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 2015  maggio 26 Martedì calendario

C’ERA UNA VOLTA IL FÚTBOL

Quando Alfredo Di Stefano arriva in Spagna, nel 1953, il Real Madrid è tutt’altro che il più grande club iberico: ha vinto solo due campionati, entrambi in Età Repubblicana, peraltro. Comandano, invece, il Barcellona, che ne ha già portati a casa sei, e i baschi dell’Athletic Bilbao, cinque. Santiago Bernabeu, eletto presidente del Real nel 1943, gli scalpella il primo comandamento: «Non ti devi azzardare a comprare una macchina: questo è un “club de socios” di gente che viene dalla classe operaia, non possiamo mostrare che i nostri calciatori vivono diversamente da loro. Ci sarebbe una casa, qui, a pochi isolati dallo stadio, puoi venire in tram». A la orden: l’abitazione c proprio a cinque minuti, al 13 di via Henares; e la prima Citroën, un taxi giallo-nero riciclato, arriverà solo un paio d’anni più tardi. Ma se oggi il Real Madrid è percepito come la squadra più ricca e, soprattutto, con la più straripante mistica della storia dello sport, ecco, questo lo si deve a lui, ad Alfredo Di Stefano.
Perché, come dice Arrigo Sacchi, è lui che ci ha portato nel futuro, dalla fotografia al cinema; perché, come ha detto Helenio Herrera, con cui non ha mai intrattenuto un buon rapporto, lui a differenza di Pelé, un primo violino, è stato un uomo-orchestra; e poi, come ci ha mirabilmente spiegato Gianni Brera, Di Stefano era talmente più avanti di tutti gli altri da non riuscire a fare scuola, come Piero della Francesca.
Lui ha respirato l’ultima aria della sua vita in quello che è diventato uno dei simboli del calcio nel mondo, lo stadio Santiago Bernabeu, a Madrid, poche ore prima dell’infarto; un’aria così diversa da quella di vento e tempesta che respirava da piccolo, a La Boca, a Buenos Aires, dov’era nato e cresciuto. Un infarto ha posto fine alla più grande epopea tra un singolo giocatore e un club, tra don Alfredo Di Stefano e il Real Madrid Club de Fútbol, una storia divenuta per sempre grande dopo che, insieme, hanno alzato la prima Coppa dei Campioni della storia. Pratica ripetuta per le cinque edizioni consecutive, dal 1955 al 1960. Alfredo ha scelto di impreziosire ogni finale con almeno un gol: un record irripetibile, che l’ha trasformato nella prima vedette della più importante manifestazione calcistica che il Vecchio Mondo abbia mai conosciuto.

Famiglia originaria di Capri, Alfredo era il fratello scarso, palla al piede. Come spesso avviene nelle famiglie dei geni dello sport, un consanguineo era il reale predestinato: Tulio, fuoriclasse vero, «testa alta, grande eleganza della corsa» assicura Pedro Gigena, il leader del Club Progresista di Río Luján, la squadra che avrebbe vinto il titolo Interregionale del 1943 coi fratelli Di Stefano schierati da «insiders». Tipi strani, ragazzi che arrivavano al campo correndo dietro a Bombolo, il mezzosangue che rispondeva alle frustate di Alfredo senior, trascinando un piccolo carretto: il riscaldamento secondo il papà dei Di Stefano, un’attenzione alla fase atletica non comune all’epoca, e che farà, unita a un’intelligenza tattica fuori dal comune, la fortuna della «Saeta Rubia», il suo soprannome.
A Tulio, il fuoriclasse in erba, è andata male, si è fracassato il ginocchio e può solo gioire per il fratello, che è stato scelto tra 80 pretendenti al provino del River, svoltosi davanti a Carlos Peucelle, il maestro dei maestri, l’uomo che, sostanzialmente, crea e forgia la più importante squadra di tutti i tempi. Il River Plate degli anni Quaranta, «La Máquina», una locomotiva irraggiungibile, capace di vincere tutto e ripetutamente. Una fortuna attraversare il River in quel periodo.
Era un universo di uomini che nobilitava il concetto di squadra, per la prima volta nella storia del fútbol: i fuoriclasse al servizio del gruppo, come si direbbe oggi. Al debutto, il giovane Di Stefano si sente dire: «Non ti preoccupare, vienici dietro, tu occupa spazi che non occupiamo noi, poi appena vedi una banda rossa, scarica la palla (la muglia del River è bianca, con una banda rossa obliqua, ndr)». Il futuro, praticamente. Diciamo, l’Ajax o il Barcellona con mezzo secolo d’anticipo. Oggi parliamo di Nándor Hidegkuti, quello della Grande Ungheria di Ferenc Puskás, uno che contribuirà alla cinquina di Coppe dei Campioni di Di Stefano, come il primo falso centravanti della storia. Mica vero, quel ruolo nasce in Sudamerica: nella Máquina, il «falso nueve» come oggi si usa dire per qualificare gli incarichi che Pep Guardiola ha preteso da Leo Messi, uno dei pochissimi che può sedersi al tavolo dei più grandi con don Alfredo, lo giocava Adolfo Pedernera, il suo maestro e l’uomo che lo precederà nella leggendaria delantera di quel River.
Gianni Brera, che ha sempre considerato Di Stefano il giocatore più completo della storia, ricostruisce così una scena di vita tra i due: «Un giorno Pedernera vide Alfredo fare qualcosa del genere: tornare nella propria area, conquistare palla, scambiare con il mediano e chiedere triangolo, riprendere palla, correre a distese falcate verso la porta avversaria, toccare in corsa senza sbilanciarsi di un “ette”, chiedere di nuovo triangolo e balzare sulla palla per sparare imparabilmente in rete. Visto in azione quel mostro di abilità e di fondo atletico, Pedernera gli andò vicino gli disse: “Ohei ragazzolo, di questo passo tu rovinerai il mestiere a todos”, e voleva dire che facendo con tanta abilità quelle prodezze, in fondo sminuiva il calcio».
Con la maglia dell’Argentina Di Stefano aveva vinto una Cupa America, col River sfiorato nel 1948 il Campionato Sudamericano dei Campioni. Un trofeo inedito e mai più ripetuto: la coppa per il vincitore era la raffigurazione bronzea di un’imponente aquila che ora ti accoglie all’entrata della sala trofei di São Januário, lo stadio, a Rio de Janeiro, del Vasco da Gama, che quella manifestazione la vinse. Per forza, aveva una squadra da sogno e un portiere che ha provveduto ad anestetizzare il River. Si chiamava Moacir Barbosa: coi suoi compagni sognava di vincere il Mondiale del 1950, e invece il giorno dopo la gara contro l’Uruguay sarà per sempre additato come il maggiore responsabile di quella sconfitta. Ghiggia lo aveva trafitto sul primo palo e il Brasile aveva perso nella partita decisiva, quella che la storia ricorderà come il Maracanazo.
Il Campionato Sudamericano per club è stato l’ultimo momento di gioia di Moacir, e il primo embrione di una manifestazione differente. Anche dall’altra parte dell’oceano han preso nota. Il Vecchio Mondo si muoveva con lentezza. Nonostante si stesse sviluppando una interessante scuola calcistica sull’asse danubiano, c’era ancora devoto ossequio ai maestri inglesi, e alla loro forma dogmatica di vivere il football. Storia, tradizione, consuetudini. La Common Law del football era protetta da personaggi come Stanley Rous, per 30 anni presidente della Football Association prima di diventare il sesto presidente della Fifa, e uomini di campo come Stanley Cullis.

