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 2015  maggio 24 Domenica calendario

DAL PCI A COSENTINO L’EVOLUZIONE DI DE LUCA NEL BUNKER DI SALERNO

Anni Settanta. Una notte, una notte intera a smontare tubi innocenti per conquistare la tessera del Partito comunista italiano. Primi tre lustri degli anni Duemila. Una notte, una notte intera per cercare una via d’uscita allo scandalo senza fine degli impresentabili candidati, per trovare una frase, uno slogan da proporre a un elettorato nauseato. “Solo pochi casi, l’unico condannato in lista sono io”. E avere, dopo tante telefonate con i vertici romani, la benedizione di Matteo Renzi, che si è turato il naso e si è fiondato a Salerno. Un florilegio di “caro Enzo” e “caro Matteo” che ha messo fine alla polemica sugli impresentabili. Ecco, sta tutta qui la fenomenale evoluzione di Vincenzo De Luca, nella orgogliosa e disperata rivendicazione della sua “condanna” esibita come medaglia al valore, ma anche usata come velo per coprire tutto.
Dalla questione morale di berlingueriana memoria all’abuso d’ufficio, dalle dure selezioni per candidarsi sotto il simbolo “falce, martello e stella su bandiere sovrapposte con la scritta Pci” alle liste accozzaglia di orfani del sistema di potere di Nicola Cosentino, turisti sulla tomba di Mussolini, fascisti del nuovo millennio, mogli di, figli di, oppositori di sindaci anticamorra, bionde fatali sorprese nottetempo a dibattere di politica in una lussuosa stanza d’albergo assieme all’“ideologo” Claudio Scajola. La versione deluchiana del Partito della Nazione di Renzi.
Se tra qualche anno uno studioso dovesse analizzare la mostruosa mutazione genetica degli eredi di Enrico Berlinguer, dovrebbe chiudersi in una stanza con Vincenzo De Luca, osservarlo e ascoltarlo per giorni.
E dovrebbe partire da quella notte a Salerno. Italia in bianco e nero, conclusione della Festa de l’Unità in una città che ribolle di idee e tensioni. C’è il Partito comunista scosso dal 1968. Franco Fichera, per il filosofo Biagio De Giovanni “intellettuale raffinato, acuto e ironico”, è il segretario e capisce che con i vecchi ceti sociali di riferimento non si va lontano. Servono energie fresche, quei giovani che animano circoli e movimenti extraparlamentari. Nomi che allora si affacciavano sulla scena politica e che oggi ritroviamo al vertice di giornali e trasmissioni tv di successo. Nomi che ritornano nella De Luca-story.
Come Michele Santoro, o Lucia Annunziata, la direttrice dell’Huffington post che non pochi guai ha provocato all’immagine dell’aspirante governatore della Campania con la denuncia di Roberto Saviano su Gomorra nelle liste. Santoro all’epoca è un maoista, Lucia una bella ragazza, figlia di Raffaele ferroviere comunista, e milita nel Manifesto. Vincenzo De Luca smonta tubi innocenti. Grazie a questa sua “prova” ottiene la tessera, gliela firma Rocco Di Blasi, in quegli anni responsabile della propaganda, poi caporedattore de l’Unità e direttore di Salvagente. Quella di via Manzo è una federazione particolare.
A Salerno arriva Umberto Terracini per difendere un gruppo di anarchici. Le campagne elettorali vengono aperte e chiuse dai poeti Alfonso Gatto e Edoardo Sanguineti. Formidabili quegli anni, direbbe Mario Capanna. E formidabili lo furono davvero. Quei giovani entrano nel Pci, Santoro dirige il comitato cittadino, altri come Nello Rossi, oggi procuratore aggiunto a Roma, si occupano di diritti civili, De Luca finisce di smontare i tubi innocenti e diventa “rivoluzionario di professione”, funzionario del Partito. Quando Fichera lascia e si dedica all’insegnamento universitario, la prima delusione di Vincenzo.
Berlinguer e Antonio Bassolino (l’odio tra i due ha radici antiche) gli preferiscono alla guida della Federazione Paolo Nicchia, un operaista tormentato, l’esatto contrario di Vincenzo, già allora uomo dalle certezze granitiche e dalle maniere spicce. Il decennio successivo è quello del terremoto che devasta la Campania e fa emergere il peggio del sistema di potere democristiano. Berlinguer proprio a Salerno lancia l’alternativa democratica alla Dc. Un flop. Nel frattempo in Campania cresce il potere del “clan degli avellinesi” e di Ciriaco De Mita.
L’Irpinia è capitale del Regno, Salerno ridotta al rango di “Avellino marittima”. Vincenzo è sempre lì, a scalare i vertici di un Pci già in crisi. Gli altri, quei giovani promettenti che tanto piacevano a Berlinguer, vanno via e cercano fortuna altrove. Solo chi resiste vince.
E Vincenzo comincia a vincere nel 1992, grazie a Tangentopoli e a quegli avvisi di garanzia che oggi sono la sua croce. Da vicesindaco prende il posto del sindaco socialista Vincenzo Giordano, travolto dai processi e solo negli anni successivi assolto. L’anno dopo si candida con una sua lista personale e vince. Così sarà per i 23 anni a venire. Vincere sempre e a tutti i costi, anche chiedendo i voti alla bestia nera della sinistra campana, Nicola Cosentino. Non è solo storia di queste settimane, ma di ieri. Elezioni comunali del 2006, Vincenzo non ascolta il partito, i Ds, e si candida, da Napoli Bassolino, sempre lui, gli contrappone un ex Dc, Alfonso Andria. Al ballottaggio è dura, De Luca è al 37 per cento, il suo avversario al 43. Il Re di Salerno rischia di perdere tutto, e allora in una fabbrica dismessa incontra Nicola Cosentino, gli chiede i voti.
Nick ascolta, prende nota, e parla: “Propongo di sostenere De Luca, si tratta di preferire le persone agli interessi”. E Vincenzo vince ancora una volta, acclamato dalla borghesia cittadina e dalle truppe di ’O vichingo, capo degli ultrà. Cemento, opere pubbliche, grandi inaugurazioni, ossessiva “salernità”, e uso disinvolto delle risorse pubbliche con le società miste, la ricetta del successo.
Per De Luca vale la definizione di “broker”, “imprenditore sociale” coniata dalla studiosa Gabriella Gribaudi: “La sua caratteristica principale è quella di usare catene e reti informali di rapporti per controllare risorse economiche e politiche”. Grandi architetti come Bohigas e Bofill, e opere eternamente incompiute. Inchieste e avvisi di garanzie. Questo è il modello, chi dissente è fuori. Come Alfredo D’Attorre, oggi bersaniano di ferro, ieri deluchiano convinto al punto da mettere nero su bianco in un saggio, Perché gli uomini ubbidiscono…, la sua fedeltà al Re. Ne è passato di tempo da quella notte di tubi innocenti da smontare, e di quella “grandiosa esperienza umana” (De Giovanni) che fu il Pci. Ora è il tempo degli impresentabili. Lo vuole il nuovo Partito della Nazione.
Enrico Fierro, il Fatto Quotidiano 24/5/2015