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 2015  maggio 24 Domenica calendario

NESSUNO UCCIDERÀ L’INTENTO EPISTOLARE

Sul tema«morte della lettera» (delle buone vecchie lettere di carta, con buste e francobolli) si è prodotta negli anni una certa dossografia. L’argomento sembra ovvio: l’offerta di strumenti per inviare messaggi digitali – dalle email a WhatsApp e dintorni – è vastissima, per lo più gratuita, e promette un recapito istantaneo. Non è un caso che la lettera classica sia ormai caduta in disuso, al punto da supporne lecitamente una fine rapida e indolore. Ma le cose stanno davvero così?
In un recentissimo paper uscito su «Cultural Sociology», Liz Stanley propone un approccio più meditato al tema, soffermandosi in primo luogo su cosa sia questa “lettera classica” che molti danno per spacciata. In effetti, lungi dall’essere un paradigma immobile, la lettera ha subito evoluzioni significative molto prima della comunicazione digitale. La forma-tipo di un foglio di carta con un’intestazione, una busta autografa e un sistema postale di recapito non è più antica del XVIII e XIX secolo. I suoi antenati erano diversi non solo nel supporto materiale, ma anche nello stile complessivo. Cosa pensare, ad esempio, delle epistole paoline — che contengono un indirizzo generico ma non sembrano interessate a una risposta diretta? O delle tavolette di legno su cui i soldati romani al vallo di Adriano scrivevano indifferentemente lettere, comandi militari, resoconti? Oppure, perché non considerare lettera anche il pezzo di plastica trasparente con una scritta WIN al di sopra, inviato dal padre dell’autrice alla madre durante la seconda guerra mondiale?
In sostanza: l’argomento della “morte della lettera” pecca di eccessiva indulgenza nei confronti di una singola incarnazione storica del mezzo. Un metodo di indagine più liberale sta invece nel ridare priorità alla letterness, ovvero la capacità del messaggio di adattarsi, sulla base di un bisogno non riducibile alle sue varie incarnazioni: l’intento epistolare, la volontà di comunicare tramite una forma scritta.
Naturalmente sarebbe assurdo negare i profondi mutamenti che la letterness ha subìto negli ultimi vent’anni: in primo luogo, l’enorme riduzione del tempo che intercorre fra invio, recapito e attesa di risposta. E tuttavia, anche in questo caso la visione soffre di una certa miopia storica: basti pensare a come il telegrafo o la cartolina vennero viste in Gran Bretagna al tempo della loro introduzione — esattamente come veri e propri “assassini” del messaggio scritto, mentre esso non morì affatto. Inoltre, ciò che non è cambiato è la distanza spaziale che la letterness consente di coprire. I nostri tempi di reazione sono molto più accelerati — forse troppo, verrebbe da aggiungere — e il linguaggio di tali comunicazioni è molto più informale e simile all’oralità di quanto fosse un tempo: ma il modo di tenersi in contatto senza presenza fisica resta lo stesso. (E a chi critica l’assenza di calore o personalità dello scambio digitale rispetto a un foglio autografo, Stanley ricorda le possibilità di cambiare font, aggiungere emoticon o allegare fotografie o video).
Insomma, una nuova certezza emerge: l’intento epistolare guida ancora gran parte del nostro modo di tenere vive dei rapporti. La lettera nel suo genere ottocentesco è forse destinata a scomparire, come fu per altre forme della letterness: non però l’intento epistolare. Basti pensare all’uso che facciamo dei telefoni cellulari, e al modo in cui la necessità di scriversi ha rapidamente preso il sopravvento su quella di parlarsi: la nostra rete relazionale — proprio come la società che ci circonda — è sempre più scritta.
Giorgio Fontana, Domenicale – Il Sole 24 Ore 24/5/2015

Stanley, The Death of the Letter? Epistolary Intent, Letterness and the Many Ends of Letter-Writing, Cultural Sociology June 2015 9: 240-255