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 2015  maggio 26 Martedì calendario

DISCESA NEGLI ABISSI


Il nostro pianeta, benché meraviglioso, ormai ci va un po’ stretto: le zone inesplorate della Terra sono sempre meno. Eppure c’è ancora un luogo dove quasi nessun uomo è mai arrivato e, inabitabile quanto un pianeta lontano, dove manca la luce e la pressione ci schiaccerebbe, popolato da esseri con bocche degne di Alien... È il regno degli abissi, la zona più inesplorata e ostile (almeno per noi) del pianeta. «Finora solo due sommergibili con persone a bordo hanno raggiunto la massima profondità degli oceani», racconta Alan Jamieson dell’Università di Aberdeen (Uk), nel libro The hadal zone (Cambridge University Press). Sono il Trieste (1960) e il Deepsea Challenger (2012), scesi oltre i 10mila m di profondità nella fossa delle Marianne. Pochi altri batiscafi con equipaggio si sono spinti a 6.500/7.000 m. Eppure gli scienziati non si scoraggiano: c’è un’ondata di esplorazioni che sfrutta i “droni sottomarini”, veicoli guidati a distanza o robot autonomi. Attraverso le loro telecamere e i loro strumenti, gli scienziati riescono a spingersi negli abissi, a vedere come si vive nelle profondità e a raccogliere campioni. E stanno incontrando nuove, sorprendenti forme di vita. Quali sono le ultime scoperte? E cosa vedremmo, se potessimo scendere anche noi a bordo di uno di questi veicoli? Immaginiamo di partire, per un viaggio che pochi hanno osato intraprendere.
SI SPEGNE LA LUCE. Superiamo subito le acque dove ancora giunge la luce del Sole: è chiamata la zona epipelagica. In soli 200 m di profondità, ospita la gran parte degli animali e dei vegetali marini che conosciamo. Prestissimo ci troviamo nella zona mesopelagica, che va fino a 1.000 m di profondità: qui ormai penetra pochissima luce, insufficiente per la fotosintesi fatta da alghe e altri vegetali. Da che cosa parte allora la catena alimentare? Da ciò che cade dal piano superiore: organismi morti, rifiuti organici, plancton, alghe. È la cosiddetta “neve marina”, che arriva fino ai fondali profondi. Gamberetti e seppie la mangiano, prima di diventare a loro volta prede per i carnivori, come i tanti pesci che cacciano spostandosi su e giù tra profondità diverse.
Già in queste acque si possono scoprire sempre nuove, insolite creature. Come i “funghi” individuati da un team dell’Università di Copenhagen. Dei funghi hanno solo l’aspetto, però. «Siamo sicuri che si tratti di animali, ma non sappiamo in che regno collocarli. Una cosa che dall’inizio del ’900 è successa forse quattro volte», ha dichiarato uno dei ricercatori, Jorgen Olesen. Queste creature – battezzate Dendrogramma enigmatica e Dendrogramma discoides – sono costituite da un disco piatto e un gambo con una bocca all’estremità. Vivono tra i 400 e i 1.000 m di profondità nei mari dell’Australia, ma ancora non c’eravamo accorti di loro.Scendiamo ancora, finché il batimetro segna 1.000 m: il limite oltre il quale la luce non penetra proprio più. Siamo entrati nella zona batipelagica, della notte perenne. Da quando abbiamo cominciato la discesa, poi, la pressione dell’acqua è aumentata di un’atmosfera per ogni 10 m; dopo un chilometro, verremmo già schiacciati se non fossimo in un batiscafo. Eppure tanti altri animali scendono fin qui senza problemi. Come il capodoglio, che si spinge fino a più di 2 km di profondità e nel buio – con l’ecolocalizzazione – caccia prede come i calamari giganti: creature quasi mitiche lunghe 13 m, i cui tentacoli sono responsabili delle cicatrici sul corpo dei capodogli.
PREDATORI DELLA NOTTE. I capodogli, però, sono solo di passaggio nella regione in cui ci troviamo adesso: i suoi residenti permanenti hanno dovuto modificare il proprio corpo, per esempio per adattarlo al buio, e cominciano a sembrarci davvero “alieni”. Molti pesci hanno sviluppato la bioluminescenza, cioè la capacità di produrre luce chimicamente in organi specializzati. Serve per farsi notare dall’altro sesso – i loro occhi catturano questi segnali luminosi – e per attirare le prede. Con un po’ di fortuna potremmo per esempio veder brillare l’esca del diavolo nero: lo conoscevamo, ma siamo riusciti a filmarlo nel suo ambiente per la prima volta nel 2014. Questo pesce ha un’escrescenza carnosa e luccicante che gli penzola dalla testa per attirare le prede. È la strategia usata anche da altri suoi “cugini” dell’ordine Lotiformi: questi pesci hanno un grande cranio e una bocca enorme, con cui inghiottono intere le prede attirate dalla luce davanti alle loro fauci. Tra l’altro, risolvendo il problema di incontrarsi con un partner in acque poco popolate, i maschi di alcune specie vivono attaccati alla femmina e ricevono i nutrienti unendo i sistemi circolatori. Esche, bocche enormi, zanne che trattengono le prede... Non stupisce incontrare queste strategie di caccia in una zona dove il cibo è sempre più scarso. Il cadavere di una balena che precipita sul fondo, per esempio, è una “festa” alimentare per gli organismi marini: due anni fa, un team di scienziati ha scoperto una decina di specie sconosciute attorno alla carcassa di una sola balena, depositata sul fondo a 1.500 m di profondità e divenuta casa di molti piccoli invertebrati. Mentre andiamo ancora più in basso, sotto i 2 km, svaniscono le ultime forme familiari, come gli squali. O i cetacei: quello che si spinge più in basso è lo zifio, una specie di grosso delfino dal muso a becco d’oca. Nel 2014 gli scienziati ne hanno registrato un’immersione record a 2.992 m di profondità. Sopporta la pressione e migliora l’immersione grazie a una cassa toracica che si comprime, schiacciando i polmoni e riducendo le sacche d’aria.
