Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  maggio 06 Mercoledì calendario

LA LEGGE DEI FUOCHI D’ARTIFICIO


Negli ultimi anni della sua vita Galileo, confinato dall’Inquisizione agli arresti domiciliari ad Arcetri, riprese e completò le proprie ricerche giovanili sulla meccanica, compendiandone nel 1638 i risultati nei Discorsi e dimostrazioni matematiche. Tra i gioielli che si trovano in questo capolavoro ci sono, per esempio, le famose leggi sul moto che oggi studiamo a scuola.
Ma ci sono anche perle meno conosciute, come quella relativa alla Proposizione VI della Terza Giornata, in cui Sagredo si pone questa domanda: «Se noi intenderemo un piano eretto all’orizonte, ed in esso piano notato un punto sublime, dal quale si partano infinite linee inclinate secondo tutte le inclinazioni, sopra le quali ci figuriamo descender mobili gravi, ciascheduno con moto naturalmente accelerato, con quelle velocità che alle diverse inclinazioni convengono, posto che tali mobili discendenti fusser continuamente visibili, in che sorti di linee gli vedremmo noi continuamente disposti?».
In termini più moderni, si tratta di stabilire quale sia la curva isocrona su cui si trovano in uno stesso istante corpi che si muovono su uno stesso piano verticale, partendo tutti insieme da uno stesso punto e cadendo lungo traiettorie rettilinee inclinate in ogni direzione. Per rispondere alla domanda Galileo utilizza i propri risultati sui piani inclinati, che si possono descrivere in due modi diversi: geometricamente, o analiticamente.
Non avendo strumenti analitici a disposizione, Galileo procedeva geometricamente. La sua scoperta fondamentale fu che un corpo che cade lungo un piano inclinato arriva a terra con la stessa velocità di un corpo che cade lungo la verticale. Ovviamente il tempo impiegato è diverso, e proporzionale alla lunghezza del piano.
Per trovare la distanza percorsa dai due corpi nello stesso tempo, Galileo considera il triangolo rettangolo che ha per cateti la verticale e l’orizzontale, e per ipotenusa il piano inclinato, e traccia l’altezza relativa a quest’ultima: per la Proposizione VI.8 di Euclide, in tal modo si divide il triangolo rettangolo in due triangoli simili a esso. In particolare, la verticale sta al piano inclinato come la proiezione della verticale sta alla verticale stessa. Dalla proporzionalità osservata tra tempi di caduta e lunghezze percorse, Galileo deduce che nel tempo impiegato da un corpo per cadere in verticale il corpo sul piano inclinato percorre la proiezione della verticale.
Il legame geometrico tra le posizioni dei vari corpi in un dato istante è che ciascuno di essi è il vertice di un triangolo rettangolo che ha per ipotenusa la verticale. Per la Proposizione III.31 di Euclide, questo definisce appunto un cerchio che ha per diametro la verticale stessa.
Volendo invece procedere analiticamente, le leggi del moto di Galileo stabiliscono che lo spazio s percorso da un corpo che cade verticalmente per un tempo t è pari a s = gt²/2, dove g è l’accelerazione di gravità. Se invece il corpo cade lungo una traiettoria inclinata di un angolo α rispetto alla verticale, l’accelerazione di gravità agisce su di esso solo tramite la sua componente parallela al piano, e subisce una diminuzione pari al coseno dell’angolo. Anche lo spazio percorso subisce dunque un’analoga diminuzione, e il luogo dei punti in cui si trovano i vari corpi all’istante t è descritto da r = s cosα, l’equazione in coordinate polari di un cerchio di diametro s.
Come riassume Sagredo alla fine della discussione, la risposta alla domanda posta agli inizi è che i gravi che cadono da uno stesso punto in varie direzioni «si vedranno sempre tutti nell’istessa circonferenza di cerchi successivamente crescenti». E la cosa vale non solo in due dimensioni, ma anche in tre: «Se dal punto assegnato per le emanazioni noi intenderemo eccitarsi linee non per la sola superficie eretta, ma per tutti i versi, sì come da quella si passava alla produzzione di cerchi, dal minimo al massimo, così si verranno producendo infinite sfere, o vogliam dire una sfera che in infinite grandezze si andrà ampliando».
Si tratta di un risultato inaspettato, che non a caso Sagredo descrive come «uno scherzo grazioso, quali sono tutti quelli della natura o della necessità», e alla cui vista «nasce la maraviglia». Effettivamente, di meraviglia si tratta: la stessa che ci sorprende ancora oggi quando, bambini o adulti, osserviamo i fuochi artificiali esplodere nel cielo notturno, e i loro frammenti illuminarlo con mille luci colorate che producono infinite sfere successive, o un’unica sfera che si amplia in infinite grandezze.