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 2015  maggio 07 Giovedì calendario

IL NUOVO NEMICO PUBBLICO


Il virus Ebola, in Africa Occidentale, è costato la vita a più di diecimila persone. Eppure questa tragedia, non ancora conclusa, ha un risvolto “positivo”, se così si può dire, quello di aver messo il mondo di fronte a una terribile verità: non siamo preparati ad affrontare un’epidemia globale.
Tra i possibili eventi in grado di causare la morte di oltre dieci milioni di persone nel mondo, il più probabile è di gran lunga un’epidemia. Quasi certamente, però, non sarà di Ebola. Per quanto gravissima, si trasmette solo attraverso il contatto fisico e i malati diventano contagiosi quando i sintomi sono già evidenti, il che ne rende relativamente agevole l’identificazione. Altre malattie invece, come per esempio l’influenza, dilagano per via aerea e risultano infettive prima che i sintomi siano manifesti: ciò significa che un paziente può trasmetterla a molti sconosciuti semplicemente con la presenza in un luogo affollato. Il fenomeno si è già verificato, con esiti raccapriccianti. Nel 1918 la cosiddetta febbre “spagnola“ uccise più di 50 milioni di persone. Provate a immaginare cosa potrebbe accadere oggi, con l’attuale mobilità della popolazione mondiale.
Il dibattito pubblico sulla reazione di tutti i Paesi all’epidemia di Ebola sì è perlopiù concentrato sull’efficacia e la tempestività delle soluzioni adottate dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), dai Centers for Disease Control and Prevention (Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie, o Cdc) e da altri enti preposti. Questioni senz’altro importanti, che perdono però di vista un problema più generale: il punto non è il mancato funzionamento del sistema, ma il fatto che questo sistema neppure esiste. In primo luogo i Paesi poveri, dov’è più probabile che insorga un’epidemia naturale, sono privi di mezzi e di sistemi di controllo delle malattie. Lo scorso anno, anche quando l’epidemia di Ebola era ormai conclamata, mancavano le risorse per censire in modo adeguato sia i casi di infezione sia i luoghi in cui si verificavano, e per ricostruire i movimenti delle persone colpite in modo da prevedere nuovi, eventuali focolai.
Inoltre, appena accertata la gravità della crisi sarebbero dovute intervenire in forze, nel giro di qualche giorno, squadre formate da personale specializzato. Invece ci sono voluti mesi. Medici Senza Frontiere ha il gran merito di aver mobilitato i propri volontari più rapidamente di qualsiasi governo. Ma il mondo non dovrebbe attendere l’intervento di un’organizzazione non governativa per mettere in campo una risposta globale a questi problemi.
Se anche avessimo a disposizione molti esperti e volontari pronti a intervenire, non sapremmo con precisione come dislocarli in fretta nelle aree colpite o come effettuare in maniera sicura il trasporto dei pazienti. Sono poche le organizzazioni in grado di approntare nel giro di una settimana le strutture necessarie al trasferimento di migliaia di persone, alcune delle quali infette.
Il disastro causato da Ebola avrebbe potuto sortire conseguenze ben peggiori se gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e altri governi non avessero utilizzato mezzi e risorse militari per il trasporto di persone ed equipaggiamenti nelle aree colpite dal virus. Ma non va dato per scontato che la prossima epidemia rimanga entro i confini di Paesi dove le truppe occidentali sono le benvenute.
Altro problema cruciale: i dati. Durante la crisi, il database che tiene traccia di tutti i singoli casi non sempre è risultato preciso. Questo è dipeso in parte dal caos della situazione, ma anche dal fatto che il verbale relativo a ogni malato veniva redatto a mano su carta, e poi inviato a un centro apposito per la digitalizzazione.
Sono anche mancati gli investimenti nel campo di strumenti clinici dedicati, per esempio, a test diagnostici, farmaci e vaccini. In media, per ottenere i risultati degli esami per l’Ebola servivano da uno a tre giorni. Un’eternità, quando c’è l’urgenza di mettere i pazienti in quarantena. I farmaci che potevano e potrebbero contribuire a fermare la malattia sono stati testati sui pazienti solo dopo che l’epidemia aveva raggiunto l’apice, anche perché il mondo non dispone di procedure chiare per accelerarne l’adozione. Questo è il quadro. Ora proviamo a confrontarlo con le risorse e i mezzi destinati dalle nazioni alla difesa militare.
Gli eserciti dispongono di sistemi per reclutare, addestrare ed equipaggiare i soldati. La Nato ha un’unità mobile sempre pronta al dispiegamento. I membri dell’Alleanza Atlantica effettuano esercitazioni congiunte per trovare soluzioni a problemi logistici, come quello di garantire i rifornimenti alle truppe. Ben poco o nulla del genere si ritrova nel campo della risposta alle epidemie: il mondo non finanzia alcuna organizzazione (neppure l’Oms) perché coordini tutte le attività necessarie a debellarle.
Io credo che questo problema possa essere risolto, così come ne abbiamo risolti tanti altri: con l’intelligenza e l’innovazione.
Abbiamo bisogno di un sistema di allarme e di reazione in caso di scoppio di epidemie. Si potrebbe cominciare irrobustendo i sistemi sanitari dei Paesi poveri: per esempio, quando si costruisce una clinica per le cure fondamentali, si crea anche una parte dell’infrastruttura mirata a quello scopo. Il personale non si limiterà a somministrare vaccini, ma potrà anche monitorare la propagazione delle malattie, garantendo un sistema di allarme immediato che tenga informato il mondo sui potenziali focolai infettivi.
Dobbiamo anche investire il più possibile nel monitoraggio. Occorre un database dei casi accertati che sia accessibile in tempo reale da tutte le organizzazioni autorizzate, con regole che impongano ai vari Paesi la condivisione delle informazioni.
Servono elenchi di individui preparati (leader locali ed esperti globali) in grado di affrontare le epidemie al loro primo insorgere. Abbiamo bisogno di personale militare addestrato allo scopo, e di elenchi di scorte da accumulare o da ordinare in caso di emergenza. Infine, occorrono maggiori investimenti nella ricerca su farmaci, vaccini e test diagnostici, in modo da accelerare le procedure per autorizzare nuove modalità d’intervento in caso di crisi.
Le Nazioni Unite dovrebbero creare e finanziare un’istituzione globale che si occupi di coordinare tutti questi sforzi. Attualmente, l’Onu e l’Oms stanno studiando le lezioni impartite da questa epidemia. Le loro valutazioni saranno un buon punto di partenza per discutere del modo migliore per rafforzare e riorganizzare le strutture destinate alle emergenze.
Non ho trovato stime rigorose su quanto un apparato del genere potrebbe costare. Sappiamo, però, quanto costa la nostra inazione. Secondo la Banca Mondiale, un’epidemia planetaria di influenza ridurrebbe la ricchezza globale di tremila miliardi di dollari, oltre all’incommensurabile sofferenza causata dalla morte di milioni di persone. La prevenzione di una catastrofe di questo tipo val bene il tempo e l’attenzione del mondo.