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 2015  maggio 04 Lunedì calendario

GRANDI BANCHE, BASTA GIGANTISMO VIA ALLA DIETA PER I COLOSSI DEL CREDITO

L’ultima statua del gigantismo bancario sta andando in pezzi. La ristrutturazione di Deutsche Bank, ircocervo della finanza europea, tedesco più nel nome che negli attivi, segnala la fine dell’età delle banche globali create dalla deregulation degli anni 90. La strategia dell’ad Anshu Jain per un gruppo “più snello e più solido”, prevede meno trading, la chiusura di 7 sedi estere su 70 (non l’Italia guidata di Flavio Valeri che è il secondo Paese per utili), la cessione di Postbank e un futuro di meno profitti ma meno rischi.
PERCHÉ NON FUNZIONA PIÙ IL “FINANCIAL SUPERMARKET”
E per rischi si intendono sia quelli operativi che quelli e legali: il gruppo ha dovuto affrontare 1,5 miliardi di spese per contenziosi nel solo primo trimestre. È la cura, un po’ tardiva e non troppo drastica, di un modello in crisi, e che gli investitori penalizzano da mesi: Deutsche Bank quota in Borsa a circa 0,6 volte il valore di libro tangibile, al livello delle piuttosto deprezzate banche italiane e lontanissima dal multiplo di 1,6 attribuito a Wells Fargo, attualmente la banca più sana e capitalizzata al mondo, che ormai vale 286 miliardi. E che, significativamente, svolge solo il mestiere più antico di banca commerciale, e in un solo paese, ma quello giusto perché negli Stati Uniti la ripresa di tassi e rendimenti è una manna per l’industria finanziaria. Per inciso, l’opposta situazione macroeconomica ai due lati dell’Atlantico garantisce ai colossi a stelle e strisce una maggiore resilienza e redditività, a cavallo della curva dei tassi. La prima trimestrale di Goldman Sachs, Bofa- Merrill Lynch, Morgan Stanley mostra progressi del 25-30% delle fondamentali attività nel reddito fisso, mentre le rivali europee sono inchiodate, o in crescita minima. Il motivo è che la denominazione e la tesoreria in dollari permette ai banchieri di fare il bilancio concentrandosi sulle operazioni macro (con sottostanti valute, titoli governativi come il Treasury decennale che rende ormai il 2%, petrolio), mentre le rivali Credit Suisse, Deutsche Bank, Ubs per i prossimi tre anni di tassi Bce piatti non beneficeranno di questa rendita, e devono andarsi a cercare gli affari nelle singole operazioni sull’azionario, i bond e le emissioni creditizie. «Benché legata alla congiuntura dei tassi e del Pil, e quindi non strutturale, è una differenza enorme — fa notare un banchiere d’affari —. Presto in Europa i manager dovranno decidere se imitare le banche Usa, a rischio di fare comunque peggio per il prossimo triennio, e al prezzo di annacquare la loro identità storica basata sulla microfinanza, e sull’offerta di servizi di ricerca e consulenza più specifici, incentrati su singoli trade». Non è il caso di stupirsi: gli investitori hanno sempre applicato ai conglomerati uno sconto per la complessità, rispetto al valore delle singole somme delle parti; e la banca universale altro non è stato se non una holding di attività, paesi, performance troppo disparati. Il gruppo tedesco, che da anni cercava di proseguire sulla strada del globalismo, è l’ultimo di una lunga serie di istituti a dover a rivedere la strategia. Nelle ultime settimane era toccato a General Electric, Hsbc, Barclays e Credit Suisse mandare segnali di cambiamento, ai mercati e ai regolatori. “L’assunzione implicita che una banca debba fare tutto per tutti i clienti è diventata un fardello troppo pesante da sostenere — ha detto alla Reuters Bill Michael, capo dei servizi finanziari Europa di Kpmg — che taglia la redditività, aumenta i rischi operativi e moltiplica i costi regolatori”. Gli attori superstiti della banca globale sono sempre meno: Jp Morgan, Bofa-Merrill Lynch e Citigroup negli Usa, Deutsche Bank (la cui riforma è solo parziale), Credit Suisse e Bnp Paribas in Europa. Ma per tutti la pressione esterna a semplificarsi è crescente: lo attestano, tra l’altro, la mozione di alcuni soci di Bofa-Merrill Lynch a dividere i due gruppi che la crisi aveva riunito; o la frequenza con cui Jamie Dimon, ad di Jp Morgan che del titanismo finanziario è forse l’icona, s’affretta a elencare i benefici della banca universale, che ormai suonano come una excusatio non petita. Nel decennio ruggente prima del 2008 le banche, agevolate dalla caduta di molti vincoli e regole a riguardo, fecero la gara per estendersi a nuovi mercati e mestieri. Ricalcando un modello di business a matrice che prevedeva una tripartizione al quadrato delle presenze e dei rischi, sia su base geografica (un terzo dei ricavi a testa tra Usa, Europa e Asia), sia dei mestieri nell’investment banking (una torta divisa in tre fette tra