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 2015  maggio 03 Domenica calendario

LA LEZIONE DELLA «SPAGNOLA»

Più della peste nera, più della Grande Guerra. La pandemia di influenza iniziata nel 1918 – la famigerata Spagnola – ha fatto tra i quaranta e i cinquanta milioni di morti. In pochi mesi tra la fine dell’estate e l’autunno del 1918, la grippe ha provocato devastazioni dagli Stati Uniti alla Cina, dal Nord Europa all’Africa. In tutto il mondo venivano riportati gli stessi sintomi: febbre alta, dolori alle ossa, cui potevano seguire emorragie dal naso (o addirittura dalle orecchie), muco rossastro, difficoltà respiratorie e da ultimo un colorito blu diffuso, segno di insufficiente ossigenazione. Se si arrivava a questo punto, la sorte era segnata. Simili in ogni parte del globo erano anche le scene descritte nelle cronache: intere famiglie distrutte, cadaveri accumulati per l’impossibilità di seppellirli, personale sanitario insufficiente e medici impotenti. Le stesse scene raccontate da Tucidide ad Atene, dai commentatori trecenteschi di fronte alla peste, e poi all’nizio dell’Ottocento durante le epidemie di colera. Nei paesi coinvolti nell’orrendo conflitto, l’epidemia portava ulteriore sgomento, colpendo in maniera particolare chi aveva già pagato un tributo più alto alla carneficina bellica: contrariamente al normale andamento della mortalità dell’influenza, la Spagnola uccise non solo bambini e anziani, ma ebbe una particolare virulenza nei giovani adulti. L’Italia, proprio nei giorni che concludevano la guerra, era preda dell’epidemia come il resto del mondo, e in Europa solo la Russia ebbe un maggior numero di infezioni e di morti. Come ben raccontato con dovizia di dettagli dal libro di Eugenia Tognotti La Spagnola in Italia (è uscita ora la nuova edizione riveduta per Franco Angeli), la sanità italiana non fu in grado di rispondere celermente alla sfida, dal momento che non vi fu immediata cooperazione tra sanità militare e il ramo civile. Le necessità dell’esercito, in un momento cruciale del conflitto, fecero passare in secondo piano i bisogni della popolazione, così che vi fu una penuria di personale sanitario soprattutto nel Mezzogiorno. I cittadini si trovarono quindi sprovvisti di adeguate informazioni, facendo nascere molte dicerie infondate riguardo la diffusione della malattia e i mezzi più adeguati per combatterla. Questo nonostante l’Italia sia stata uno dei primi paesi colpiti dalla seconda ondata della pandemia, quella più grave: l’influenza si presentò infatti una prima volta nella primavera del 1918, con gli stessi sintomi ma con mortalità nella media. In estate, dopo la ricombinazione con un virus di origine animale, ebbe inizio la strage: i primi casi furono segnalati negli stessi giorni nel sud Italia e nel porto francese di Brest, da dove poi il contagio si espanse agli Stati Uniti. La comunità medica dell’epoca era impotente e divisa: incapace di trovare un rimedio a quella che per molti era un’infezione batterica dovuta al cosiddetto bacillo di Pfeiffer (un’ipotesi che aveva comunque incontrato molto scetticismo in tutto il mondo), aveva visto fallire tutti i tentativi terapeutici e profilattici e assisteva al ritorno di credenze popolari e al proliferare di rimedi al limite della ciarlataneria.
L’influenza scomparve nella primavera del 1919, ripresentandosi poi nei due anni successivi: i dati sulla mortalità ci dicono che ancora fece più vittime del normale, ma l’immunizzazione acquisita dall’ondata precedente rese molto meno drammatico il bilancio. Ci sono voluti molti decenni per risolvere, almeno in parte, il mistero della Spagnola: dal permafrost in Alaska, sono stati riesumati cadaveri che nei tessuti polmonari conservati dal ghiaccio hanno permesso la ricostruzione del virus. Un’impresa già tentata negli anni Cinquanta ma poi portata a termine con successo solo grazie alle tecniche molecolari alla fine del XX secolo. Grazie agli esperimenti su animali modello (in particolare i furetti) il comportamento del virus del 1918 è stato studiato a fondo, per capire come mai fu così infettivo e letale: il segreto stava nella capacità di suscitare reazioni immunitarie anormali, che ne hanno facilitato la diffusione e causato quella strana mortalità nei giovani adulti. Per quest’ultimo aspetto, va inoltre considerata la storia delle epidemie influenzali, poiché con ogni probabilità gli ultra quarantenni godevano dell’immunità conferita dalla violenta epidemia che nel 1890 colpì l’Europa (la cosiddetta “Russa”).
Studiare i virus influenzali, passati e presenti, può quindi darci molte informazioni sul futuro: la principale eredità della Spagnola è stata la creazione di strutture globali di monitoraggio in grado di rispondere rapidamente alle epidemie, come dimostrato negli ultimi anni dagli allarmi sulle varie aviarie, suine, Sars, ecc. La lezione del 1918, quando il conflitto impedì una coordinazione internazionale efficace (tanto che si chiama spagnola perché la neutra Spagna fu l’unica a far filtrare le notizie sulla gravità dell’epidemia), sembra essere stata imparata, ma purtroppo non è mai troppo tardi per commettere antichi errori.
Mauro Capocci, Domenicale – Il Sole 24 Ore 3/5/2015