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 2015  maggio 24 Domenica calendario

NAZIONALE - 24

maggio 2015
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R2 Spettacoli
Q
ROMA
UARTIERE PARIOLI, FIORE EDILIZIO DELLA CAPITALE,
Come si svilupperà il progetto a due voci?
tutt’intorno si vede la città, la sua città, e Baglioni sembra cercare le tracce del suo passato. «Sono arrivato al mio cinquantesimo anno di carriera, che fa un po’ ridere, nel senso che nel 1964 sono salito per la prima volta su un palco. Ero giovanissimo ed era un concorso di voci nuove, San Felice da Cantalice, santo molto rinomato anche se non è diventato come Sanremo, a Centocelle. Gianni aveva cominciato prima. Una volta tanto adesso faccio una cosa con uno un po’ più grande di me».
«In questo Gianni è più abituato e più bravo di me, ma io penso che dobbiamo minimizzare l’autoreferenzialità, in modo che quando arriveremo sul palco ci dovrà essere una terza cosa, che non sia né io da solo né lui da solo».
Di sicuro avete tanto da raccontare, due storie, ma anche la storia del nostro Paese attraverso le canzoni…
«Questa parola, storia, fa tremare e va usata con giudizio e delicatezza. Però mi raccomando, non dobbiamo fare i monumenti. Perché alla fine sui monumenti ci vanno a fare la cacca i piccioni».
Racconterete storie da “capitani coraggiosi”?
«Il titolo è più che altro un proponimento, evoca quella categoria di pensiero che non muore mai, il sogno, l’avventura, la lealtà, la nobiltà, lo spirito di servizio, ma anche una certa durezza, nessuna autoindulgenza. Sembrerebbe tutto un mondo che oggi è un po’ sparito, per andare insieme di nuovo alla ricerca di qualcosa che ti faccia sentire come un donchisciotte. Sarà presuntuoso? In questo momento di assenza di figure guida ci sembrava giustamente ironico. Ma anche propositivo. La voglia di rifondare qualcosa pensando ai grandi uomini che purtroppo non ci sono più, ai grandi padri, alle grandi parole, in questo insolentimento generale, in questa continua rissa da saloon...».
Che idea di musica verrà fuori?
«Io riconosco a Gianni che tutto quello che ha cantato è riconoscibile, ha quello che pochi interpreti hanno: fa diventare sue le canzoni che canta. E poi sono ammirato dalla sua storia, dall’idea di mettersi a studiare musica quando tramontò la prima parte della sua carriera. Abbiamo in comune il rispetto della canzone popolare, lui anche più di me. Lui ha delle idee molto precise, quasi dei dogmi, deve raggiungere un climax a un certo punto, preciso. E poi ha la capacità straordinaria di andare subito alla sostanza delle cose. Io sono molto più disordinato ».
Anni fa lei si lamentava di essere percepito come un moderato di centro, allora si diceva un democristiano, mentre Morandi è sempre stato percepito come un uomo di sinistra, anche quando cantava semplici canzoni d’amore… «Non siamo in presenza di un compromesso storico, quello l’hanno già fatto, ma guardandomi indietro quel tipo di collocazione un po’ da sagrestano col tempo è diventata un vantaggio. Oggi il fatto di non essere collocato non pesa più, penso che ci si possa affrancare da queste etichette. E in realtà molto di quella percezione fu causata da un piccolo incidente. Negli anni Settanta fui messo a mia insaputa in un manifesto contro il divorzio, diciamo per la famiglia, ed era difficile da spiegare l’errore. Sembrava quasi che volessi giustificarmi».
Il suo approccio con le canzoni di Morandi, qual è stato?
«Mi piacevano tantissimo. A quattordici anni andavo in giro per festivalini di voci nuove, mia madre mi vestiva con camicia rosa e pantaloni celesti, sembravo un confetto bisex, e una volta a Bracciano avrei dovuto cantare Non son degno di te, che amavo molto, ma arrivò il direttore dell’orchestra e disse che la cantava già un altro. Quindi mi affibbiarono La fisarmonica che però mi piaceva meno: avevo già un complessino beat, e questa idea della fisarmonica mi sembrava vecchia. Erano canzoni meravigliose costruite in modo perfetto».
Nella dinamica a due, qual è la differenza più vistosa?
«Gianni toglierebbe l’eccedenza, vorrebbe arrivare subito a qualcosa che colpisce emotivamente, toglierebbe le introduzioni, del resto è la sua scuola, e ha un senso. Io tendo ad allungare, a complicare, non riesco a rinunciare ai preliminari. Lui lo fa anche come vezzo, è un giocatore, deve agire. Chi scrive, come me, pensa di più alla strategia. Ci siamo raccontati un sacco di noi, anche delle famiglie, dei nostri genitori, mio padre che era monarchico, carabiniere, suo padre partigiano, però poi riscontri delle analogie fortissime nell’idea di paternità che è cambiata tanto perché nessuno di noi è disposto a fare l’attore vecchio, il caratterista. A volte ti ritrovi con dei figli che sono più rigorosi dei padri, mio figlio è molto più severo e rigoroso di quanto non sia io».
La vostra idea non ricorda il precedente di Banana Repubblic, con Dalla e De Gregori?
«Magari, perché no, ma i tempi sono troppo diversi. Loro ci arrivarono col vento in poppa. Oggi si naviga di bolina, col vento contro».
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