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 2015  maggio 07 Giovedì calendario

L’IMAM DELLA PORTA ACCANTO—


[Izzedin Elzir]

Per Izzedin Elzir i versetti del mattino hanno il sapore dell’anice. Lo beveva in moschea, in Palestina, nella tisana preparata dalla moglie dell’Imam. «Avevo 5 anni, ma sento lo stesso aroma anche qui, ora». Qui è la sala di via Borgo Allegri, Firenze. Di questo luogo Izzedin Elzir, 43 anni, in Italia da 23, è l’Imam. Colui che guida la preghiera.

«Lo sa? Sono venuto da Hebron per studiare moda».
Ho letto: voleva tornare in Palestina con una collezione di intimo. Lo ha mai fatto?
«Ho lavorato nel campo, ma niente biancheria. Pelletteria. Poi gli impegni per la comunità islamica mi hanno allontanato dai miei intenti, ma faccio una cosa che mi piace, quindi va bene così».
Le capita di riprendere in mano la matita?
«Per divertimento».
Non disegna vestiti nemmeno per sua moglie?
«Una volta sola, dopo due anni di matrimonio. Disegno viaggiando, visto che sono sempre in treno. Disegno e leggo».
Libri?
«Saggi, romanzi. Adesso ho in mano Tra terra e cielo. Credenti e non credenti nella società globale di Vannino Chiti».
Per lei che cos’è il cielo?
«È l’azzurro, la bellezza. E quello che ci manca oggigiorno. È la riflessione».
Vuol dire che non dedichiamo tempo a riflettere?
«Poco. Dopo la tragedia di Charlie Hebdo, un gruppo di studenti mi ha invitato in classe. Sono rimasto colpito dalla loro voglia di ragionare: nel momento in cui una persona inizia a riflettere, comincia anche a dialogare. Due azioni che aprono le porte del ghetto mentale, dove abitano i pregiudizi».
Lei ne ha di pregiudizi?
«Ovvio. Quando sono arrivato in Italia ero convinto che ogni italiano fosse mafioso e ladro. Avevo 20 anni e molta paura».
Oggi, davanti a un pregiudizio, cosa si sente di fare?
«Di lavorare per rimuoverlo. Sapendo che succederà piano».
E per smontare quelli sull’Islam che ha proposto di creare un albo degli Imam da condividere con il ministero dell’Interno?
«Noi conosciamo i nostri 500 Imam; forse è utile che li conoscano anche i non musulmani. Per dare un messaggio di tranquillità».
Perciò l’invito a tenere il sermone in italiano.
«Anche in italiano. Succede già, ma vorrei che l’abitudine si diffondesse: il 50% della comunità islamica che vive qui non è arabofona. Meglio se abbiamo tutti la sicurezza di capire le parole dell’Imam».
Lei come si prepara a un sermone?
«Mi piace parlare di attualità. Cerco un titolo, i versetti del Corano, qualche detto. E studio il mio commento».
Ne ricorda uno su tutti?
«Quando ho spiegato che siamo un’unica famiglia. Un fratello mi ha avvicinato per dirmi: io rispetto quello che non è musulmano, ma amo solo quanto è musulmano. Gli ho risposto: l’Islam ci permette di amare una donna cristiana o ebraica; dovesse capitarti di innamorarti, la allontaneresti perché non musulmana?».
Non servirebbe una presa di posizione più incisiva contro la violenza?
«A chi me lo chiede rispondo con una domanda: che cosa avete da suggerirci? Tutto quello che possiamo fare, già lo facciamo. Le prime vittime sono gli stessi musulmani, colpiti tre volte: nella loro religione, nella loro dignità personale, nel numero di morti. Voi non sapete la rabbia che sentiamo noi».
Quanti musulmani si contavano a Firenze quando lei è arrivato, ventitré anni fa?
«Eravamo una decina.
E adesso?
«Ora a Firenze abbiamo cinque sale di preghiera».
A che punto è la moschea promessa?
«Siamo sulla buona strada».
Quanto conta che questa sia la città di Matteo Renzi?
