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 2015  maggio 23 Sabato calendario

Ci sono molte forme di preghiera. Alcune sono inconsapevoli. Per esempio ritrovarsi in macchina a cantare a tutta gola Io vagabondo dei Nomadi, ripetendo il ritornello all’infinito: se non è un rosario quello

Ci sono molte forme di preghiera. Alcune sono inconsapevoli. Per esempio ritrovarsi in macchina a cantare a tutta gola Io vagabondo dei Nomadi, ripetendo il ritornello all’infinito: se non è un rosario quello. Altre sono i mantra di nostra nonna, ciascuna col suo santo dalle specialità esclusive. Come Santa Rita «soccorritrice dell’ultima ora, avvocata dei casi disperati». Altre ancora sono forse le più profonde. Come quella volta in cui da ragazzi, in bicicletta lungo una provinciale tra i campi, siamo stati perfettamente felici. Parte del mondo. Con quella sensazione impagabile del sapere almeno per un attimo chi siamo e cosa vogliamo. Quella che poi, dopo, cercheremo di ritrovare per tutta la vita. Il dàimon che inseguiremo per sempre. Parla di questo la storia di Mila e della sua Santa degli impossibili , il nuovo piccolo romanzo di Daria Bignardi (Mondadori, pagine 112, e 12) presentato sabato scorso al Salone di Torino. Storia di una donna che, cresciuta in provincia, approda a Milano dove ha trovato un po’ tutto: l’università, un lavoro da giornalista al «Corriere» , il marito Paolo, la figlia Maddi e altri due gemelli, l’impegno nel volontariato. Eppure. E dire che quella «città da combattenti, da apolidi, da legione straniera», sarebbe il suo habitat ideale. Che vuole di più? Invece un giorno, come una mosca che sbatte per anni su un vetro, Mila finisce le batterie e si risveglia in ospedale. Dove conosce Annamaria, insegnante laica ma osservante i voti di povertà, castità, obbedienza. E in un angolo lontano della memoria di Mila si riaccende una luce. Non è la storia di una conversione, e neppure quella di una mamma frustrata, di una giornalista inappagata, di una moglie disamorata. Cioè, è vero che nella trama ci sono un marito capace di ferire per eccesso di logica, la lotta eterna contro i pidocchi dei figli, la rinuncia alla «vita in cronaca» del giornale in nome dei medesimi (figli, non pidocchi), c’è l’umanità dolente di San Vittore dove Mila fa la volontaria. Tutto questo sarebbe semplicemente «la vita». Se non fosse che a Mila non basta. Mila pensa sempre e conta tutto. Quante cadute in bicicletta, quante volte le è venuto un herpes. «Volte» è la parola che in cento pagine ricorre più volte, oltre quaranta. Amore neanche cinque. E poi c’è quella frase che tutti ripetono sempre più spesso, anche in quella sua Milano combattente, dal barista alla farmacista: «Che ci vuol fare». Insopportabile. La prigione stringe. La famiglia stringe. Il lavoro stringe. Magari non tutti allo stesso modo. Ma per quelli come Mila è tutto troppo parziale. C’è bisogno di volare e di farlo anche per gli altri, un po’ come la Santa Rita dei miracoli che in un delicato disegno di Dino Buzzati impreziosisce la copertina del libro. Una metafora di quell’unico miracolo che conta, e che è prendere in mano il proprio destino. Il bisogno di sentirsi immersi dentro «l’amore del mondo», come quella mattina lontana in bicicletta tra i campi. È quella la cosa che devi trovare. Sennò muori. Bisogno di trascendenza, di «diventare quello che siamo» come da Pindaro a Nietzsche hanno detto in cento, ma di farlo adesso, sulla terra, non in paradiso. Mila qualcosa la troverà. Ma non è detto che la ricerca sia finita.