consulenza, azionario, reddito fisso), cui affiancare gli altri mestieri di credito, retail, gestione del risparmio e bancassicurazione, custodia, considerati marginali per potenzialità e apporto di utili. Il meccanismo ha prosperato negli anni di Borse e tassi crescenti, ma s’è schiantato tra il crac di Lehman Brothers e la successiva crisi del debito sovrano. A quel punto, mentre gli attivi e i rendimenti delle banche si deprezzavano enormemente, i regolatori hanno aggravato la tendenza, imponendo nuovi costi per allocare il capitale nel trading, maggiori parametri patrimoniali per svolgere gli stessi mestieri, e altri vincoli. È la logica sottesa a Basilea III, alla Crd IV, alla vigilanza unica europea, alla Volcker rule che negli Usa entra a regime a luglio, alla Bank structural reform che il Parlamento europeo dovrebbe varare entro fine anno. «L’industria finanziaria, gli investitori e i regolatori hanno maturato la crescente convinzione che sia meglio avere banche più semplici — sostiene Marco Mazzucchelli, managing director di Banca Julius Baer a Zurigo — perché più facili da comprendere per chi investe, da gestire per i manager e da supervisionare”. Mazzucchelli nel 2012 è stato membro della Commissione Liikanen, che per l’Unione europea aveva analizzato il problema e suggerito una serie di misure per ridurre i rischi delle banche, tra cui la separazione del trading dall’attività commerciale. Quei suggerimenti furono recepiti solo in parte, anche per l’avvenuto rinnovo del Parlamento Ue, l’anno scorso. «La nostra idea di allora fu che i problemi derivavano non tanto dalle dimensioni — aggiunge Mazzucchelli — ma dalla complessità e interconnessione tra i business. E quella raccomandazione si è realizzata senza bisogno di una specifica regolamentazione: bail in, utilizzo dei modelli interni, attenzione micro e macro prudenziale al settore immobiliare, eccezionalità delle banche universali sono diventati standard ovunque. Si è creata una consapevolezza diventata consenso, opinione e prassi: e ciò è avvenuto per forza di mercato”. Non che i regolatori, con una comprensibile maggiore lentezza, siano rimasti indietro, con tutti gli effetti prociclici del caso. L’ultimo spauracchio per i banchieri, preparato dal Comitato di stabilità finanziaria (Fsb) per le banche sistemiche globali e illustrato nel G20 di Brisbane, si chiama Tlac. È l’acronimo per determinare il capitale in grado di assorbire le perdite in caso di fallimento delle banche, senza doverle scaricare sui contribuenti. Il Tlac sarà molto maggiore degli standard patrimoniali odierni, e dal 2019 (ma si sa che il mercato “anticipa”) potrebbe costringere le banche globali a patrimoni minimi tra il 16 e il 20% sugli attivi ponderati per il rischio per una trentina di istituzioni sistemiche. Tra queste figura Unicredit, che sta cercando, anche tramite l’Abi, di convincere i regolatori a non esagerare con i lacci. Tuttavia per gli istituti — che spesso hanno governi e opinioni pubbliche contro, e non sempre per caso — sarà una battaglia difficile, e il contrattacco migliore per loro potrebbe rivelarsi l’uscita dall’elenco G-Sifi, smontando e rimodulando i gruppi. Assodato come la doppia lama del mercato e delle regole abbia piallato i rendimenti delle superbanche, forse eccessivi nella fase di bonanza precedente come pure i bonus dei loro dirigenti, ora bisogna smontare qualche gigante con i piedi d’argilla. Ma smontarlo con giudizio: sia per ragioni di opportunità dei manager, sia perché tornare all’antico non ha sempre senso economico. Almeno in Europa, il mestiere per cui le banche sono nate — intermediare il denaro prestando la raccolta dei depositanti alle imprese bisognose — ha rischi e costi altrettanto alti che il trading o l’investment banking, e rendimenti minati da sofferenze e svalutazioni. «Chiaramente il modello di banca universale non è più valido, almeno in l’Europa — dice Alberto Albertini, ad di Banca Albertini Syz — ma le direttrici di mercato e regolatorie che portano a smembrare tante attività non risolvono le esigenze creditizie delle imprese. Anche se l’Europa andrà inevitabilmente verso il modello Usa, in cui le aziende si finanziano di più sul mercato, la più ridotta dimensione delle imprese, specie in Italia, renderà insostituibile il credito bancario e le sue professionalità specifiche. Sarà interessante vedere chi resterà a fare il mestiere per cui le banche sono nate: se gli operatori tradizionali superstiti o nuove banche di tipo diverso, più leggere e tecnologiche ». Sarebbe in effetti un crimine se il credito finisse stritolato tra le severità ex post di regolatori in passato laschi e le legittime attese di remunerazione degli azionisti bancari.
Andrea Greco, Affari&Finanza – la Repubblica 4/5/2015