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 2015  maggio 07 Giovedì calendario

PERDONO I KILLER MA VOGLIO VERIT


«Ho perdonato chi ha ucciso mio padre».Maria Fida Moro, la prima dei quattro figli del leader democristiano Aldo Moro, non ha dubbi: «Papà avrebbe fatto lo stesso se fosse stato al posto mio». Regala il suo perdono a chi ha mentito, ritrattato, a chi ha mai volure dire la verità? «Non tutti i brigatisti la conoscono. E chi sa preferisce tacere. Per paura. Ma non per loro, per i loro cari. Mio padre era convinto in quanto giurista che la pena ha un senso solo se riabilitativa. In caso contrario è vendetta». E non è vendetta quella che cerca Maria Fida. Ma verità. «Finché tutti gli italiani, anche chi nel ‘78 non era ancora nato, non si assumeranno la responsabilità etica della morte di un innocente, ci sarà sempre un punto di inciampo. Se non si farà chiarezza a livello collettivo sulle reali responsabilità della morte di Aldo Moro questo Paese resterà nel fango».
È per andare oltre, per uscire da «una palude senza politica e senza democrazia» che la primogenita dello statista ucciso dalle Brigate Rosse ha raccontato suo padre in un dvd dal titolo L’Eterna verità. Lo ha fatto insieme al figlio Luca, il nipote a cui il presidente riservava i pensieri più intensi e strazianti durante i 55 giorni del sequestro. «Avevo meno di tre anni quando mi portarono via il nonno. Nel dvd ci sono le nostre foto. Ci sono le canzoni che ho scritto per lui. C’è Aldo Moro vivo, perché è così che vogliamo ricordarlo io e mia madre. La nostra è un’impresa disperata perché sono in tanti a volerlo dimenticare, come se non fosse mai vissuto. Ma il nostro amore renderà il loro tentativo inutile. Questo dvd, come altri libri prima, è per i ragazzi del futuro, per chi non ha conosciuto Aldo Moro».
«CI INSEGNÒ LA PAZIENZA»
Luca ha un maglioncino grigio, orecchino e scarpe da tennis. È un musicista. Sulla paletta della sua chitarra c’è una foto in bianco e nero del nonno. Il suo blues inonda la sala conferenze del centro “Io sono” a Gardolo di Trento dove Maria Fida e Luca Moro hanno presentato la loro «eterna verità». Una musica che ti entra nell’anima così come i contenuti di un dvd che riesce a toccare il cuore, a bussare con il suo dolore e con la sua verità davanti a porte rimaste ancora chiuse. «Alle porte di chi ordinò la morte di mio padre. Aldo Moro è stato troppo spesso ridotto ad un oggetto nel portabagagli di una Renault. Si parla solo della sua morte. Mai della sua vita. E in questo dvd ci sono ricordi, manifestazioni di affetto, aneddoti... Ci sono il suo amore, la sua gentilezza, la sua pazienza: tutte cose che papà ha cercato di insegnarci. E che tramandiamo con fierezza», dice Maria Fida, con gli occhi fissi su una vecchia foto a colori proiettata sullo schermo davanti a lei. È la stessa che ha voluto impressa sul dvd. «Mi chiese lui di scattarla... E non amava farsi fotografare. Era il primo ottobre del 1977. Aveva in braccio Luca e stringeva entrambe le sue manine... Mentre mio figlio aveva un cappellino bianco che era stato mio. Mamma aveva l’abitudine di passare i vestiti da un figlio all’altro. Di conservarli. Così alcuni sono arrivati a Luca». Circondata dai foulard che ricoprono le pareti di una sala colorata con la tinta del sole, Maria Fida Moro riprende i suoi ricordi, offrendo a noi che l’ascoltiamo vivide immagini: «Mia madre ci ha insegnato ad amare la montagna, e a cantare quei canti popolari che papà adorava. Eravamo in quattro e cantavamo a quattro voci... Monte Canino era la canzone preferita di papà, racconta la sofferenza degli alpini costretti a combattere e a morire. Un canto di guerra. E non c’è altro che possa descrivere la vicenda assurda di mio padre se non la guerra. Perché una guerra è qualcosa che lascia traccia. Che lascia morte e dolore. I brigatisti hanno scontato la loro pena, e sono fuori. Noi siamo ancora qui, nel carcere della disperazione a guardare le nostre ex vite per sempre».
