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 2015  maggio 23 Sabato calendario

DAL NOSTRO INVIATO TORINO

Si sente ancora un libidinoso?
«In parte sì. È chiaro che alla mia età non mi eccito più come un tempo, però quando vedo la mia squadra fare il 70 per cento di possesso palla e arrivare al tiro dopo 27 passaggi consecutivi allora sì, un po’ di libidine la provo ancora».
Stiamo parlando di calcio, ovviamente. Ma se ai tempi l’hanno soprannominato «Mister libidine», qualcosa vorrà pur dire. Giampiero Ventura, di anni 67 («ma non stia lì a ricordarlo, la mia caratteristica è dire sempre la verità però sull’età possiamo fare un’eccezione, e comunque sembro più giovane»), genovese («mi sono autodefinito giustamente parsimonioso, ma con il tempo direi che sono diventato esageratamente brillante...»), segno del Capricorno, ascendente Toro. E che ascendente: da 4 anni sulla panchina granata con una promozione dalla B, una crescita costante, un ottavo di finale di Europa League. E domenica una sfida in casa del Milan presentandosi da favorito. Chi l’avrebbe mai detto?
«Abbiamo lavorato duro per arrivare fin qui. Un quadriennio cominciato con dieci tifosi che ci guardavano storto al ritiro di Sappada e culminato con le migliaia di persone che ci aspettavano a Caselle dopo la vittoria storica al San Mamés».
Un percorso concluso?
«Una tappa importante. Ora sta a noi decidere se accontentarci di quello che abbiamo fatto, che è comunque tanto, o se partire da qui per costruire qualcos’altro. Il tempo dirà».
Com’è il suo rapporto con il presidente Cairo?
«Di grande correttezza e stima, credo reciproca. Penso di avergli dato qualcosa e di aver ricevuto in cambio qualcosa, anche umanamente».
Qual è stato il punto di svolta della sua squadra?
«Siamo riusciti a cancellare la parola “speriamo” sostituendola con “vogliamo”. Se vogliamo possiamo, come è accaduto nel derby. Come è accaduto con l’Athletic Bilbao».
È opinione comune che le squadre di Giampiero Ventura giochino bene.
«Da una parte mi fa piacere e dall’altra mi infastidisce».
Perché conosce già la domanda successiva...
«Cioè come mai non ho mai allenato una grande squadra? Esatto. E incontrare presidenti che mi dicono “lei è bravo, avrei dovuto prenderla” non aiuta».
Come mai non ha mai allenato una grande squadra?
«Per tre motivi».
Ce li dica.
«Il primo: la gente non capisce che le idee non hanno età. Si possono avere buone idee anche se non si è più giovanissimi, si può essere vecchi dentro anche se si è ragazzini. In poche parole: un giovane non è sempre bravissimo e un vecchio sempre da buttare».
Il secondo.
«Non ho capito subito, è una mia colpa, quanto fosse importante apparire, passare dai salotti e dalle trasmissioni tv giusti».
Il terzo.
«Semplice sfortuna. Quando ho cominciato ad allenare io, andavano di moda i grandi saggi alla Mazzone, oggi i giocatori che hanno smesso da un anno».
Come Inzaghi, che affronterà domani.
«Come Inzaghi. E come altri».
Qual è il compito principale di un allenatore?
«Ho scelto una frase di Tom Landry, un santone del football americano, come paradigma: “il mio lavoro è far fare a qualcuno qualcosa che non vuole fare, per fargli raggiungere quello che vuole raggiungere”».
I giocatori sono davvero così? Senza voglia di fare?
«Non sempre, ma di sicuro il compito di un allenatore è di trovare la chiave d’accesso a ognuno di loro, per permettergli di esprimersi al meglio».
Vujadin Boskov diceva che l’allenatore è un dirigente accompagnatore ben pagato.
«Se alleni i Messi o gli Ibrahimovic, sì. Se alleni giocatori normali, allora devi metterci qualcosa di tuo».
Lei di suo che ci mette?
«Un feroce lavoro durante la settimana. Poi, paradossalmente, la domenica il mio lavoro è finito: conta mille volte di più quello che è stato fatto prima».
Il 4-2-4 marchio di fabbrica di Ventura è diventato con il tempo un 3-5-2. Semplice evoluzione?
«No, necessità di lavorare in base ai giocatori che ti mettono a disposizione. I sistemi di gioco sono relativi: per me nella costruzione delle azioni contano il concetto spazio/tempo e la lettura delle situazioni».
Domani ritroverà Alessio Cerci, che a Torino ha fatto benissimo, fuori meno.
«Con lui avevo trovato la chiave d’accesso».
Com’è che altri allenatori non ci sono riusciti?
«Bisognerebbe chiedere a loro».
A Bari le tolsero Bonucci e Ranocchia in un colpo solo, a Torino le hanno venduto Immobile e Cerci, 35 gol in due. Com’è dover ricominciare ogni volta da capo?
«Sta nelle cose: se non sei una grande società, e a volte persino se lo sei, ti tocca cedere i pezzi pregiati. L’importante è programmare e farsi trovare pronti al dopo».
Si aspettava un Quagliarella così determinante?
«La realtà è che Quagliarella ha fatto meglio di quanto lui stesso si aspettasse. Tutti ricordano i gol da metà campo, pochi invece che era reduce da quasi due anni di inattività».
Ha trovato la chiave d’accesso anche per lui?
«A quanto pare».
Come si sente ad allenare il Torino?
«Mi sento in un’entità che ha una grandissima storia alle spalle, ma che deve pensare al presente e soprattutto al futuro. Ricordo ancora che cosa mi disse il tassista che mi accompagnò la prima volta in sede a Torino».
Vuole dirlo anche a noi?
«Mi disse: noi del Toro non pretendiamo che lei vinca qualcosa, vogliamo poter tirare fuori le sciarpe dai cassetti».
Missione compiuta?
«Vedo tanti bambini andare a scuola con la maglia del Toro, vedo tifosi finalmente felici. E di questo sì, sono orgoglioso».
Domani il Milan.
«E vincendo saremmo a tanto così dall’Europa. Se vogliamo, possiamo. E chissà che magari si possa uscire da San Siro con un po’ di sana libidine addosso» .
Roberto De Ponti