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 2015  maggio 03 Domenica calendario

MILIONI&PALLONI– A Zurigo, nella sede della Fifa, c’è chi sostiene che il campanello d’allarme l’avesse suonato già quel genio sregolato di Diego Armando Maradona, con una delle sue frasi più caustiche: «Piuttosto che appartenere alla famiglia della Fifa, preferisco essere orfano»

MILIONI&PALLONI– A Zurigo, nella sede della Fifa, c’è chi sostiene che il campanello d’allarme l’avesse suonato già quel genio sregolato di Diego Armando Maradona, con una delle sue frasi più caustiche: «Piuttosto che appartenere alla famiglia della Fifa, preferisco essere orfano». Senza padri né madri (leggi: visioni e strategie a lungo termine), ma piena dei soliti dinosauri a gestire il potere, la Fédération Internationale de Football Association è l’emblema di un business nato in Occidente, cresciuto vertiginosamente nei numeri, ma poi rimasto come un colosso dai piedi d’argilla. Non solo calcio ovviamente: poco per sport e molto per affari, il (resto del) mondo ruota sempre più intorno a un pallone da basket, a una pallina da tennis o alle ruote di una F1. È l’ultimo “stadio” della globalizzazione, per qualcuno un neocolonialismo in cui stavolta sono petrodollari arabi e yuan cinesi, bath thailandesi o rupie indiane a conquistare terreno. L’Asia in generale è il nuovo forziere: con i paesi mediorientali del Golfo interessati sempre più alle squadre di calcio europee, mentre Giappone, Cina e Corea hanno messo gli occhi e talvolta anche già le mani sugli sport professionistici Usa. Repucom, la più grande agenzia in fatto di sport & entertainment intelligence, 1700 clienti e oltre 100mila brand monitorati a livello globale, ha da poco pubblicato un rapporto intitolato Emerging Giants, dedicato proprio agli investimenti planetari nel settore. I numeri parlano da soli: il 76,2% dei soldi freschi immessi a livello globale arrivano da Medio ed Estremo Oriente, con picchi rappresentati dagli oltre 100 miliardi destinati dal Qatar al mercato europeo negli ultimi due anni e dal +52% degli investimenti cinesi in America nel solo 2014. Per un mercato dello sport che risulta essere uno dei più appetibili in assoluto: 2,2 miliardi di potenziali clienti sul pianeta, di cui 1,6 miliardi di persone interessate al calcio e 1,2 al basket (di fatto i due “titoli-guida”). In copertina, oggi, c’è il dossier Milan. Sul piatto centinaia di milioni di euro e l’accordo con la cordata thailandese capeggiata dal milionario BeeTaechaubol. Ma alla società di Silvio Berlusconi si è interessata anche una squadra di 4 gruppi cinesi guidati dall’uomo d’affari di Hong Kong Richard Lee. Coinvolgendo anche big-spender come Jack Ma di Alibaba e il Wanda Group diWang Jianlin (quello che ha già comprato i diritti tv del calcio italiano attraverso la svizzera Infront, partner Fifa, e il 20% dell’Atletico Madrid in Spagna). Milan a parte, una lunga serie di operazioni sono state già portate a termine. Dall’indonesiano Thohir che ha comprato l’Inter dai Moratti (e ha anche una squadra di Washington nel portafogli), agli emiri del Qatar che hanno preso il Paris Saint Germain investendoci milioni e milioni (e si sono assicurati nel frattempo anche i Mondiali del 2022 nella loro capitale, Doha). E ancora: i soldi arabi dell’Abu Dhabi Holdings nel Manchester City, quelli dell’iraniano Farhad Moshiri nell’Arsenal, del milionario del Kuwait Fawaz Al-Hasawi nel Nottingham Forest. Mentre i cinesi di Huawei, colosso della telefonia, hanno stretto un accordo con i portoghesi del Benfica e i tedeschi del Borussia Dortmund. Ma c’è molto di più del mondo del pallone europeo, nel mirino. A livello assoluto – fra proprietà e sponsorship – gli investimenti asiatici negli sport professionistici Usa sono stati persino maggiori. I coreani di Hyundai, Samsung e Kia hanno destinato decine di milioni di dollari negli ultimi anni all’Nba (basket), alla Nfl (football americano), persino al Madison Square Garden (struttura per basket, hockey, wrestling e pugilato), mentre gli indiani di Tata hanno puntato sulla New York Marathon. Per citarne altri, ecco i soldi giapponesi per i San Francisco Giants (baseball), quelli cinesi per i New York Islanders (hockey su ghiaccio), investimenti pakistani per i Jacksonville Jaguars (football). «Già 20 anni fa i giapponesi di Nintendo, primi in assoluto, si interessarono allo sport