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 2015  maggio 03 Domenica calendario

SELFIE, COCKTAIL E CODA PER IL SUSHI UN SABATO DI STRUSCIO TRA I PADIGLIONI

La felicità è saltellare sulla rete elastica che ricopre come una superamaca l’intero padiglione brasiliano. «So funny!», ride con la straordinaria bravura degli americani a ritornare bambini George, 35 anni, da Dallas, Texas, in grand tour europeo per metabolizzare, o forse celebrare, il divorzio appena ottenuto.
Divertente, già. Diciamolo francamente: la folla vera, densa, con code, che ha riempito Expo ieri, nel primo giorno di apertura «vera», senza pioggia né politici fra i piedi, non è poi che si appassioni più di tanto alla biodiversità o al consumo responsabile o a nutrire il pianeta e via impegnandosi. Tutti temi importantissimi, per carità, che però restano in secondo piano rispetto alla curiosità di vedere finalmente quello di cui finora si è solo parlato.
Prendete Angela e Alfredo, lei biologa e lui agente di commercio da Cervino, provincia di Caserta, in fila ai metal detector insieme al figlio Paolo, quattro anni. Che aspettative avete? «Nessuna. Semplicemente, vogliamo vedere. Perché finora abbiamo letto moltissimo sugli scandali, le ruberie, le polemiche e ieri anche sui black bloc (”Sti str...!”, chiosa il vicino di coda, ed è difficile dargli torto) ma molto poco su quel che c’è lì dentro. Sull’Expo, l’unica cosa di cui siamo certi è che non volevamo perdercela».
L’autoscatto
E allora dentro. E’ un folla «bon enfant», accaldata, tecnologica (quanti selfie...), sorridente e beneducata: difficile vedere una cartaccia per terra. E, visto che i luoghi comuni sono anche veri, molti si comportano secondo gli stereotipi nazionali da barzellette grulle, tipo «ci sono un francese, un tedesco...». Appunto: sentito con le mie orecchie un francese lamentare che le lingue ufficiali dell’Expo siano solo l’italiano e l’inglese e «pas de français» (tipico). Quanto al tedesco, mi ha attaccato un bottone sulla crescita sostenibile dopo che gli avevo incautamente chiesto se l’Expo gli piacesse. Niente di strano, a parte che il colloquio si è svolto alla toilette, in piedi davanti ai rispettivi orinatoi: evidentemente un argomento degno di minzione.
C’è, ovviamente, tanto di tutto, con incroci inaspettati. Il padiglione forse più gettonato, quello brasiliano tutto da saltare, è proprio di fronte al nepalese, con le bandiere a mezz’asta, le foto del terremoto davanti all’ingresso e Gino che si fa il segno della croce con cristiana pietà: «Povera gente». Mentre per Bohuslav la felicità è nel padiglione di casa, quello della Repubblica Ceca, a piedi nudi nella piscina con un bicchiere di Pilsner vera (vale il viaggio) in mano, e pazienza se sul boccale incombe la scultura più mostruosa dell’Expo, un ircocervo con un uccello davanti e un’automobile dietro, boh.
Non si sa se l’Expo vincerà. Di certo hanno già perso i fighetti snob modello «quest’Expo ha già stufato prima ancora di cominciare», perché poi una volta dentro ti fermi inevitabilmente al concerto del padiglione kazako (anche perché le giacche degli steward a ramages color pupù su uno sfondo carta da zucchero meriterebbero da sole un pezzo sul giornale, oppure una perizia sullo stilista) e a scolarti un cocktail alla vodka a quello bielorusso (fortino: diciamo una vodka alla vodka). Quanto alle code, qualsiasi frequentatore seriale di Disneyland o di Gardaland sa che il trucco è scegliere bene l’ora: altrimenti capita che al padiglione giapponese, all’ora del sushi, ci sia mezz’ora buona di fila, però le hostess con la bombetta s’inchinano con grazia impareggiabile. Quanto a quello americano, è praticamente vuoto a parte un video di Obama che catechizza gli astanti sulle buone cause agroprogressiste. Commento con accento inconfondibile a babordo: «’Anvedi, ce sta pure Obama!». Anvedo, sì.
Adulti e carrozzine
Passano famiglie piene di figli e di passeggini, tre ragazzine romane venute qui in giornata, due per diporto e la terza perché deve fare la tesina sull’Expo, neolaureati di Matera molto seri e preparati, gruppi folk coreani, cantanti arabi, Alberto Arbasino elegantissimo in blu, comitive giapponesi ordinatissime e cinesi caotiche. Il bello confina con il kitsch, e viceversa. Davanti al padiglione francese c’è una scultura di Patrick Laroche, tre carciofi blu, bianco e rosso e «Mon Dieu!» (un compatriota assai chic con panama e foularino). E tutto è molto politicamente e dieticamente corretto, come il cartello intimidatorio su ogni tavolo del ristorante svizzero: «E assaggia prima, a (sic) aggiungi il sale dopo!» (però lo sminuzzato alla zurighese con i rosti non era affatto insipido).
Ma non importa: è una festa, fra lo struscio del sabato, solo che qui il corso Italia del paese si chiama Decumano, il parco dei divertimenti, la curiosità, la scoperta e qualche perplessità. Sono, siamo, tutti Alice nel Paese delle meraviglie, che è poi l’infinita diversità e bellezza del mondo.
Alberto Mattioli, La Stampa 3/5/2015