Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  maggio 06 Mercoledì calendario

NON CHIEDO PIÙ PERMESSO

[Intervista a Monica Guerritore] –
La cucina è accogliente, con un grande tavolo al centro a misura di famigliona. Sul mobiletto è però cucita un’antica massima: «Questa casa non è un albergo». «L’ho messa io, era il momento in cui erano andati via tutti, ma poi me li ritrovavo sempre a pranzo, sempre a ore diverse, dall’una e mezzo alle cinque e mezzo si avvicendavano in cucina chiedendo di parlare, di mangiare...».
I «tutti» di cui parla Monica Guerritore sono le due figlie Maria e Lucia, di 26 e 22 anni, loro papà Gabriele Lavia che – pur separato da Monica da anni – continua a frequentare casa, il marito Roberto Zaccaria (che si è appena defilato dopo il caffè) e annessi vari. Presenze di affetti in questa casa che, nata per essere il più semplice e vuota possibile, adesso sta moltiplicando libri, oggetti, vita. Qui dentro l’attrice lavora e prepara i suoi spettacoli come Qualcosa rimane, di cui firma anche la regia, e che in autunno tornerà in tournée per l’Italia. In esterni invece, fino ad agosto girerà a Torino, nei panni della madre di Miriam Leone, la fiction di Raitre Non uccidere. Mentre al cinema esce in questi giorni Profumi d’Algeri.