PIÙ inglese delle fragole con panna di Wimbledon, Cullis durante gli anni bui dell’Europa, con il nazismo incipiente, rifiutò di salutare col braccio teso gli avversari e Adolf Hitler, che aveva di fronte in tribuna prima di un match contro la Germania, a Berlino. Era il maggio del 1938 e fu l’unico della squadra a disobbedire all’ordine di rendere omaggio al Führer, in ossequio alle disposizioni che avrebbero generato il funesto accordo di Monaco. Fu punito e escluso dalla Nazionale per quell’atto coraggioso. «Potevano scegliere fra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore e avranno la guerra» disse Winston Churchill dopo la Conferenza di Monaco. Cullis, mesi prima, aveva scelto l’onore britannico.
Ritiratosi presto, a poco più di 30 anni costruì il famoso Wolverhampton, la squadra per cui faceva il tifo anche George Best, dalla sua cameretta al 16 di Burren Way, a Belfast. Fu Cullis coi suoi Wolves a restituire, ancora una volta, l’onore agli inglesi. L’Inghilterra era stata umiliata dalla Grande Ungheria, nel 1953, prima a Wembley (6-3), poi al Népstadion di Budapest (7-1). L’anno dopo, i Wolves si erano presi la rivincita sull’Honved in un match internazionale giocato al Molineux, il favoloso stadio inglese che, tra i primi in Europa, utilizzava l’impianto di illuminazione per consentire di giocare le partite in notturna. Mettendo ko la più importante squadra magiara del tempo, il Wolverhampton permise all’Inghilterra, e a quel nucleo compatto che ne gestiva il potere, di tornare a gonfiare il petto. «Wolves, the champions of the world»: titolavano così i giornali inglesi, per celebrare il trionfo.
Quella patriottica affermazione avrebbe portato alla nascita della Coppa dei Campioni, perché in quella occasione un importante giornalista francese, Gabriel Hanot de L’Équipe, alzò il ditino: «Campioni di che, se avete vinto una partita?». Si cominciò a studiare una formula adeguata, utilizzando, come base, proprio quel Campionato Sudamericano dei Campioni che aveva disputato anche Alfredo Di Stefano.

I WOLVES IN EUROPA ci tornarono, ma abbandonarono presto la baldanza: furono eliminati dal Barcellona di Helenio Herrera, László Kubala e Luis Suárez, che in quegli anni contendeva la Liga al Madrid di Di Stefano. Il gioco degli inglesi era defunto, ci volle un genio venuto dalla lontana Belfast per resuscitarlo e portarlo in cima all’Europa. L’irripetibile George Best, che qualche decennio dopo avrebbe detto: «Ci sono stati vari giocatori nel corso degli anni segnalati come il nuovo Best, ma questa è la prima volta che è stato un complimento per me». Si riferiva all’accostamento tra lui e Cristiano Ronaldo, l’altro grande numero 7 del Manchester United, ragazzo dalla vita complicata, con un papà vittima dell’alcol e una fuga da casa a soli 11 anni per diventare un fenomeno. Grazie alla conquista della decima Coppa dei Campioni del Real, nel 2014, Cristiano ha vinto il Pallone d’Oro; durante la cerimonia ha osservato che la sola cosa negativa di quella festa era l’assenza di don Alfredo. Se nera andato poco prima, dopo aver visto il Madrid chiudere un cerchio che lui aveva iniziato a tracciare.
Avrebbe sofferto, don Alfredo, a vedere il suo Real pareggiare contro la Juventus nella semifinale di ritorno al Bernabeu e perdere la possibilità di giocarsi, il 6 giugno prossimo, la finale di Berlino contro il Barcellona. Dal 1992, da quando cioè esiste la Champions League, nessuna squadra è stata capace di vincere la Coppa per due anni di fila. E pensare che lui ne conquistò cinque consecutive: Alfredo Di Stefano, il primo dei grandissimi, il volto simbolo del torneo per club più importante del mondo.