Quel 16 marzo 1978 il presidente Aldo Moro avrebbe dovuto partecipare, a Montecitorio, al dibattito sulla fiducia al quarto governo Andreotti. I brigatisti che lei ha perdonato, hanno sempre sostenuto di aver “scelto” suo padre perché Giulio Andreotti godeva di una protezione più alta. Che Moro o Andreotti sarebbe stata la stessa cosa: l’importante era colpire un simbolo del potere...
«Ed è falso. È una menzogna reiterata! Mio padre non è stato ucciso per sbaglio. Non è stata un caso la sua morte. Ma è stata voluta, ordinata. Aldo Moro aveva, in Italia e in Europa, una funzione di mediazione, di scomoda pacificazione. È stato eliminato perché si voleva arrivare a dove siamo arrivati adesso. A una non politica. A un mondo di soli affari».
Di soli imprenditori sopraffini. Con tanto senso del potere e poco dello Stato. «La politica è un servizio. Va fatta gratuitamente come la facevano una volta. Per ideali e non per soldi. Mio padre era un docente universitario e ha continuato a fare il suo lavoro: quel 16 marzo sarebbe andato in Montecitorio e poi in Università dove lo aspettavano per discutere le tesi. È per arrivare al nulla di oggi che è stato ucciso, e papà sapeva che sarebbe morto ammazzato. Nel ’74, durante le massime minacce, mia madre si era fatta promettere che avrebbe lasciato la politica attiva. Ricordo che avevano litigato a morte per questo... Mamma non gli aveva parlato per giorni. E lui non sopportava il suo silenzio: per questo decise che avrebbe continuato a fare il professore universitario. E che al massimo avrebbe fatto il presidente della commissione giustizia della Camera, una possibilità che era tutta da valutare».
Sempre nel 1974, sulla vettura numero 5 del treno Italicus esplose una bomba che provocò 12 morti e una cinquantina di feriti. Suo padre salì sul quel treno solo per pochi minuti. «Mio padre doveva viaggiare sull’Italicus per raggiungerci in Trentino, ma prima che il convoglio partisse fu fatto scendere per firmare delle carte importanti... In quel periodo ricopriva la carica di ministro degli Esteri e l’episodio dell’Italicus destò in lui tali preoccupazioni da richiedere la scorta anche per noi familiari. Nel settembre del ’75 nacque Luca, mio figlio. E papà decise di non mantenere la promessa fatta a mamma. Continuò a fare politica, a combattere quel potere che l’ha voluto morto e che oggi non ha interesse a ricordarlo in vita. Durante i giorni della prigionia, in due delle sue lettere, ci chiedeva di non ascoltare i consigli degli altri. Non si fidava di nessuno. E voleva che fosse lui dalla prigione e noi da casa a gestire la situazione. Ma non andò così. Rifiutammo i funerali di Stato... «Quel 10 maggio del 1978 avevo in tasca il sonaglietto del mio piccolo Luca, lo avevo stretto in mano per tutto il tempo della messa perché suonava con niente. Al cimitero, davanti a un loculo preso in prestito, pregai il segretario personale di mio padre di appoggiarlo sulla bara. Nel silenzio più assoluto il sonaglio si illuminò lasciando echeggiare il suo campanellìo celestiale. La mia famiglia non sarebbe stata più la stessa. La nostra vita finì quel giorno. E con la nostra anche quella di questo Paese».
Raffaella Fanelli