Restiamo un po’ però in cucina: non ha sofferto il vuoto quindi, quando anche la «piccola» Lucia è uscita di casa?
«No, la sindrome del nido vuoto l’avevo avvertita un po’ con Maria, la prima che se n’è andata, mentre Lucia era già spesso via, in tournée. E poi – anche se questo silenzio a volte rappresenta come un pezzo di vita che mi tocca mettere da parte – avere improvvisamente la casa a disposizione è meraviglioso, mi sento di nuovo adolescente».
Adolescente perché adesso può...?
«Scegliermi gli orari, magari star lì a scrivere due giorni interi, saltando i pasti. L’adolescenza è un tempo che non ha confini, dove tutto diventa 
possibile».
Quindi, alla fine, si è «liberata» anche di Lavia che continuava a invitarsi a pranzo?
«Macché, viene sempre, pure se non ci sono le figlie. A volte gli faccio anche il pasto che preferisce: polpette, purè e pisellini Findus, e lui porta la sua torta con la panna. A dargli retta però è soprattutto Roberto. L’ultima volta, Gabriele magnificava di aver fatto il tutto esaurito a teatro con i suoi Sei personaggi in cerca d’autore. Ho alzato la mano: anch’io ho avuto 900 persone e sale piene. Ma dopo Roberto mi ha fatto notare: “Tu intervieni, lui ti guarda come se fossi 
trasparente e quando hai finito riprende a parlare”».
Con Zaccaria è sposata da quasi cinque anni: qual è il bello del matrimonio?
«La consapevolezza continua di aver fatto la scelta giusta, anche se non avevo dubbi. Abbiamo avuto un “pre” lungo, nel frattempo io avevo conquistato la sicurezza in me, sapevo che non avevo bisogno di appoggiarmi, solo l’istinto di scaldarmi vicino a qualcuno che mi ama. La bellezza dell’età è la consapevolezza delle cose che hai fatto, che ti rende forte. Così, scegli un uomo perché lo vuoi vicino, non per quello che ti può dare».
E c’è qualcosa che a quest’uomo non perdonerebbe mai?
«Il tradimento di un segreto intimo, di una confidenza».
Sarebbe peggio del tradimento fisico?
«Sì, perché se esponi qualcosa rincantucciato in fondo al cuore, un tradimento di quel tipo è impossibile da sopportare. Quello fisico conta meno: lì si scatena la guerra dei Roses, c’è la competizione, la lotta. Ma puoi far fronte».
Parliamo di altre lotte. In Profumi d’Algeri lei è un’algerina emigrata a Parigi, diventata una famosa fotografa ma richiamata a casa per salvare il fratello arrestato come terrorista. È il 1998 e il Paese è in mezzo alla guerra civile.
«Era il periodo del “Chi ammazza chi”, fatto di scontri fra integralismi e laicità, di violenza. Però la legge del repentir, simile a quella italiana sui pentiti, ha ripristinato un governo che ha garantito la laicità dello Stato dall’integralismo islamico. Certo, è uno Stato di polizia, ma questo ti tranquillizza anche, per esempio quando usano i puntatori elettronici per scoprire gli esplosivi».
Com’erano le donne che ha incontrato quando girava?
«È vero che bisogna andare possibilmente con le braccia coperte, ma non ci sono imposizioni di velo, solo il rispetto per una cultura».
Lei che cosa pensa del velo?
«Cerchiamo di non dimenticare le nostre radici: noi stessi vediamo la Madonna con il velo, o ci mettiamo qualcosa sui capelli davanti al Papa. Il velo, quando non è uno scafandro che ti chiude in una gabbia, è anche riparo dal sole».
Il film ha avuto una storia difficile, all’inizio doveva farlo Isabelle Adjani, poi l’hanno proposto a lei...
«E io, nonostante la mia paura dell’aereo, sono andata».
Davvero ha paura?
«Moltissima, ma non prendo niente, soffro e mi recito canti della Divina commedia per non pensarci».
L’integralismo islamico quanto fa paura, invece?
«Noi l’integralismo islamico lo abbiamo passato con l’Inquisizione. Ma poi è arrivato il Rinascimento, che ha reso Dio un uomo grazie alla rappresentazione artistica. La cultura islamica invece impedisce la raffigurazione della divinità, e quindi l’avvicinamento di Dio all’uomo. Il loro Dio è rimasto lontano, spietato, vendicativo».
Torniamo sulla Terra. Lei da tempo si dedica soprattutto al teatro: che cosa la appassiona in particolare?
«Mi sento sempre più forte, e questa forza si trasmette anche nella vita, perché finalmente ciò che faccio corrisponde a ciò che penso. Il passaggio è stato dirigere in scena Qualcosa rimane, scritto da Donald Margulies».
Lei ha mai scritto diari?
«Li ho ritrovati di recente, non li ricordavo: a 9-10 anni scrivevo poesie, diari. Ho smesso quando ho cominciato a fare teatro e a parlare con parole d’altri».
Che poesie erano?
«Amori vagheggiati, distanze, solitudini. Era un mondo solitario, perché io ero sola in casa e scrivevo».
Sognava anche come sarebbe diventata?
«Volevo essere la reginetta del ballo, come Barbie. Però non ero bionda, esile o col nasino all’insù: ero bella mascolina».
Qualcosa rimane è l’incontro di due donne, una scrittrice affermata e una giovane ambiziosa.
«La ragazza rappresenta l’epoca in cui viviamo, una che vuole prendersi tutto subito, e per farlo diventa l’amante della donna, che invece ha scelto l’esilio dal mondo commerciale, ne carpisce il segreto e ne fa un brutto libro. Sono due mondi che si contrastano: quello alla Isola dei famosi (la cito perché me l’avevano pure proposta) e quello di chi – come ho fatto io – decide di essere responsabile di se stesso».
Ha trasmesso questi valori alle sue figlie?
«È quello che ti vedono fare che insegna, nonostante un esercito immenso ci accerchi. Ma non mi stanco di combattere».
Non sono discorsi un po’ da «vecchi»?
«No, se non ti pieghi al contesto, sei giovane, a prescindere dall’età. C’è un’immagine che mi ha segnata: ero incinta di Maria e vidi Tina Turner cantare The Best in minigonna, due gambe con muscoli così e un’assoluta vitalità: quando ho bisogno di darmi forza riguardo quel video».
A proposito di passaggi di età: Lucia è un’attrice, progettate di lavorare insieme?
«Mi piacerebbe, per ora però se l’è accaparrata Gabriele: così ha una me più giovane, più brava, che lo subisce tranquillamente. In maggio Lucia farà Ifigenia in Aulide nel Teatro greco di Siracusa: sarà bellissimo, a me avevano offerto di recitare lì Medea, ma quella non potrò mai farla».
Perché?
«La mia identificazione è totale in scena, e io non potrei giustificare la pulsione di Medea di uccidere i figli».
Eppure succede, e non sempre per crudeltà.
«Puoi arrivare a capirle, le madri assassine. Ma non a giustificarle. Nessuno di noi, tranne gli anaffettivi, può uccidere i figli».
L’anno scorso, lei ha presieduto la giuria del Campiello, ed è anche una grande lettrice. Secondo lei, chi è Elena Ferrante?
«Un uomo, penso. È come Bergman quando scrive i personaggi femminili più belli: intuisce esattamente le dinamiche ma non le vive, e quindi le raffredda. Narra come un anatomopatologo, ha un modo scarno di esprimersi. Mentre noi tutte, massacrate per millenni, quando ci raccontiamo ci commuoviamo».
Lei voleva fare l’anatomopatologa: non le fa impressione il sangue?
«Sì, ma vorrei studiare quello dell’anima».
Poteva diventare psicologa, allora.
«Troppe chiacchiere, preferisco le cose concrete, i tanti dettagli che messi insieme costruiscono un quadro».
Le piacciono i puzzle?
«No, preferisco un’interpretazione inattesa delle cose. Adesso per esempio voglio dirigere un film sulla contessa Giulia Trigona, zia di Tomasi di Lampedusa uccisa dall’amante a Termini nel 1911. La storia partirà con il terremoto di Messina del 1908: tre anni che raccontano la fine della donna dell’800. Attratta verso un magma di libertà, lei precipita nelle braccia del suo assassino che le stacca la testa dal collo. Anche Visconti voleva farne un film».
E così intende debuttare nella regia cinematografica?
«Sì, non voglio chiedere più permesso a nessuno, non voglio più un uomo che mi dica se ho ragione: non lo tollererei. Ho aperto una pagina Facebook per trovare i finanziatori, senza più doverli cercare con aria supplice».
Ce l’hanno insegnata, quell’aria.
«Colpa anche nostra, che chiediamo le cose come fossero un hobby».
Che cosa dice Zaccaria di questa moglie così battagliera?
«Mi osserva sbalordito, quando parto lancia in resta. Mi dice: vai, che ti aspetto qua. Gabriele mi guarderebbe come una pazza: ma che fate, voi donne? Roberto è uno studioso, un uomo di codici, e il fatto che io rompa sempre le misure lo stupisce, però mi lascia fare».