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 2015  maggio 25 Lunedì calendario

IL SINDACO DELL’EXPO

Alla fine il topolino ha partorito la montagna. E in sella al topolino, redini in mano, il navigato Giuseppe Sala, versione brianzola del “sono Wolf, risolvo problemi” di Pulp Fiction . Dopo un palleggio che ha visto distrattamente in campo 5 governi (da Prodi a Renzi, passando per Berlusconi, Monti e Letta), l’Expo 2015 è partito in orario e rischia di chiudere la prima tappa con un numero di ingressi che il commissario straordinario, Sala per l’appunto, tacitamente pregusta: 3 milioni. Se l’obiettivo alla fine dei sei mesi è di arrivare a 24 milioni di biglietti, o almeno a 20, sarebbe un inizio promettente. Nella storia delle Esposizioni universali, maggio e agosto sono i 2 mesi più difficili; giugno, luglio e settembre sono considerati buoni; ottobre, il massimo, perché si scatena la sindrome dell’occasione mancata in chi non ci è andato. La morale è che un’avventura, fino all’altro ieri destinata a non lieto fine, e che pure continua a mostrare lacune imbarazzanti nella fascia cruciale del Cardo, la zona dedicata proprio all’Italia, potrebbe riservare un epilogo diverso.
Potrebbe. Nel qual caso Giuseppe Sala, Beppe per gli amici, vedrebbe aumentare di parecchio la schiera di chi lo chiama Beppe. E magari ritrovarsi in campo, in quella sinistra temperata per cui vota da sempre, per la corsa alla successione di Giuliano Pisapia a Milano. Potrebbe? «Sono per la vita in progress. Ho lasciato la Brianza per studiare in Bocconi. Sono entrato in una multinazionale come Pirelli a 25 anni e un gradino per volta ho conosciuto il mondo e il mestiere di manager. Io non so se voglio fare il sindaco né se sono in grado. So che non voglio pensarci adesso». Si vota a maggio 2016, tempo per riflettere ce n’è. A patto, naturalmente, di vincere la battaglia che si combatte alle porte di Milano, zona Rho-Pero, in un fazzoletto di un milione di metri quadrati, con un budget che, da un miliardo e 700 milioni di euro, è stato tagliato dallo stesso Sala di 300 milioni, minimo storico per una grande opera, l’equivalente di una decina di chilometri dell’alta velocità. Il governo Renzi, da spaventato che era per l’eventualità di un flop, è passato all’attacco e l’ex top manager chiamato a guidare la carica, dopo anni di sfibrante trincea, non vedeva l’ora. Vita in progress, ambizioni pure.
Giuseppe Sala viene da Varedo, provincia di Monza, borgo ricco, buono per crescerci, stretto per decollare. Cinquantasette anni il prossimo 28 maggio, figlio di un mobiliere, fisico asciutto (un metro e 80 per 73 chili), modi educati salvo eccessi temporaleschi di furore, cattolico convinto ma praticante intermittente, tre matrimoni di cui solo il primo in chiesa, Sala non ha quarti di nobiltà ma robuste dosi di caparbietà professionale, flessibilità nei rapporti, integrità a prova di magistratura: una carriera notevole e mutevole (da Pirelli, di cui diventa amministratore delegato a soli 39 anni, a Telecom, primo assistente di Tronchetti Provera; da direttore generale del sindaco Letizia Moratti, a capo supremo dell’Expo con Pisapia), e mai un inciampo, un guaio giudiziario, nonostante intorno a lui spesso monti il fango, come ai tempi di Tavaroli e del pasticcio della security di Telecom (Sala era allora direttore generale) o nelle retate che un anno fa hanno mandato in galera due colonne del suo staff in Expo. Poteva non sapere, Giuseppe Sala? La risposta, finora, è sempre stata sì. E anche quando, come nel caso dell’arresto del suo general manager Angelo Paris, lui va da Pisapia con le dimissioni in mano, non solo gli vengono respinte ma riceve anche una telefonata dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che lo sprona a resistere. E lui resiste, incassa il colpo del tradimento di Paris, poi quello del suo vice Angelo Acerbo, un ex Ambrogino d’oro finito nei guai per favorire il figlio, come incassò, quand’era uno dei più giovani capi azienda d’Italia (Pirelli pneumatici), la notizia di avere in corpo il linfoma non Hodgkin, lo stesso tumore che si era portato via suo padre Gino. Ne uscì cambiato, dice lui, più attento alle cose che contano, ma trascurando un particolare che non si perdonerà: non aver congelato il proprio seme.
Giuseppe Sala non ha figli, e per disgrazia neppure fratelli: sua madre Stefania ne ha persi tre, due erano gemelli, verso la fine della gravidanza. Forse non è un caso che il suo giocattolo preferito fosse un cagnolino giallo con le rotelle, che si tirava dietro con una cordicella, a compensare presenze mancate. Non gli ha mai dato un nome, lo chiama ancora “cane” e se l’è sempre portato appresso, di casa in casa, anche nell’ultima, 180 metri quadrati in affitto in zona Brera, dove vive con la terza moglie, Dorothy, avvocato, 11 anni in meno di lui. Confessa: «Non sono felice di essermi sposato tre volte. Non ho fatto pace con me stesso». E forse, rileggendo il tutto all’indietro, si capisce perché la canzone preferita del compunto dottor Sala sia una tenebrosa ballata dei Doors di Jim Morrison, “Riders on the storm”, cavalieri nella tempesta. L’ultima, cominciata 5 anni fa, è la sua tempesta perfetta e la sta cavalcando senza risparmio di energie. Al villaggio globale di Expo, si presenta alle 8, due ore prima dell’apertura, e non se ne va prima delle 21. Una specie di sindaco in servizio permanente effettivo.
