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 2015  maggio 26 Martedì calendario

IL SUDEST ASIATICO PERDE LA STRADA PER LA DEMOCRAZIA

Colpi di Stato, dissidenti in carcere, Costituzioni cucite a misura delle oligarchie militari: i Paesi del Sudest asiatico stanno smarrendo la strada verso la democrazia. La stessa Indonesia, a volte indicata come un modello nella regione, un mese fa ha mostrato un volto impietoso, mandando a morte per fucilazione otto persone per traffico di stupefacenti. Un’involuzione alimentata da molteplici fattori, alcuni interni, altri esogeni, come la minore propensione degli Stati Uniti alle “ingerenze” e l’esempio offerto dalla Cina, dove autoritarismo e crescita economica vanno a braccetto.
Eppure tra gli anni 90 del 900 e la prima decade del secolo in corso, il Sudest asiatico aveva avviato un processo di apertura così promettente da essere considerato una delle tappe più brillanti del cammino della democrazia. La fine della Guerra Fredda, l’integrazione di Paesi comunisti come Laos, Cambogia e Vietnam nell’Asean, la democratizzazione di Taiwan e Corea del Sud, erano elementi di una spinta che sarebbe arrivata a contagiare perfino il Myanmar, uno dei regimi più oppressivi del mondo, con la transizione avviata dalla giunta militare. Il presidente Thein Sein, l’ex generale che nel 2011 si è messo alla guida del cambiamento, sembrava aver tratto ispirazione proprio da vicini come Indonesia, Thailandia e Filippine, premiati da robusti tassi di crescita dopo aver adottato sistemi più liberali.
Al domino non sembravano immuni nemmeno baluardi dell’autoritarismo quali Singapore e Malesia, come ricorda il direttore del Foreign Policy’s Democracy Lab, Christian Caryl. Nelle elezioni del 2011, il partito a lungo al potere a Singapore aveva incassato il peggior risultato in 50 anni, pur conservando il controllo del Parlamento. In Malesia, l’ascesa dell’opposizione guidata da Anwar Ibrahim sembrava preludere alla possibilità di un’alternanza di governo, a scapito della vecchia guardia in sella dall’indipendenza. La quale, però, nelle contestate elezioni del 2013 è riuscita a mantenere il controllo del Parlamento e da allora ha avallato una severa repressione del dissenso, con decine di arresti tra le fila delle opposizioni. Ne ha fatto le spese lo stesso Anwar, imprigionato per sodomia. E sua figlia , rea di aver denunciato il trattamento subito dal padre. Il governo si difende sottolineando che la Malesia è «un Paese libero e democratico e che le sue leggi, valgono per tutti, anche per il leader dell’opposizione».
Più grave la situazione in Thailandia, alle prese con l’ennesimo capitolo della faida tra l’élite militare-monarchica e la famiglia Shinawatra. La giunta che ha preso il potere lo scorso anno non ha intenzione di andare a nuove elezioni prima di aver reso innocuo ogni possibile epigono del tycoon Thaksin Shinawatra e della sorella Yingluck, entrambi rovesciati da colpi di Stato e messi sotto processo. Nella Costituzione che il regime si prepara a varare (sarà la ventesima dal 1932), troverà posto un comitato etico che potrà far decadere i parlamentari «immorali». Lo scopo dichiarato della Carta è porre fine alla «dittatura parlamentare».
Il riflusso lambisce ormai lo stesso Myanmar. In autunno, il Paese andrà al voto per la prima volta da quando la transizione è cominciata. Ma l’icona della lotta per la democrazia, Aung San Suu Kyi, non potrà correre per la presidenza perché i suoi figli non sono di nazionalità birmana, i militari si sono garantiti un quarto dei seggi in Parlamento e potere di veto su ogni modifica della Costituzione, le tensioni etniche tra la maggioranza buddhista e la minoranza musulmana rohingya hanno acceso rigurgiti nazionalisti cavalcati dall’esercito.
«Il processo di democratizzazione - spiega Filippo Fasulo, ricercatore Ispi - si è bloccato negli ultimi anni. Se tra il 1990 e il 2009 il grado di libertà di questi Paesi era molto migliorato, ora c’è una marcia indietro». Venti anni fa, le Filippine spiccavano come unica nazione semilibera in una regione di Stati non liberi, secondo Freedom House. Nel 2009, l’organizzazione riconosceva la patente di Paese libero all’Indonesia e semilibero a Thailandia, Malesia, Filippine e Singapore. Oggi, nessuno Stato supera a pieni voti l’esame e sono giudicati non liberi tutti i Paesi dell’area, eccetto Indonesia, Malesia e Filippine, semiliberi.
«Uno dei problemi - aggiunge Fasulo - è stata la promessa mancata della democrazia. Partiti e leader emersi dalle autocrazie hanno ridotto il processo democratico a mero meccanismo di raccolta voti, promettendo un benessere per tutti che non è arrivato». Emblematica la parabola di Thaksin Shinawatra in Thailandia. Il tycoon ha raccolto consensi e governato nel segno del populismo e le opposizioni, costantemente sconfitte nelle elezioni, hanno reagito con proteste di piazza, fino a invocare a più riprese il ritorno dei militari, una ferita al modello democratico che richiederà anni per rimarginarsi. In Indonesia, l’era post-Suharto - scrive Kurlantzick - si è associata alla proliferazione della burocrazia e delle clientele. Pur restando una delle poche eccezioni all’ondata di riflusso, Jakarta rischia oggi di avvitarsi in una crisi politica che ha già eroso il consenso del neo-presidente Joko Widodo, un outsider rispetto all’establishment tradizionalista, spingendolo ad abbracciare posizioni populistiche e nazionalistiche, lontane dalle credenziali liberal che gli venivano riconosciute prima dell’elezione, meno di un anno fa.
Su tutto questo, sottolinea Fasulo, si è innestato il comportamento dell’Occidente, Stati Uniti in testa, che ha continuato a fare affari anche con governi autoritari, legittimandoli. Dall’altro lato, la Cina è riuscita «a proporre come efficace il proprio sistema di governance». Un esempio rafforzato dall’esperienza del Vietnam, dove il Partito unico domina incontrastato.