusto equilibrio
A margine del rapporto padri-figli ci sono altri familiari, prime fra tutte le madri: «L’antropologa nippo-americana Sylvia Yanagisako, che ha studiato il distretto della seta nel comasco, sostiene che le donne tendono ad avere come obiettivo il benessere della famiglia, gli uomini quello dell’impresa», ricorda Ghezzi. E quando questi non coincidono si possono creare fratture che si ripercuotono sulla famiglia. «Spesso le mogli sono casalinghe frustrate, bombe a orologeria i cui effetti possono ripercuotersi sulla generazione successiva», commenta Canevaro. Può succedere che una moglie messa da parte si vendichi attraverso il figlio che entra in azienda, e che lei vede come una possibilità di rivalsa nei confronti di un marito traditore o distratto.
Ci sono poi i coniugi dei figli, una specie particolare di familiari, anche perché potenzialmente «transitori». In alcuni casi vengono considerati familiari a tutti gli effetti: «Nelle piccole imprese, per chi ha solo figlie spesso il ruolo del genero è fondamentale, e il fatto che gli venga dato spazio non è visto come una prevaricazione dagli altri familiari», osserva Ghezzi. Spesso però si tende a differenziare tra famiglia e parenti acquisiti «o a escludere generi e nuore dal management e anche dalla proprietà per tutelare l’integrità dell’azienda contro il rischio di divorzi, che è sempre più frequente», spiega Montemerlo.
Per superare le crisi, la soluzione – tutt’altro che facile è garantire equilibrio tra azienda e famiglia, accettando i cambiamenti. «I risultati migliori si ottengono quando la famiglia cerca elementi di generatività al di fuori di sé», osserva Togni. «Come avviene quando un figlio si trasferisce in un altro paese, e acquista autonomia portando all’estero il nome dell’azienda, mantenendo però un legame e riproponendo in termini diversi l’esperienza di padri e nonni». O quando si introducono persone nuove, una dirigenza esterna non coinvolta emotivamente, «che può rappresentare un momento di evoluzione – osserva Bruni – perché permette di relativizzare i problemi familiari».