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 2015  maggio 03 Domenica calendario

SVEVA CASATI MODIGNANI

MILANO
Elegante e insospettabilmente settantaseienne, Bice Cairati alias Sveva Casati Modignani è come ci si dovrebbe aspettare una scrittrice all’uscita del ventiseiesimo romanzo, La vigna di Angelica, dopo che di bestseller per trentacinque anni non ne ha sbagliato uno: sorridente e tranquilla. Le ansie di prestazione le lascia agli altri. Le pose sofferte le detesta: «Devo dirle che io mi diverto come una pazza, a raccontare le mie storie. Mi DI-VER-TO. Quanto sento parlare della fatica dello scrittore, mi dico: ma se fai fatica cambia mestiere! Raccontare dev’essere una gioia. L’inghippo, sa, credo sia tutto qui. I miei libri piacciono perché catturano il lettore, e ci riescono perché prima le storie hanno catturato me. Gradisce un caffè? Ieri sera mi hanno portato dei cioccolatini da Lubecca, col cuore di marzipan…».
Tra divani a fiori e poltrone accoglienti, librerie ma non troppe, caminetto, boiserie sobrie e tazzina portata al volo («Lei è Maria, con me da anni, è ucraina, parla e legge l’italiano benissimo ed è una mia buona lettrice»), la casa racconta come sempre chi la abita. Quella di Bice-Sveva è una palazzina di due piani con giardino nascosto, incastrata tra una carrozzeria e un piccolo condominio nella periferia nord di Milano, tra via Padova e Crescenzago: dal Dopoguerra quartiere operaio, prima bordo città affacciata sui campi, negli ultimi anni zona di faticose miscele etniche. Ai milanesi suona il contrario di un indirizzo chic. Era la casa dei nonni, poi dei genitori (compare nei suoi memoir Il diavolo e la rossumata e Il bacio di Giuda), poi quella dove Bice Cairati ha cresciuto il figlio, con il marito Nullo Cantaroni che per un paio d’anni (seguiti da lunga malattia e morte nel 2004) è stato il secondo nome dietro la griffe Casati Modignani. Non potrebbe raccontare meglio che Bice-Sveva ama il comfort ma al prestigio delle etichette non bada. Neppure a quella del prestigio letterario opposto al “rosa”. Da trent’anni l’effetto collaterale di quell’opposizione (durata finché il ciclone Cinquanta sfumature non ha spinto le frontiere dell’evasione scritta oltre le regioni del cuore) è che ogni suo romanzo è stato ben recensito con l’inciso “benché l’autrice sia ignorata dalla critica”. Lei sorride: «Mai stato vero. Comunque l’ho sempre detto, non scambierei nessun premio con la soddisfazione di ricevere certe lettere. In una di qualche giorno fa, una donna mi scrive che ha letto il mio ultimo romanzo in un momento di depressione e mi ringrazia perché lì ha trovato un mondo, sogni e passione».
Una soddisfazione diversa deve arrivarle dalle citazioni, a cui solo due o tre titoli l’anno hanno diritto, nei bilanci delle case editrici. Lei c’è quasi sempre: “Palazzo Sogliano… per due settimane in testa alla classifica dei libri più venduti e ancora nei top cento a tre mesi dall’uscita, oltre duecentoquindicimila copie” (Relazione finanziaria Mondadori 2013, alla voce della controllata Sperling&Kupfer). L’anno prima: “Léonie... duecentoventisettemila copie”. C’è persino quando non scrive, come nel 2008: “Nella fiction la produzione Sperling&Kupfer cala di due milioni di euro per l’assenza della novità di Sveva Casati Modignani”. Più chiaro di così.
Meglio averlo presente, mentre Bice/Sveva racconta il lancio del nuovo romanzo, in questi giorni in libreria: «L’altro giorno ho fatto un incontro con un numero ristretto delle mie blogger, un tè offerto dall’editore a Palazzo Reale, a Milano, intitolato “Il caminetto”. Il nome viene dal piccolo rito che facciamo da trentacinque anni. Deve sapere che quando consegno un manoscritto, fino a quel momento lo ha letto una sola persona, la Cocca. La conosce?». Difficile negare: Donatella “Cocca” Barbieri, sorella di Tiziano Barbieri, che è stato lo scopritore di Sveva e il proprietario di Sperling&Kupfer fino alla sua morte nel 1994, per venti anni è stata presidente dell’Agenzia letteraria italiana e dal libro d’esordio di Sveva Casati Modignani, Anna dagli Occhi verdi (1981), è la sua editor. «Bene, io cerco di scrivere asciutto, ma la Cocca è una “asciugatrice” perfetta. Finito l’editing vengono tutti qui da me: amministratore delegato, capo degli editor, capo del marketing, ufficio stampa al completo. Mangiamo, in giardino se è estate o qui se fa freddo. Se stiamo qui accendiamo il caminetto e la Cocca, che come ho detto è l’unica ad aver letto il libro, lo racconta. Così dal 1981. Stavolta abbiamo pensato di estendere la “serata del caminetto” alle prime lettrici, ma ho detto: tutti da me no, eh? Abbiamo organizzato un tè». Avrà raccontato, “la Cocca”, che tra le novità della trama fissa su una donna forte innamorata, tradita, ri-innamorata, stavolta c’è che lei, l’Angelica del titolo, è una produttrice di vino e il principe azzurro uno chef impareggiabile e bello, ma colto discreto e silenzioso, a differenza di quelli in tv. «Mi è capitato di conoscere alcune “donne del vino”, fantastiche imprenditrici. Alcune sono vere amiche. Quando ho detto che avrei parlato di una di loro, in casa editrice mi hanno detto: che furbata, c’è l’Expo e sei già sul pezzo. Ma è un caso». Guarda, a volte, la fortuna… «Lo chef era d’obbligo: vino e cibo. Ho pensato: Angelica una love story così se la merita».