americano», continuano i consulenti di Repucom. «Allora pareva un caso isolato e un po’ bizzarro, oggi invece gli investimenti asiatici negli Usa sono una realtà così in crescita che è difficile monitorarla». L’ultima novità è considerata quasi dirompente: nel 2017 una squadra nuova potrebbe aggiungersi al campionato di football Usa (al posto dei Chivas di Los Angeles che hanno chiuso nel 2014) grazie ai 100 milioni messi sul piatto dal duo malese Tan & Gnanalingam, in cordata con il vietnamita Henry Nguyen. Le ragioni di questo boom sono tante. In economia si definiscono key driver (fattori chiave) e nello sport business sono soprattutto: l’entertainment (con gli enormi diritti televisivi in paesi popolosi come la Cina o l’India, per esempio); la percentuale di popolazione giovane rispetto all’invecchiamento di mercati come quello europeo o americano (il 30% degli abitanti del Medioriente e addirittura il 60% dell’Asia pacifica ha meno di 29 anni); la crescita di economie in espansione che devono trovare nuovi mercati; la necessità di costruire brand nazionali nello sport e un mercato locale, attirando eventi sportivi come furono le Olimpiadi di Pechino del 2008 e saranno i Mondiali di calcio in Qatar. Non è un caso per esempio il sorpasso che la compagnia di bandiera di Dubai, Emirates, ha compiuto sui marchi tedeschi diventando il primo sponsor di squadre di calcio europee. O la strategia di Al Jazeera di diventare un global sport channel in grado di competere con colossi come Sky sport, del gruppo Murdoch. O i Gran Premi di Formula1 arrivati in paesi come la Malesia, diventati strategici come Monte Carlo. O ancora il tentativo della Cina di ottenere per uno dei tornei di tennis nazionali quel titolo di Grande Slam finora appannaggio solo dei blasonati Parigi, New York, Londra e Melbourne. E c’è da scommettere che accadrà, con 200 milioni di cinesi interessati oggi al tennis. «Alla domanda: “Ma l’arrivo di questi soldi asiatici è positivo o negativo per il nostro sport?”, io dico: è un gran bene». Non ha dubbi Dino Ruta, direttore dello Sport Knowledge Center della Sda Bocconi, uno dei più attenti osservatori in materia, di quelli che credono alle grandi potenzialità, anche in termini di occupazione, dello sport come business 3.0. «Che sia una grande squadra o un marchio sportivo, questi tycoon sono interessati all’acquisto per rendersi visibili e mettere un piede in mercati dove poi si occuperanno anche di altro. Io dico che così entrano nella “mappa” internazionale. Diventare proprietari di un Paris Saint-Germain o un Milan vale come un investimento plurimiliardario in pubblicità per le loro aziende. A questo va aggiunto che ovviamente puntano spesso ai mercati nazionali, attraverso il merchandising, per esempio». C’è una specificità del caso italiano? «Sì, l’Italia è indietro soprattutto con le sue istituzioni dello sport. Una Federazione o una Lega forte sarebbero capaci di gestire meglio anche gli investimenti in arrivo dall’estero. Un altro tema è quello delle competenze. Lo vedo anche con gli studenti, c’è un grandissimo interesse rispetto al mondo dello sport. E ci sono grandi prospettive. Si pensi al tema della gestione eventi, dell’ospitalità, delle sponsorizzazioni, della creazione di un database di clienti. Io auspico più coraggio: bisogna aprirsi a nuove competenze che arrivino anche da altri settori». «Il futuro comunque è segnato», concludono da Repucom: «L’ondata di investimenti da Medio Oriente e Asia in generale, nonostante la peggiore crisi economica globale dai tempi della Grande Depressione, ha contribuito positivamente all’aumento del valore dei principali sport americani ed europei. E questo è un buon indicatore della relativa immunità di alcuni sport alle crisi economiche. In particolare, i club cercano oggi una proprietà più stabile: aprendosi a sponsorizzazioni, diritti tv, a volte a partecipazioni nella proprietà». Il trend continuerà? «Sì. Le economie emergenti hanno grandi riserve di ricchezza, stanno attirando grandi eventi e competizioni, e investendo in infrastrutture a lungo termine». Regolamentare di più i nostri mercati nazionali potrebbe servire? «Una maggiore regolamentazione, se diventa chiusura da parte degli organi di governo dello sport in Europa e Usa, è un rischio. Questo limite andrà affrontato, ma i benefici commerciali ed economici continueranno: la globalizzazione dello sport è appena iniziata».