Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  maggio 25 Lunedì calendario

SAMSUNG, SUCCESSIONE AL VERTICE PENSANDO ALLE MOSSE DELLA APPLE

New York
Da quando un anno fa Lee Kun Hee, 73 anni e patriarca della famiglia che controlla il gruppo Samsung, fu colpito da un brutto infarto che lo ha debilitato e costretto a rimanere a lungo in un letto d’ospedale, Lee Jae Yong, 46 anni e suo unico figlio maschio, ha preso in mano le redini del maggior impero economico della Corea del Sud. E’ un conglomerato multinazionale di 70 società che operano in ogni settore, dalla cantieristica navale alle costruzioni, dalle assicurazioni all’elettronica, dove ha una posizione leader nel mondo. Ha in tutto mezzo milione di dipendenti e un fatturato di 305 miliardi di dollari. Da solo contribuisce a un quinto delle esportazioni coreane e alimenta il 17 per cento del pil del paese. Ma a dispetto di tanto potere, Jay Y., come tutti chiamano l’erede in pectore, dovrà aspettare la morte del padre per il titolo di presidente e per l’investitura formale: questa è la regola non scritta ma sempre rispettata delle chaebol, le “holding di famiglia” da cui dipende buona parte dell’economia coreana e di cui la Samsung è ormai la più grande. Per ora rimane solo presidente di due delle fondazioni create dal gruppo, dove l’aveva con previdenza collocato il padre prima di ammalarsi. In altri paesi gli azionisti sarebbero stati impazienti. Avrebbero preteso un passaggio reale dello scettro o la nomina di un chief executivepro tempore, come ad esempio avvenne alla Apple, l’ultra-rivale della Samsung Electronics, quando Steve Jobs, già gravemente ammalato, diede l’incarico a Tim Cook, che poi lo avrebbe sostituito. Ma alla Samsung Town, l’insieme di grattacieli di Seul che ospitano il quartiere generale del gruppo, ci si adegua alla tradizione e Jay Y. accetta di buon grado la situazione, accontentandosi del titolo di vice-presidente. Il che non gli impedisce, naturalmente, di prepararsi alla successione (anche in termini fiscali: quel giorno dovrà pagare 6 miliardi di dollari di tasse) e soprattutto di affrontare le sfide quotidiane e strategiche della chaebol. Negli ultimi mesi Jay Y. ha ristrutturato molte attività, con varie dismissioni nei settori della chimica e della farmaceutica. Si è lanciato in una dozzina di acquisizioni, a un ritmo molto più rapido del passato. Ha stretto rapporti con personaggi di calibro internazionale, come il presidente cinese Xi Jinping, il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg e lo stesso Tim Cook della Apple. Ha varato un maxi-investimento da 14,4 miliardi di dollari per la costruzione entro il 2017 a Pyeongtaek, al sud di Seul, di una immensa fabbrica di chip, di cui il gruppo è già il secondo produttore mondiale. Ha rilanciato la battaglia con Apple nel mercato degli smartphone di alta gamma, introducendo con successo il modello Galaxy S6 e riconquistando il primato nelle vendite mondiali. E si è avventurato nella nuova frontiera dell’Internet of things, cioè degli apparecchi della vita quotidiana collegati al web e resi intelligenti. Dietro a tanto attivismo di Jay Y, resta però un dubbio di cui si fanno portavoce analisti di Seul e commentatori economici: sarà veramente all’altezza del padre in termini di carisma e lungimiranza strategica? Oppure rimarrà ingabbiato in una gestione pragmatica, troppo attenta ai dettagli e troppo poco alle decisioni di lungo periodo, come qualcuno già gli rimprovera? In teoria il “principe della corona” ha tutte le carte in regola. Si è laureato all’università nazionale di Seul, la migliore del paese, ha preso un master alla Keio university in Giappone, ha studiato per un dottorato alla Harvard Business school, pur non completando l’iter per il titolo. E da quando è entrato a lavorare nella chaebol nel 2001 è stato fatto di tutto per prepararlo al meglio alla successione. D’altra parte, quella del padre non è una eredità facile. Non era stato lui a fondare il gruppo, bensì il nonno di Jay Y, Lee Byung-chul, che nel 1938 avviò una società di trading di pesci secchi cui poi si aggiunsero rapidamente, dopo la terribile guerra civile, le altre attività. Alla sua morte nel 1987, Lee Kun Hee, il terzo figlio e padre di Jay Y, divenne presidente e cambiò rotta: decise che doveva farsi largo nel mercato dell’elettronica, rubando quote alla Sony o alla Matsushita electric industrial, proprio come quelle società giapponesi avevano fatto dieci anni prima con il Made in Usa. A questo scopo la Samsung avrebbe dovuto migliorare la qualità dei suoi prodotti, che all’estero erano percepiti come mediocri (anche se a buon mercato), realizzando una integrazione verticale della produzione e accelerando l’innovazione. Kun Hee fece fare un grande falò dimostrativo con 150mila cellulari considerati scadenti e al tempo stesso investì miliardi nelle nuove tecnologie: a cominciare dagli schermi a cristalli liquidi. Nel 2007 la Apple lanciò il primo iPhone. Due anni dopo, sotto la guida di J.K. Shin, il braccio destro di Kun Hee per il business della telefonia mobile, la Samsung Electronics non badò a spese nel marketing della sua serie Galaxy S. Risultato: la quota dei sudcoreani nel mercato mondiale degli smartphone passò dal 12 per cento all’inizio del 2011 a una punta del 35 per cento nel terzo trimestre del 2013. Da allora il duello con la Apple non ha fatto che surriscaldarsi: a dispetto di accordi commerciali che legano i due gruppi, con forniture importanti di componenti elettroniche coreane per iPhone e iPad, Seul e Cupertino si sono affrontati nella aule dei tribunali di mezzo mondo per violazioni dei brevetti. In molti casi la Apple ha vinto, come nel 2012 quando un giudice americano condannò la Samsung a un risarcimento di 930 milioni di dollari (che però verrà ridotto dopo una sentenza d’appello). In altri casi ha prevalso il gruppo coreano, la cui presenza in America resta così importante che tra poco verrà inaugurata nella Silicon valley una nuova sede di 10 piani d’altezza, 100mila metri quadri e un costo di 300 milioni di dollari. L’anno scorso gli smartphone della Samsung (che contribuiscono per il 76 per cento ai profitti del gruppo) hanno ceduto terreno rispetto ai nuovi iPhone, e solo negli ultimi mesi hanno recuperato terreno, senza però tornare ai margini di guadagno di una volta. Ma al di là della sfida con Apple, il vero nodo per Jay Y. sarà, da un lato come affrontare la concorrenza di nuovi produttori lowcost cinesi e indiani, dall’altro dove trovare un nuova gallina dalle uova d’oro, visto che il mercato degli smartphone appare sempre più maturo, saturo e con margini in diminuzione. Il nuovo capo in pectore della Samsung punta molto sull’“Internet of things”: è un settore promettente, ma difficile, ancora agli inizi, dove nuove start-up potrebbero rubare spazio ai gruppi più consolidati. E comunque Jay Y. deve ancora dimostrare – a se stesso, al suo chaelbol e al mondo – di esser capace di cavalcarlo con successo.
Arturo Zampaglione, Affari&Finanza – la Repubblica 25/5/2015