Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  maggio 24 Domenica calendario

AMELIE, LA COACH DEI TEMPI MODERNI

«Ma copiate anche voi giornalisti, nonno?» mi ha domandato la mia nipotina francese Lea, alla quale la vicina di banco aveva copiato il compito in classe, e che era stata punita insieme alla ladra per presunta connivenza. «Copiamo, ma il più delle volte non lo diciamo» ho risposto. Oggi, per esempio, avevo deciso di scrivere le mie righette sulle domande che tutti fanno alle conferenze stampa a Djoko, cioè «Pensi di vincere il Grand Slam» quando lo stanco occhio è stato attratto da una copia del New York Times sul quale scrive, spesso bene, il mio amico Chris Crealy. Il titolo di quella column di 194 righe recava “Mauresmo blazes another trail”, e cioè “Mauresmo avvampa in nuovi sentieri”. La storia è quella della presunta prima allenatrice (coach) di sesso femminile che si sia trovata ad allenare un uomo. La donna coach si chiama Amelie Mauresmo, che qualche spettatore ricorda vincitrice due volte al Foro, e forse che due lettori ricordano oggetto del primo articolo su di lei, nel 1995, intitolato Profumo di Lenglen, sul nostro giornale, e cioè Profumo di Lenglen, la più grande All Times, alla quale ho dedicato tre biografie, una in francese, e una commedia.
Mi trovavo infatti presente ad uno dei 60 Roland Garros che ho vissuto, giocandone solo 3, quando il programma mi attrasse verso una partita che si svolgeva tra Nathalie Baudone, ora signora Furlan, e una bambina francese. Nathalie giocava un buon tennis, da 3° turno, ma la bambina aveva vinto il primo set 6-1 e, vedendo il risultato, mi affrettai – da volonteroso cronista – temendo un infortunio. Niente infortunio. Era stata la francesina, rovescio ad una mano tipo Lenglen, che l’aveva trafitta. Ammirai dunque il miracoloso tennis di Amelie, seguito da uno sciupìo regale di punti quasi vinti e, vedendolo ai bordi, ne chiesi al mio amico Patrice Dominguez, allenatore dei francesi. «Può diventare un fenomeno. Ma è un po’ strana, ha difficoltà, non le piacciono i suoi compagni».
Quello che il mio povero amico, che usava battere Panatta (è appena defunto) mi confessava, sarebbe emerso allo Australian Open 2006 quando Amelie, dopo aver vinto, prese il microfono e, di fronte a un pubblico attonito, espresse una dichiarazione d’amore per la sua compagna, la proprietaria di un bar di St. Tropez, che si valse di quell’inattesa popolarità. La sincera dichiarazione causò infiniti danni ad Amelie, che fu addirittura cacciata di casa, ed ebbe ad affrontare, in seguito, un pubblico francese – diciamo – poco generoso. Ma ecco che i tempi evolvono, Amelie viene nominata capitano della squadra francese di Fed Cup che affonda l’Italia a Genova, e insieme diviene coach di Andy Murray, in sostituzione di quel noioso di Lendl. E grazie, forse, alla sostituzione di mamma Judy Murray, ecco Andy risalire dal n. 10 al 3, dopo aver vinto la finale dello Australian Open. E, ancor più insolito, eccolo (appena anche maritato) vincere due tornei, Madrid e Monaco, senza mai in precedenza aver vinto una finale sul rosso.
E allora? Non può una donna allenare un uomo vittorioso? Certo che sì. E mi viene in mente, troppo tardi per un bell’articolo, che tale Wally Sandonnino, campionessa d’Italia un po’ chiacchierata, fu la prima allenatrice di Adriano Panatta. A quei tempi non si usavano ancora sostantivi quali coach e gay. Chissà se erano davvero tempi migliori. Per il tennis, dico.