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 2015  maggio 27 Mercoledì calendario

L’AUTUNNO DEL PATRIARCA


[Ferdinand Piëch]

Sarà anche un caso, ma tutto finisce il 5 maggio. Quando, per la prima volta da vent’anni a questa parte, all’assemblea degli azionisti Volkswagen resta una sedia vuota: quella di Ferdinand Piëch. È l’epilogo di uno scontro durato poche settimane, che inizialmente sembrava destinato a concludersi come al solito, con la vittoria dell’onnipotente chairman (e la conseguente defenestrazione dell’amministratore delegato di turno, nel caso Martin Winterkorn) e che invece si è trasformato in una cocente sconfitta.
Cocente e probabilmente irrimediabile, almeno quanto era imprevedibile la sua abdicazione con due anni di anticipo, dal trono dell’Impero che lui stesso ha creato: quel gruppo VW che navigava in acque tutt’altro che tranquille, quando Herr Ferdinand ne ha preso in mano le redini.
L’OCA CHE NON 5A PIÙ VOLARE
Corre l’anno 1993, i conti sono in rosso, il fatturato veleggia sui 40 miliardi di euro e la capitalizzazione non supera i quattro: la Volkswagen è un’oca grassa che non sa più volare, è la sua lapidaria definizione. Non c’è bisogno di un economista per spiegare i risultati raggiunti nei 21 anni del suo governo: le cifre del 2014 parlano di 202 miliardi di fatturato, 111 di capitalizzazione, oltre 10 di utili. Sicché, può suonare strano che la sua prematura dipartita sia salutata con malcelata soddisfazione da quel mondo finanziario, analisti in testa, verso il quale Piëch per converso non ha mai nascosto una scarsa stima, per usare un eufemismo. Del resto, tutta la sua storia lo dipinge come capitano d’industria, come ingegnere a volte visionario, portatore dei geni trasmessigli dal nonno Ferdinand (Porsche), a cominciare dall’amore per la meccanica. Da anteporre sempre e comunque alle ragioni dell’economia, tanto da entrare in rotta di collisione con il resto della famiglia già dal primo incarico. Quando, da responsabile tecnico della Porsche, spende un mucchio di quattrini per lo sviluppo di un’auto da competizione destinata a entrare nella leggenda, la 917.
L’IDEA QUATTRO
Paradossalmente, la dipartita dalla Porsche segna il decollo della sua carriera, che trova una prima consacrazione all’Audi: magari non tutte le auto si sono convertite alla trazione integrale, come prefigura lui all’epoca, ma la trasformazione di una marca che negli anni 70 valeva meno della Opel nella rivale a tutto campo di Mercedes e BMW è interamente figlia delle sue intuizioni. E, ancora una volta, della passione per l’innovazione e la tecnologia: con la trazione quattro prima, con lo space frame di alluminio poi, nascono le basi su cui poggiano fama e prestigio dei quattro anelli di Ingolstadt.
Quindi è il turno della Volkswagen: fra accordi sindacali rivoluzionari (su tutti la riduzione parallela d’orario e di salario, per venire a capo della capacità produttiva in eccesso), radicale rinnovamento dei metodi di produzione e acquisizioni a tutto campo, prende corpo il gruppo che tutti conosciamo. Con i suoi 12 marchi che spaziano dalle moto (Ducati) ai grandi truck (Man e Scania), con le sue cento e passa fabbriche ai quattro angoli del globo, con una presenza ben consolidata sul primo mercato del mondo, quello cinese. Capolavoro finale, la partita a scacchi (vinta grazie anche all’alleanza costruita con politici e sindacati) che porta a radunare sotto un unico ombrello la Volkswagen e la Porsche. A controllare il tutto, la sua famiglia: naturalmente con lui alla guida.
INCIDENTI DI PERCORSO
Certo, nel regno di Piëch gli incidenti di percorso non mancano, valgano per tutti l’assunzione (con annesso trafugamento di documenti riservati) di Ignacio López, strappato alla Opel, o gli scandali legati agli allegri viaggi in Brasile “offerti“ ad alcuni dirigenti sindacali. Scandali che ad altri sarebbero costati il posto, ma che su di lui hanno poco più che l’effetto di un raffreddore. Così come non mancano i flop sul piano del prodotto, si pensi all’Audi A2 o alla Volkswagen Phaeton, tanto tecnicamente ineccepibile quanto capace di dilapidare risorse che da qualche altra parte sarebbero state sufficienti per realizzare non un modello, ma un’intera gamma. Niente di tutto ciò riesce mai a mettere in discussione la leadership di Piëch, sino all’epilogo di poche settimane fa.
Sui motivi che hanno portato l’intero board (dal cugino Wolfgang Porsche agli emiri del Qatar, dai rappresentati sindacali a quelli del Land della Bassa Sassonia) a ribellarsi all’imperatore, si possono soltanto avanzare ipotesi: qualcuno sostiene che il boss puntasse dritto (e contro il parere di tutti) all’acquisizione della Fiat-Chrysler. Qualcun altro ipotizza che, nel piano di riduzione dei costi indispensabile per riportare in alto i margini della Volkswagen, l’ad Winterkorn avesse osato pensare al taglio di alcuni dei gingilli preferiti di Piëch, dalla Bugatti alla prossima generazione dell’intoccabile Phaeton. Insomma, oggi come ai tempi della 917, l’eterno conflitto fra chi mette avanti a tutto la tecnologia e chi guarda in primo luogo al conto economico. Ma c’è pure chi interpreta la vicenda come l’ennesima (ma non ultima) puntata della saga che più volte ha contrapposto le varie fazioni delle famiglie Piëch e Porsche.
Certo è che nessuno immaginava un’uscita di scena tanto ingloriosa, per uno degli uomini che hanno scritto mezzo secolo di storia dell’automobile. E soprattutto che non toccasse a lui, l’ultimo imperatore, designare l’uomo destinato a succedergli sul trono.