«Il discorso è iniziato con lui, ma i passi più significativi sono avvenuti negli ultimi tre anni. Questo dimostra che la comunità islamica sta lavorando nella direzione giusta».
Lei va e viene da Papa Francesco. Otto volte, a oggi (più due con Ratzinger).
«La prima volta è stata su suo invito. Era appena stato eletto, mi ha colpito per la sua umiltà. Ha chiesto di pregare per lui».
Entra nelle chiese?
«Ci vivo: nelle chiese, nelle sinagoghe, nei templi dei buddisti. La casa di Dio: ben venga che sia frequentata da tutti».
Com’è la comunità islamica di Firenze?
«Conosciuta dai cittadini, un po’ meno dall’amministrazione. All’inizio eravamo noi a cercare un contatto istituzionale».
E poi?
«Poi c’è stato l’11 settembre. Che alla fine ha prodotto un momento di grande apertura. In quella occasione una donna ha chiesto di insegnare ai nostri figli la lingua araba: così sono nate delle relazioni ufficiali e la scuola del sabato».
Che cosa succede nelle altre comunità italiane?
«Dobbiamo ricordarci che chi arriva da fuori ha paura di perdere la sua identità; è chi amministra che deve essere pronto ad accogliere. Hanno aperto moschee con ogni genere di giunta. Ci sono sindaci che si sentono sindaci di tutti i cittadini, e altri no».
Come si sta qui rispetto al resto dell’Europa?
«L’Italia non ha ancora una strategia sull’Islam. Bene: c’è un processo di integrazione da avviare, facciamolo assieme».
Dicono di lei che piace perché ha la faccia del musulmano buono.
«Io non sono buono, cerco solo di esserlo, ma faccio anche cose cattive. Nell’Islam non esiste il concetto di santità».
Si è mai sentito offeso?
«Il Corano mi insegna a rispettare anche l’opinione che non condivido. Il Signore stesso ha dialogato con Satana».
Quante ore passa a dialogare con il mondo?
«Tante. Si impara sempre qualcosa mentre si dialoga».
Cosa ha imparato qui?
«Che questa è una Repubblica fondata sul lavoro e che tutti i cittadini sono uguali: leggerlo nella Costituzione mi rende orgoglioso di essere qui».
Ma gli Imam prendono la pensione?
«Ho appena preso appuntamento con il commercialista».
Come è diventato Imam?
«Avevo una buona preparazione di base, i fratelli hanno cominciato a chiedermi di commentare i versetti, poi il sermone del venerdì. E così via».
A chi si rivolge se ha dei dubbi?
«Ai saggi musulmani. Ai libri. A internet».
Le sono state poste delle domande che l’hanno messa in difficoltà?
«L’Imam viene visto come il vostro prete. Si viene coinvolti anche in questioni famigliari: a volte si è capaci di intervenire, a volte è davvero complicato».
Un caso che ha risolto felicemente?
«Quello di una moglie che si lamentava di un marito incapace di soddisfarla. Li ho fatti divorziare. Lui avrebbe dovuto chiudere un occhio di fronte a lei che guardava altrove...».
Chiudere un occhio è una cosa che non si può fare?
«In senso religioso, no. È ipocrisia».
E l’ipocrisia ci porta alla dannazione?
«Ci porta a non vivere. Il matrimonio si fa per amore. Perché stare assieme soffrendo?».
Qual è la sua lezione sull’amore?
«Che se ami il prossimo significa che ami anche te stesso. Ma che se ami solo te stesso non ami nulla».
Jihad: quanto dobbiamo temerla, questa parola?
«Jihad è una bellissima parola, che è stata malintesa. Significa “sforzo di mettere in pratica i tuoi principi”. La jihad fa la differenza tra predicare bene e agire male».
Che cosa la spaventa?
«Mi sveglio cercando di non vivere nella paura, perché questo è il facile obiettivo dei terroristi. Ho paura del dolore, ma non della fine».