OASI VELENOSE. Arrivati a 4.000 m sotto il livello del mare, siamo ufficialmente nell’abisso: è la zona abissopelagica. Sui fondali potremmo incontrare degli anemoni, per esempio. Li ha appena avvistati Kirsty Morris del National Oceanographic Centre di Southampton (Uk), col robot Autosub6000, veicolo sottomarino autonomo che arriva a 6.000 m di profondità: ha visto che gli anemoni sono molto numerosi sul fondo. Prima non erano stati notati perché i ricercatori dovevano affidarsi alla pesca a strascico che li distruggeva.
Tuttavia, in rapporto al brulichio e ai colori di una barriera corallina, le piane abissali che si trovano fino ai 6.000 m possono sembrare un deserto. Ma ci sono per esempio “oasi” molto particolari. Sono i camini idrotermali, nelle zone vulcaniche sottomarine, da cui risale acqua riscaldata e ricca di sostanze chimiche. Sono vere oasi di vita, sostenuta proprio dalle sostanze tossiche espulse dai camini. Ci sono batteri che, al posto della fotosintesi, compiono la chemiosintesi: trasformano cioè lo zolfo. E i cosiddetti “vermi tubo”, invertebrati che vivono all’interno di un’armatura minerale da loro stessi costruita: sono privi di bocca e di apparato digerente e assorbono i nutrienti direttamente dai camini, metabolizzandoli grazie a batteri che vivono nel loro corpo.
E i pesci? Per vivere a queste profondità, devono sviluppare strategie particolari. «Qui pochi pesci possono permettersi la vescica natatoria (organo riempito con gas e usato per controllare il galleggiamento, ndr), che richiede energia per venire gonfiata e sgonfiata a comando. Al suo posto molti pesci degli abissi hanno sviluppato un corpo gelatinoso, che li aiuta a rimanere sospesi nell’acqua e a non precipitare a fondo», spiega Paul Yancey del Whitman College di Washington, che con Jamieson ha di recente guidato un’esplorazione nella fossa delle Marianne. Un team di ricercatori ha per esempio appena esaminato il corpo di un “pesce lumaca” (Liparidae), il Notoliparis kermadecensis: è tra i pesci che vivono più in profondità, a 7.000 m sotto il mare. Ha sotto la cute un tessuto gelatinoso che dona al suo corpo un profilo idrodinamico e lo fa nuotare meglio: richiede meno energia dei costosi muscoli, in queste acque povere di nutrienti.
I “pesci lumaca” sono tra quelli che incontriamo scendendo sotto i 6.000 m e arrivando quindi nella zona adopelagica: in genere vivono sui fondali e hanno un corpo allungato che ricorda le nostre anguille, come le famiglie degli Zoarcidae e degli Ophidiidae.
NELLA FOSSA. Questa è la regione delle fosse oceaniche, i luoghi che gli scienziati puntano a esplorare. «Sono isolate tra loro, e potrebbero aver dato vita a specie completamente diverse», dice Yancey. Ma più si scende, più sono necessari adattamenti per la pressione maggiore. «Essere sul fondo di una fossa è come avere un centinaio di elefanti in testa. Questa pressione influenza l’organismo a livello microscopico, per esempio spingendo sulle pareti cellulari e irrigidendole», spiega Yancey. Alcune specie abissali hanno quindi aumentato la percentuale di grassi nella membrana delle loro cellule, per aumentarne la fluidità.
L’alchimia degli abissi è però ancora più complicata: la pressione dell’acqua deforma anche le proteine, che per funzionare devono mantenere una forma perfetta. La soluzione si chiama Tmao, ossido di trimetilammina. «È la molecola responsabile della puzza di pesce, e serve a conservare la forma originaria delle proteine; nei pesci abissali è più presente che in quelli di superficie», dice Yancey. Più alti livelli di Tmao, però, rendono il fluido nelle cellule più concentrato. «E se il Tmao è troppo alto, le proteine si stabilizzano troppo e non funzionano più. Per esempio la miosina, che fa flettere i muscoli, non riuscirebbe a farlo. Sotto gli 8.200 m, insomma, servirebbe troppo Tmao per sopravvivere», aggiunge Yancey, che ha appunto calcolato il limite teorico di 8.200 m per i pesci. Va molto vicino a questa soglia quello appena scoperto proprio da Yancey, nell’esplorazione nella fossa delle Marianne: un “pesce lumaca” ancora senza nome, che nuotava a 8.145 m di profondità, un nuovo record per le riprese dei pesci abissali.
“GAMBERETTI” TENACI. A un certo punto, comunque, i pesci scompaiono. Ma altri animali si incontrano ancora più in basso. Nelle fosse per esempio ci sono crostacei che assomigliano a gamberetti. «Sono gli anfipodi, in grado di reggere la pressione in modo incredibile», dice Yancey. «Invece di usare solo il Tmao hanno sviluppato altre quattro molecole analoghe». Questo – insieme alla capacità di sopravvivere con poco – sta alla base del successo degli anfipodi. E chissà cosa altro potremo scoprire. Altro che spazio: la frontiera da esplorare è a migliaia di metri sotto la superficie del mare.Gabriele Ferrari