Più facile, comunque, che far sognare con mestieri come la produzione di rubinetterie (c’è riuscita in Léonie) o col pur singolare business dei corallari di Torre del Greco ( Palazzo Sogliano). Oggi sarebbe impensabile, invece, un palazzinaro squalo ma dall’animo nobile come il suo primo eroe, tale Cesare Boldrani di Anna dagli occhi verdi . «Sì, è vero. Trentacinque anni fa aveva un senso, ora è diverso. Qui c’è anche lo sfascio del territorio, la battaglia delle donne del vino per fare impresa in modo diverso, il costo dei tappi e delle bottiglie: lo sapeva che le comprano in Francia? Se devo dire che ci sono gli appalti truccati, la mafia che incontra la politica collusa, i disastri, io lo dico e lo scrivo. Ma sullo sfondo. Sa che ho rischiato perfino di occuparmi di Berlusconi?». Racconti. «Quindici anni fa quel genio che era Tiziano Barbieri, “Ciuffo” come lo chiamavamo tutti, viene a trovarmi e mi dice serio: Bice, credo che sia venuto il momento che tu scriva un romanzo su quell’uomo». E lei? «Gli dico: Ciuffo, ma mi vedi, passare un anno e mezzo della mia vita pensando a Berlusconi? È roba da spararsi. Io ho bisogno di cose che mi facciano sognare, non incazzare». E lui? «Fa quella sua boccuccia e incassa: forse hai ragione tu».
Acqua passata. Più difficile non tener conto di novità permanenti. Per esempio l’analisi del dna: ha messo fuori corso tutti gli intrighi basati sulle paternità presunte. O l’evoluzione femminile… «Il primo esempio è giusto, quello sulle donne va rovesciato. Quello che le donne hanno faticosamente conquistato è sempre stato dentro i miei libri. E anche i problemi: ho parlato di stupro, violenza domestica, ingiustizie e liberazioni, femminismo e pregiudizi. Trovo uno scandalo che nel mondo solo l’un per cento dei patrimoni sia in mano femminile.
E tra le lettere che conservo ce ne sono di donne che dopo aver letto Magìa, la storia di una moglie maltrattata, mi hanno scritto di aver trovato la forza di andarsene». Ciò che non cambia è la voglia d’amore? «E non mi pare certo un male. Per donne e uomini». Dev’essere stata più dura la prima volta che ha adottato un protagonista maschile, Mr. Gregory. «Sì, lo spunto reale era un uomo che ho conosciuto per molti anni, dirigeva un grande albergo che ho frequentato. È morto pieno di debiti, si è sparato in un residence. In effetti è stato più difficile entrare nella parte di un uomo, è una testa così semplice che non sai come articolare gli sviluppi. Le donne sono complicate ma ci arrivi, perché sono complicate come te. Poi una sera d’inverno sono uscita dall’impasse: ci pensavo guardando qui la tv, col mio cagnolino in braccio, quando a un tratto da quella porta è entrato un bambino di otto anni, blu dal freddo e con le ginocchia sbucciate. Era Gregorio, Mr. Gregory, e ha iniziato a raccontarmi la sua storia…». Spettrale… «Non è che io veda i fantasmi, è che i personaggi sono come vite degli altri che vengono a te, e fanno quello che vogliono». Così, alla fine, schivato il luogo comune numero uno degli scrittori — la fatica di scrivere — perfino la regina Sveva casca nel secondo, i miei personaggi hanno una vita loro. Però lei resta unica: gli scrittori di thriller lo dicono per giustificare il fatto che il detective si sveli nelle ultime dieci pagine un serial killer coi cadaveri in cantina; i romanzieri sofisticati lo spiegano per dire come mai una psicologia deraglia e ci vogliono tre capitoli perché l’incongruenza diventi abbagliante verità. Con Sveva Casati Modignani è il contrario: per quanto ai suoi personaggi tiri le briglie, loro restano plausibili e inemendabilmente devoti a una logica comune. La materia più duttile per plasmare sogni.
Maurizio Bono, la Repubblica 3/5/2015