Anche se piove a scrosci ed è la mattina di una giornata feriale, la gente arriva come torrenti, affronta ordinata i tornelli, poi si disperde in tanti rivoli tra i padiglioni dei Paesi, i ristoranti, le sculture a vista, gli spettacolini organizzati ai lati del decumano, cioè il vialone principale lungo un chilometro e mezzo, provvidenzialmente coperto da vele e tendoni. Il gran capo Sala, a bordo di una macchina elettrica aperta sui fianchi, con i sedili e il volante che provvede lui stesso ad asciugare con uno straccio, va in perlustrazione con uno sguardo severo al cielo e uno, più benevolo, ai tanti che lo salutano: volontari, militari, carcerati in servizio esterno, hostess. «Mi conoscono perché sono sempre in giro». E perché è sempre in giro? «Perché voglio controllare di persona. I dettagli sono fondamentali, e io sono un maniaco dei dettagli, ho una nevrosi per l’ordine: quando torno da una vacanza, non vado a letto se prima non ho svuotato le valigie». Il 2 giugno è atteso il premier Matteo Renzi. Il 5 giugno, giornata dell’Ambiente, il presidente Mattarella. Il 10, il russo Putin. A seguire, il francese Hollande e il britannico Cameron. E verso la fine del mese, il colpo grosso: Michelle Obama, molto più della “moglie di”. Possibilità concrete che venga? «Parecchie». La nave sembra aver preso vento. Però si poteva fare meglio, molto meglio, sostengono in tanti, confortati dagli aspri reportage del Guardian o di Le Monde.
Riassunto delle critiche: sembra un luna park, una fiera del business che se ne infischia del miliardo di umani che muore di fame, il progetto iniziale è stato svuotato con cattivo gusto, nello staff di 330 persone sono pochissime le competenze internazionali. Il commissario ha una spiegazione per tutto, ma nessuna rimarchevole.
Nel discorso di inaugurazione del 1° mag- gio, la prima persona che Sala ha omaggiato è stato Raffaele Cantone, dal marzo del 2014 presidente dell’Autorità anticorruzione. «Apriamo anche grazie a un magistrato ». Il primo incarico cruciale che Renzi ha affidato a Cantone è stato proprio quello di un’Expo che stava venendo travolta, oltre che dai ritardi, da una mareggiata di scandali e arresti. «Quando siamo arrivati, nel maggio scorso, il clima era di smobilitazione, si pensava a un piano B, addirittura a un cambio della sede», ricorda adesso Cantone. «Bisognava far ripartire l’Expo, agendo su due fronti. Primo: controllare tutte le carte. Secondo: fare in modo che le cose si facessero ». Ma è vero, dottor Cantone, che nel pieno della burrasca giudiziaria anche Sala ha rischiato di essere dismesso? «Chiunque fosse subentrato, avrebbe avuto buon gioco a scaricare colpe su chi l’aveva preceduto. Ma il presidente Renzi ha scommesso sulla persona che, oltre a non essere coinvolta in alcuna vicenda giudiziaria, aveva più voglia di farcela. Ed era Giuseppe Sala. Una scelta coraggiosa».
La onorerà, il signor Wolf della Brianza, fino all’ultimo giorno del suo mandato. È nel suo dna, gliel’ha trasmesso il padre Gino. Quando è morto, Giuseppe ha ceduto l’azienda di divani e letti di Varedo praticamente gratis, ma con un patto con l’acquirente: prendersi anche tutti i 40 dipendenti. Intanto Sala junior faceva fortuna lontano dal nido di famiglia. Pare che la buonuscita dopo 23 anni di Pirelli-Telecom si aggiri intorno ai 5 milioni di euro. Come commissario straordinario dell’Expo guadagna 240 mila euro l’anno, il massimo per un dirigente pubblico. Ma non saranno i soldi, dice, a determinare il suo futuro. «Il 1° novembre, appena chiusa l’Esposizione, vado via». La soluzione del pensionamento dolce a Zoagli, dove si è costruito una casa sul golfo del Tigullio, sembra la meno probabile. C’è la possibilità di rientrare nel giro dei top manager. Ma la vera tentazione, forse non confessata neanche a se stesso, è quella di continuare sulla strada del servizio al pubblico, sia pure per un’altra via, quella della politica. Quand’era direttore generale del Comune con la Moratti, Giuseppe Sala cominciò a progettare tante cose. Una si chiamava “Ambrogio” e prevedeva la privatizzazione delle “partecipate” più importanti, dalla Sea che gestisce Linate al grande contenitore della Metropolitana milanese. “Ambrogio” restò sulla carta. Come il suo libro, uscito da poco, sulle vie d’acqua e la riapertura dei Navigli a Milano. Due indizi non fanno una prova, e neanche un programma elettorale. Ma la filosofia del “vivere in progress” accorcia qualsiasi distanza. Anche quella, che appare siderale, tra le palazzine dell’Expo e il Palazzo Marino del Comune.